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Giovanni Francesco Straparola
Le piacevoli notti

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  • LIBRO SECONDO
    • NOTTE DECIMATERZA
      • FAVOLA X. Cesare napolitano, lungamente stato in studio a Bologna, prende il grado del dottorato; e venuto a casa, infilza le sentenze per saper meglio giudicare.
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FAVOLA X.

Cesare napolitano, lungamente stato in studio a Bologna, prende il grado

del dottorato; e venuto a casa, infilza le sentenze per saper meglio giudicare.

[Cateruzza:]

— Tre cose, leggiadre donne, distruggono il mondo e mandano ogni cosa sottosopra; la pecunia, il dispetto e il rispetto. Il che agevolmente potrete intendere, se alla mia favola benigna audienza prestarete.

Lodovico Mota, come avete altre volte inteso, fu uomo aveduto, saggio e de' primai della cittá di Napoli; e non avendo moglie, prese per donna la figliuola di Alessandro degli Alessandri, cittadino napolitano, e di lei ebbe un solo figliuolo, a cui impose nome Cesare. Venuto il figliuolo grandicello, gli diede un precettore che gl'insegnasse le prime lettere. Indi mandollo a Bologna per studiare in ragion civile e ragion canonica; e ivi avealo tenuto lungo tempo, ma poco profitto avea però egli fatto. Il padre, desideroso che il figliuolo diventasse eccellente, gli comprò tutti i libri de giureconsulti di ragion canonica e de dottori che hanno scritto nell'una e nell'altra facultá, e pensava ch'egli di gran lunga superasse tutti i causidici di Napoli, e davasi ad intendere che per tal causa gli avessino a toccare de buoni clientuli e cause di molta importanza. Ma Cesare, dottissimo giovane, mancandogli i primi fondamenti legali, era cosí nudo di lettere, ch'egli non intendeva quello che leggeva, e quello ch'aveva imparato recitava con grande audacia, anzi senza ordine e preposteramente, ponendo una cosa al contrario dell'altra e dimostrando l'ignoranza sua, perciò che togliendo il vero per lo falso e il falso per lo vero, contendeva molte volte con gli altri. E cosí come un otre pieno di vento ne andava alla scuola, turati gli orecchi e facendo castelli in aria; e perché a tutti quelli che sono ignoranti, è in bocca quel detto che dice che gli è cosa disdicevole e brutta il studiare a quelli c'hanno molte ricchezze, cosí costui ch'era ricco, o poco o niun profitto fece ne' studi di ragion civile e canonica. Per il che volendo con la sua ignoranza agguagliarsi a coloro ch'erano dottissimi, né avevano perso l'oglio e il tempo ne' continoi studi, tentò prosontuosamente d'ascendere al grado del dottorato. Propose adunque il fatto in senato, e accettati i punti della disputa, in presenzia del popolo fece publicamente la 'sperienza, dimostrando il nero per il bianco e il verde per il nero, credendo esso, cieco, che parimenti gli altri fussero ciechi. Nondimeno per buona sorte, per danari, per gran favore e amicizia, fu approvato e fatto dottore. Per il che accompagnato da gran comitiva di onorate persone, andando per la cittá con suoni di trombe e piffari, venne a casa con veste di seta e di porpora, che parea piú presto uno ambasciatore che un dottore.

Un giorno questo eccellente magnate, vestito di porpora con la stola di veluto, fece alcune cartelle, e legatele a guisa delle filze de' notai, quelle riponeva in un certo vaso. E sopravenendogli per aventura il padre, gli addimandò quello che far volesse di quelle carte. A cui diede egli questa risposta: — Trovasi scritto, o padre, ne' libri di ragion civile, che le sentenzie si deono connumerare tra i casi fortuiti. Io che ho considerata la mente e non la corteccia della legge, ho fatto queste filze per sorte, nelle quali ho notate alcune sentenzie, le quali, a Dio piacendo, quando pel vostro aiuto sarò giudice della gran corte, pronunzierò senza fatica a' litiganti. Non vi par egli, padre, ch'io abbia sottilmente investigato questa cosa? — Il padre, inteso questo, rimaso pel dolor mezzo morto, voltò le spalle, lasciando il disutel figliuolo nell'ignoranza sua. —




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