In Melano, antica e principal cittá di Lombardia, copiosa di
leggiadre donne, ornata di superbi palagi e abbondevole di tutte quelle cose
che ad una gloriosa cittá si convengono, abitava Ottaviano Maria Sforza, eletto
vescovo di Lodi, al quale per debito di ereditá, morto Francesco Sforza duca di
Melano, l’imperio del stato ragionevolmente apparteneva. Ma per lo ravoglimento
de’ malvagi tempi, per gli acerbi odi, per le sanguinolenti battaglie e per lo
continovo mutamento de’ stati, indi si partí, ed a Lodi con la figliuola
Lucrezia, moglie di Giovan Francesco Gonzaga, cugino di Federico marchese di
Mantova, nascosamente se n’andò, ivi per alcun tempo dimorando. Il che avendo
presentito li suoi, non senza suo grave danno il perseguitorono. Il miserello,
vedendo la persecuzione de’ parenti suoi ed il mal animo contra lui e la
figliuola che dinanzi era rimasa vedova, prese quelle poche gioie e denari che
egli si trovava avere, ed a Vinegia con la figliuola se n’andò: dove trovato il
Ferier Beltramo, uomo di alto legnaggio, di natura benigno, amorevole e gentile,
fu da lui insieme con la figliuola nella propia casa con strette accoglienze
onorevolmente ricevuto. E perché la troppa e lunga dimoranza nell’altrui case
il piú delle volte genera rincrescimento, egli con maturo discorso indi partire
si volse, ed altrove trovare propio alloggiamento. Laonde ascese un giorno con
la figliuola una navicella, ed a Morano se n’andò. Ed adocchiatovi un palagio
di maravigliosa bellezza che allora vuoto si trovava, in quello entrò; e
considerato il dilettevole sito, la spaziosa corte, la superba loggia, l’ameno
giardino pieno di ridenti fiori e copioso di vari frutti ed abbondevole di
verdeggianti erbette, quello sommamente comendò. Ed asceso sopra le marmoree
scale, vidde la magnifica sala, le morbide camere ed un verone sopra l’acqua,
che tutto il luogo signoreggiava. La figliuola, del vago e piacevole sito
invaghita, con dolci ed umane parole tanto il padre pregò, che egli a
compiacimento di lei il palagio prese a pigione. Di che ella ne sentí
grandissima allegrezza, perciò che mattino e sera se ne andava sopra il verone
mirando li squammosi pesci che nelle chiare e marittime acque in frotta a piú
schiere nuotavano, e vedendogli guizzare or quinci or quindi sommo diletto
n’apprendeva. E perché ella era abbandonata da quelle damigelle che prima la
corteggiavano, ne scelse dieci altre non men graziose che belle, le cui virtú e
leggiadri gesti sarebbe lungo raccontare. De’ quai la prima fu Lodovica, i cui
begli occhi, risplendenti come lucide stelle, a tutti che la guardavano ammirazione
non picciola porgevano. L’altra fu Vicenza, di costumi lodevoli, bella di forma
e di maniere accorta, il cui vago e delicato viso dava grandissimo refrigerio a
chiunque la mirava. La terza fu Lionora, la quale, avenga che per la sua
natural bellezza alquanto altera paresse, era però tanto graziosa e cortese,
quanto mai alcun’altra donna trovar si potesse. La quarta fu Alteria dalle
bionde trecce, la quale con fede e donnesca pietá di continovo alli servigi
della signora dimorava. La quinta fu Lauretta, vaga di aspetto ma sdignosetta
alquanto, il cui caro ed amoroso sguardo incatenava ciascuno che fiso la
mirava. La sesta fu Eritrea, la quale, quantunque picciola fusse, non però si
teneva alle altre di bellezza e di grazia inferiore, per ciò che in lei erano
duo occhi scintillanti e lucidi piú che ’l sole, la bocca piccola e ’l petto
poco rilevato, né cosa alcuna in lei si trovava che di somma laude degna non
fusse. La settima fu Cateruzza, per cognome Brunetta chiamata; la quale tutta
leggiadra, tutta amorosa, con le dolci ed affettuose sue parole non pur gli
uomini nelle amorose panie invescava, ma il sommo Giove avrebbe potuto far giú
discendere da l’alto cielo. L’ottava fu Arianna, giovane di etá, di faccia
venerabile, di aspetto grave e di eloquenza ornata; le cui divine virtú,
accompagnate da infinite lodi, come stelle in cielo sparte rilucono. La nona fu
Isabella, molto ingeniosa, la quale con le sue argute e vive proposte tutti i
circostanti ammirativi rendeva. L’ultima fu Fiordiana, prudente e d’alti
pensieri adornata, le cui egregie e virtuose opere avanzavano tutte quelle
ch’in ogn’altra donna si vedessero giammai. Queste adunque dieci vaghe
damigelle tutte insieme, e ciascheduna da per sé, servivano alla generosa
Lucrezia sua signora. La quale insieme con esso loro elesse due altre matrone
di venerando aspetto, di sangue nobile, di etá matura e pregiate molto, acciò
che con suoi savi consigli l’una alla destra, l’altra alla sinistra sempre le
fusse. L’una delle quai era la signora Chiara, moglie di Girolamo Guidiccione,
gentiluomo ferrarese; l’altra la signora Veronica, fu giá consorte di Santo
Orbat, antico e nobile di Crema. A questa dolce ed onesta compagnia concorsero
molti nobili e dottissimi uomini, tra’ quai il Casal bolognese, vescovo e del
re d’Inghilterra ambasciatore, il dotto Pietro Bembo, cavaliere del gran
maestro di Rodi, e Vangelista de’ Cittadini melanese, uomo di gran maneggio, il
primo luoco appresso la signora tenevano. Dopo costoro vi erano Bernardo
Cappello, fra gli altri gran versificatore, l’amoroso Antonio Bembo, il
domestico Benedetto Trivigiano, il faceto Antonio Molino detto Burchiella, il
cerimonioso Ferier Beltramo e molti altri gentiluomini, i cui nomi ad uno ad
uno raccontare sarebbe noioso.
Questi adunque tutti, overo la maggior parte di loro, quasi
ogni sera a casa della signora Lucrezia si riducevano; ed ivi ora con amorose
danze, ora con piacevoli ragionamenti ed ora con suoni e canti la
intertenevano; e cosí quando in un modo e quando in un altro il volubile e
fugace tempo passavano. Di che la gentil signora con le savie damigelle sommo
diletto n’apprendeva. Furono ancora tra loro sovente proposti alcuni problemi,
de’ quai la signora era sola difinitrice. E per ciò che oramai s’approssimavano
i giorni ultimi di carnesale dedicati alle piacevolezze, la signora a tutti
comandò che sotto pena della disgrazia sua a concistorio la seguente sera
ritornassero, acciò che divisar potessero il modo e l’ordine che avessero tra
loro a tenere.
Venute le tenebre della seguente notte, tutti secondo il
comandamento a loro fatto vi vennero; e messisi tutti a sedere secondo i gradi
loro, la signora cosí a dire incominciò: — Gentiluomini miei onorati molto, e
voi piacevoli donne, noi siamo qui raunati secondo l’usato modo, per mettere
regola a’ dolci e dilettevoli intertenimenti nostri, acciò che questo
carnesale, di cui oggimai pochi giorni ci restano, possiamo prendere alcun
piacevole trastullo. Ciascuno adunque di voi proponerá quello che piú gli
aggrada, e ciò che alla maggior parte parerá sie deliberato. — Le donne
parimente e gli uomini ad una voce risposero che era convenevole che ella
determinasse il tutto. La signora, vedendo esserle tal carico imposto,
rivoltasi verso la grata compagnia, disse: — Da poi che cosí vi piace, che io
di contentamento vostro ditermini l’ordine che si ha a tenere, io per me vorrei
che ogni sera, infino a tanto che durerá il carnesale, si danzasse: indi che
cinque damigelle una canzonetta a suo bel grado cantassero; e ciascheduna de’
cinque damigelle a cui verrá la sorte, debba una qualche favola raccontare,
ponendole nel fine uno enimma da essere tra tutti noi sottilissimamente
risolto. Ed ispediti tai ragionamenti, ciascuno di voi se n’anderá alle loro
case a posare. Ma se in questo il mio parere non vi piacesse (che disposta io
sono il voler vostro seguire), ciascuno di voi dirá quello che piú gli aggrada.
— Questo proponimento fu da tutti comendato molto. Laonde fattosi portare un
vasetto d’oro, e postivi dentro di cinque donne i nomi, il primo che uscí del
vaso, fu quello della vaga Lauretta; la quale per vergogna tutta arrossita
divenne come mattutina rosa. Indi, seguendo l’incominciato ordine, il secondo
che uscí fuori fu di Alteria il nome, il terzo di Cateruzza, il quarto di
Eritrea, il quinto di Arianna. Appresso questo comandò che gli stromenti
venissero; e fattasi recare una ghirlandetta di verde alloro, in segno di
maggioranza in capo di Lauretta la puose, comandandole che nella seguente sera
al dolce favoleggiare desse principio. Dopo volse che Antonio Bembo con gli
altri insieme facesse una danza. Egli, presto a’ comandamenti della signora,
prese per mano Fiordiana, di cui era alquanto invaghito; e gli altri parimenti
fecero il somigliante. Finita la danza, con tardi passi e con gli amorosi
ragionamenti i giovani con le damigelle si ridussero in una camera, dove erano
apparecchiati confetti e vini preziosi. E le donne e gli uomini, rallegratisi
alquanto, al motteggiare si diedero; e finito il dilettevole motteggiare,
presero licenza dalla generosa signora, e tutti con sua buona grazia si
partirono.
Venuta la seguente sera, e tutti
raunati all’onestissimo collegio, e fatti alcuni balli nella usata maniera, la
signora fece cenno alla vaga Lauretta che desse al cantare e al favoleggiare
principio. Ed ella senza piú aspettare che detto le fusse, levatasi in piedi e
fatta la debita riverenza alla signora ed ai circostanti, ascese uno luogo
alquanto rilevato, dove era la bella sedia di drappo di seta tutta guarnita; e
fattesi venire le quattro compagne elette, la seguente canzonetta con angeliche
voci in laude della signora tutte cinque in tal maniera cantorono:
Gli atti, donna gentil, modesti e grati,
con l’accoglienze vaghe e pellegrine,
salir vi fanno tra l’alme divine.
Vostro stato real ch’ogni altro avanza,
per cui divengo dolcemente meno,
e l’ornamento d’ogni laude pieno,
pascendomi di vostra alma sembianza,
tengon miei spirti in voi tanto avezzati,
che se voglio d’altrui formar parola,
dir mi convien di voi nel mondo sola.
Da poi che le cinque damigelle
tacendo dimostrarono la sua canzone esser venuta al glorioso fine, sonorono gli
stromenti; e la vezzosa Lauretta, a cui il primo luogo di questa notte per
sorte toccava, senza aspettare altro comandamento dalla signora, diede
principio alla sua favola cosí dicendo:
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