— Di tutte le cose che l’uomo fa
over intende di fare, o buone o rie che elle si siano, dovrebbe sempre il
termine maturamente considerare. Laonde, dovendo noi dar cominciamento a’
nostri dolci e piacevoli ragionamenti, assai piú caro mi sarebbe stato, se
altra donna che io al favoleggiare avesse dato principio; perciò che a tal
impresa non molto sofficiente mi trovo, perché di quella facondia che in tai
ragionamenti si richiede, al tutto priva mi veggio, per non mi essere
essercitata nell’arte dell’ornato e polito dire, sí come hanno fatto queste
nostre graziose compagne. Ma poiché cosí piace a voi, ed emmi dato per sorte
ch’io a ragionare sia la prima, acciò che ’l mio tacere a questa nostra
amorevole compagnia non cagioni disordine alcuno, con quella maniera di dire
che mi sará dal divino favore concessa, al nostro favoleggiare darò debole
cominciamento, lasciando l’ampio e spazioso campo alle compagne, che dopo me
verranno, di poter meglio e con piú leggiadro stile sicuramente raccontare le
loro favole, di ciò che da me ora udirete.
Beato, anzi beatissimo è tenuto quel figliuolo che con ogni
debita riverenza è ubidiente al padre, perciò che egli adempisce il
comandamento datoli dallo eterno Iddio, e lungamente vive sopra la terra, ed
ogni cosa che egli fa ed opera li riuscisce in bene. Ma pe ’l contrario quello
che gli è disubidiente, infelice anzi infelicissimo è riputato, perciò che a
crudele e malvagio fine riusciscono le cose sue, sí come per la presente
favola, che raccontarvi intendo, agevolmente potrete comprendere.
Dicovi adunque, graziose donne, che in Genova, cittá
antiquissima, e forse cosí dilettevole, o piú, come ne sia alcun’altra, fu, non
è gran tempo, un gentiluomo, Rainaldo Scaglia per nome chiamato, uomo nel vero
non meno abondevole de’ beni della fortuna che di quelli dell’animo. Egli,
essendo ricco e dotto, aveva uno figliuolo nominato Salardo, il quale amando il
padre oltre ogni cosa, lo ammaestrava ed accostumava, come dee fare un buono e
benigno padre, né li lasciava mancare cosa che li fusse di utile, onore e
gloria. Avenne che Rainaldo, essendo giá pervenuto alla vecchiezza, gravemente
s’infermò, e vedendo esser giunto il termine della vita sua, chiamò un notaio,
e fece il suo testamento, nel quale instituí Salardo suo universal erede; dopo
pregollo, come buon padre, che egli volesse tenere a memoria tre precetti né
mai scostarsi da quelli. De’ quai il primo fu che, per l’amor grande ch’egli
alla moglie portasse, secreto alcuno mai non le palesasse. L’altro, che per
maniera alcuna figliuolo da sé non generato non allevasse come suo figliuolo ed
erede de’ suoi beni. Il terzo, che non si sottoponesse a signore che per la sua
testa sola lo suo stato reggesse. Questo detto e datali la benedizione, rivolse
la faccia al pariete, e per spazio di un quarto d’ora spirò.
Morto adunque Rainaldo e rimaso Salardo erede universale,
vedendo che egli era giovane, ricco e di alto legnaggio, in luogo di pensare
all’anima del vecchio padre ed alla moltitudine de’ maneggi che come a nuovo
possessore de’ paterni beni gli occorrevano, diterminò di prendere moglie, e
trovarla tale e di sí fatto padre, che egli di lei ne rimanesse contento. Né
passò l’anno della morte del padre, che Salardo si maritò, e tolse per moglie
Teodora, figliuola di messer Odescalco Doria, gentiluomo genovese e de’ primi
della cittá. E perciò che ella era bella ed accostumata, ancor che sdegnosetta
fusse, era tanto amata da Salardo suo marito, che egli non pur la notte, ma
anche il giorno non si scostava da lei. Essendo amenduo piú anni dimorati
insieme, né potendo per aventura aver figliuoli, parve a Salardo, contro agli
ultimi paterni aricordi, di consenso della moglie, adottarne uno ed allevarlo
come suo legittimo e natural figliuolo, ed al fine lasciarlo erede del tutto. E
sí come nell’animo suo aveva proposto, cosí senza indugio eseguí, e prese per
adottivo figliuolo un fanciullo di una povera vedova, Postumio chiamato, il
quale da loro fu piú vezzosamente che non se li conveniva, nodrito ed allevato.
Passato certo tempo, parve a Salardo di partirsi di Genova ed
andar ad abitare altrove; non giá che la cittá non fusse bella ed onorevole, ma
mosso da un certo non so che appetito, che ’l piú delle volte trae coloro che
senza governo di alcuno superiore vivono. Presa adunque grandissima quantitá di
danari e di gioie e messe in assetto tutte le cavalcature e carriaggi, con
Teodora, sua diletta moglie, e con Postumio, suo adottivo figliuolo, da Genova
si partí, ed aviatosi verso Piamonte, a Monferrato se n’andò. Dove assettatosi
adagiamente, cominciò prendere amicizia con questo e con quello cittadino,
andando con esso loro alla caccia e prendendo molti altri piaceri de’ quai egli
molto si dilettava. E tanta era la magnificenza sua verso ciascuno, che non pur
amato, ma anche onorato era sommamente da tutti.
Giá era pervenuta alli orecchi del marchese la gran liberalitá
di Salardo, e vedendolo giovane, ricco, nobile, savio ed atto ad ogni impresa,
li prese tanto amore, che non sapeva stare un giorno che egli non lo avesse con
esso lui. E tanto era Salardo col marchese in amistá congiunto, che a chiunque
voleva dal signore grazia alcuna, era bisogno che egli andasse per le sue mani,
altrimenti la grazia non conseguiva. Laonde, vedendosi Salardo dal marchese in tanta
altezza posto, se ingegnava con ogni studio ed arte di compiacerli di tutte
quelle cose che giudicava potessero esserli grate. Il marchese, che parimente
era giovane, molto di andare a sparviere si dilettava, ed aveva nella sua corte
molti uccelli, bracchi ed altri animali, sí come ad uno illustre signore si
conviene; né mai pur una sol volta sarebbe andato alla caccia o ad uccellare,
se Salardo seco stato non fusse.
Avenne che, ritrovandosi Salardo un giorno nella sua camera
solo, cominciò tra sé stesso pensare al grande onore che li faceva il marchese;
dopo si riduceva a mente le maniere accorte, i graziosi gesti, gli onesti
costumi di Postumio, suo figliuolo, e come egli gli era ubidiente. E cosí
stando in questi pensieri, diceva: — Deh quanto il padre mio se ingannava!
certo io dubito che egli teneva del scemo, come il piú degli insensati vecchi
fanno. Io non so qual frenesia, anzi sciocchezza lo inducesse a comandarmi
espressamente di non dover allevare figliuolo da me non generato, né sottopormi
alla testa d’un signore che solo signoreggiasse. Io ora vedo gli suoi precetti
esser molto dalla veritá lontani; perciò che Postumio è mio figliuolo adottivo
né mai lo generai, ed egli è pur buono, savio, gentile, accostumato ed a me
molto ubidiente. E chi mi potrebbe piú dolcemente carezzare ed onorare di ciò
che fa il marchese? Egli è pur testa sola, né ha superiore; nondimeno, tanto è
l’amore che egli mi porta, e tanto mi onora, che basterebbe io li fussi
superiore e che egli temesse me. Di che tanto mi maraviglio, che io non so che
mi dire. Sono certamente alcuni vecchi insensati, i quali non ricordandosi di
quello che hanno fatto nella loro gioventú, vogliono dar leggi ed ordini ai
loro figliuoli, imponendoli carichi che elli col dito non toccherebbeno. E ciò
fanno non per amore che li portino, ma mossi da una simplicitá, acciò che
lungamente stiano in qualche travaglio. Ora io di due delle gravezze impostemi
da mio padre sono oltre la speranza riuscito a lieto fine, e presto voglio fare
della terza larga isperienza; e tengo certo che la cara e dolce mia consorte mi
confermerá molto piú nel suo cordiale e ben fondato amore. Ed ella, che io amo
piú che la luce degli occhi miei, ampiamente scoprirá quanta e qual sia la
simplicitá, anzi pazzia, della misera vecchiaia, la quale allora molto piú si
gode, quando empie il suo testamento di biasmevoli condizioni. Conosco ben ora
che ’l padre quando testava era di memoria privo e come vecchio insensato e
fuori di sé faceva gli atti da fanciullo. In chi potrei io piú sicuramente
fidarmi che nella propia moglie? La quale, avendo abbandonato il padre, la
madre, i fratelli, le sorelle e la propia casa, si è fatta meco una istessa
anima ed uno istesso cuore. Laonde rendomi sicuro che io le posso aprire il mio
secreto, quantunque quello importantissimo sia. Farò adunque isperienza della
sua fede, non giá per me, che io sono certo mi ami piú di sé medesima, ma solo
tentarolla ad esempio de’ semplici giovani, i quali scioccamente credono essere
peccato irremissibile il contrafare a’ pazzi ricordi de’ vecchi padri, i quali,
a guisa di uomo che sogna, entrano in mille frenesie e continovo vacillano. —
Deleggiando adunque Salardo tra sé stesso in tal maniera i
saggi e ben regolati comandamenti paterni, deliberossi di contravenire al
terzo. Onde uscito di camera e sceso giú delle scale, senza mettervi indugio
alcuno, se ne andò al palagio del Marchese, ed appressatosi ad una stanga dove
erano molti falconi, ne prese uno che era il migliore ed al marchese piú caro,
e senza che egli fusse da alcuno veduto, via lo portò; e chetamente andatosene
a casa di uno suo amico, nominato Fransoe, glielo appresentò, pregandolo, per
lo amore grande che era tra loro, custodire lo dovesse fino a tanto che egli
intendesse il voler suo; e ritornatosene a casa, prese uno de’ suoi, e
secretamente, senza che alcuno lo vedesse, lo uccise, e portollo alla moglie,
cosí dicendole: — Teodora, moglie mia diletta, io, come tu puoi ben sapere, non
posso con questo nostro marchese aver mai pur un’ora di riposo, perciò che egli
ora cacciando, ora uccellando, ora armeggiando ed ora facendo altre cose, mi
tiene in sí continovo essercizio, che io non so alle volte se io sia morto o
vivo. Ma per rimuoverlo dallo andare tutto il dí alla caccia, io gli ho fatto
una beffa, che egli si vedrá poco contento, e forse egli per alquanti giorni
riposerá, lasciandone ancor noi altri posare. — A cui disse la moglie: — E che
gli avete fatto voi? — A cui rispose Salardo: — Io gli ho ucciso lo miglior
falcone e lo piú caro che egli abbia, e penso, quando egli non lo trovi, quasi
da rabbia non moia. — Ed apertisi li drappi dinanzi, cavò fuori il falcone
ucciso e diello alla moglie, imponendole che lo facesse cucinare, che a cena
per amor del marchese lo mangerebbe. La moglie, udendo le parole del marito e
vedendo il falcone ucciso, molto si ramaricò, e voltatasi contra lui, lo
cominciò rimproverare, caricandolo fortemente dello errore commesso. — Io non
so come voi avete mai potuto commettere sí grave eccesso, oltraggiando lo
signor marchese, che tanto cordialmente vi ama. Egli vi compiace di tutto ciò
che voi addimandiate, ed appresso questo voi tenete il primo luoco appo la
persona sua. Ohimè, Salardo mio, voi vi avete tirata una gran roina addosso! Se
per aventura lo signor venisse a saperlo, che sarebbe di voi? Certo voi
incorrereste in pericolo di morte. — Disse Salardo: — E come vuoi tu che egli
lo intenda? Niuno sa questo se non tu ed io. Ma ben ti prego per quello amore
che m’hai portato e porti, che questo secreto appalesar non vogli; perciò che
manifestandolo ne saresti e della tua e della mia total roina cagione. A cui la
moglie rispose: — Non dubitate punto, che io piú tosto soffrirei di morire, che
mai tal secreto rivelare. — Cotto adunque e ben concio il falcone, Salardo e Teodora
si puosero a sedere a mensa, e non volendo ella mangiare del falcone, né
attendere alle parole del marito che a mangiare dolcemente la esortava, Salardo
alzò la mano e sopra ’l viso le diede sí fatta guanzata, che le fece la guanza
destra tutta vermiglia. Il perché ella si mise a piangere e dolersi che egli
battuta l’aveva, e levatasi da mensa, tuttavia barbottando, lo minacciò che di
tal atto in vita sua si ricorderebbe, ed a tempo e luoco si vendicarebbe. E
venuta la mattina, molto per tempo si levò di letto, e senza porre indugio alla
cosa, andossene al marchese, e puntalmente li raccontò la morte del falcone. Il
che intendendo, il marchese si accese di tanto sdegno ed ira, che lo fece
prendere, e senza udir ragione e difesa alcuna, comandò che in quello instante
fusse impiccato per la gola e che tutti gli suoi beni fussero divisi in tre
parti, de’ quai l’una data fusse alla moglie che accusato lo aveva, l’altra al
figliuolo e la terza fusse assignata a colui che lo impiccasse. Postumio, che
era ben formato della persona ed aitante della vita, intesa la sentenza fatta
contro il lui padre e la divisione de’ beni, con molta prestezza corse alla
madre, e dissele: — O madre, non sarebbe meglio che io sospendessi il padre mio
e che io guadagnassi il terzo de’ suoi beni, che alcun’altra strana persona? —
A cui rispose la madre: — Veramente, figliuolo mio, tu hai ben discorso; perciò
che, facendolo, la facultá di tuo padre rimarrá integralmente a noi. — E senza
mettergli intervallo di tempo, il figliuolo se ne andò al marchese e chieseli
grazia di sospendere il padre, acciò che della terza parte de’ suoi beni, come
carnefice, successore rimanesse. La dimanda a Postumio dal marchese fu
graziosamente concessa.
Aveva Salardo pregato Fransoe, suo fedel amico, a cui aperto
aveva lo suo secreto, che, quando la famiglia del marchese lo conducesse per
darli la morte, che egli fusse presto ad andare al marchese, pregandolo Salardo
li fusse menato dinanzi, e, prima che fusse giustiziato, benignamente lo
ascoltasse. Ed egli, sí come imposto li fu, cosí fece. Dimorando l’infelice
Salardo co’ ceppi a’ piedi nella dura prigione, ed aspettando di ora in ora di
esser condotto al patibolo della ignominiosa morte, tra sé duramente piangendo
a dire incominciò: — Ora conosco e chiaramente comprendo il mio vecchio padre
con la sua lunga isperienza aver provisto alla salute mia. Egli prudente e
savio mi diede il consiglio, ed io ribaldo e insensato lo sprezzai. Egli per
salvarmi mi comandò che io fuggessi questi miei domestici nemici; ed io, acciò
mi uccidessino e poi di mia morte ne godessino, me li sono dato in preda. Egli,
conoscendo la natura de’ prencipi che in un’ora amano e disamano, essaltano ed
abbassano, mi confortò stare da quelli lontano; ed io, per perdere la robba,
l’onore e la vita, incautamente li ricercai. Oh Dio volesse che io mai
ispermentata non avessi l’infida mia moglie! O Salardo, quanto meglio ti
sarebbe se sequitato avesti la paterna traccia, lasciando a’ lusinghieri ed
agli adulatori il corteggiare i prencipi e signori! Ora io veggio a che
condotto mi ha il troppo fidarmi di me stesso, di mia moglie e del scelerato
figliuolo, e sopra tutto il troppo credere all’ingrato marchese. Ora sono
chiaro quanto egli mi amasse. E che peggio potevami egli fare? Certamente nulla;
perciò che e nella robba e nell’onore e nella vita ad un tratto mi offende. Oh
quanto presto l’amor suo è in crudo ed acerbo odio rivolto! Ben vedo ora il
proverbio, che volgarmente si dice, esser verificato: cioè il signore esser
simile al vino del fiasco, il quale la mattina è buono, e poi la sera guasto. O
misero Salardo, a che sei venuto? dov’è ora la tua nobiltá? dove sono i cari
parenti tuoi? dove sono le ampie ricchezze? dov’è ora la tua lealtá, integritá
ed amorevolezza? O padre mio, io credo che tu, riguardando, cosí morto come
sei, nel chiaro specchio dell’eterna bontá, mi vedi qua condotto per esser
sospeso non per altra cagione se no per non aver creduto né ubidito a’ tuoi
savi ed amorevoli precetti; e credo che con quella tenerezza di cuore, che giá
mi amasti, ancora adesso mi ami, e preghi il sommo Iddio che l’abbi compassione
de’ sciocchi miei giovenili errori; ed io, come ingrato tuo figliuolo e
disubidiente a’ comandamenti tuoi, pregoti mi perdoni. —
Mentre che in tal modo tra sé stesso Salardo sé medesimo
riprendeva, Postumio, suo figliuolo, come ben ammaestrato carnefice, se ne andò
con la sbirraglia alla prigione; e arrogantemente appresentatosi innanzi al
padre, disse tai parole: — Padre mio, poi che per sentenza del signor marchese voi
senza dubbio dovete esser sospeso, e dovendosi dar la terza parte de’ vostri
beni a colui che fará l’ufficio de impiccarvi, e conoscendo lo amore che voi mi
portate, io so che voi non arrete a sdegno se io farò cotal ufficio; perciò
che, facendolo, i beni vostri non anderanno nelle altrui mani, ma ci resteranno
in casa come prima: e di ciò voi ne rimarrete contento. — Salardo, che
attentamente ascoltate aveva le parole del figliuolo, rispose: — Iddio ti
benedica, figliuolo mio; tu hai pensato ciò che molto mi piace, e se prima
moriva scontento, ora, intese le tue parole, me ne morrò contento. Fa adunque,
figliuol mio, l’ufficio tuo, e non tardare. — Postumio prima li dimandò perdono
e basciollo in bocca; dopo, preso il capestro, glielo pose al collo, essortandolo
e confortandolo che pazientemente sopportasse tal morte. Salardo, vedendo il
mutamento delle cose, attonito e stupefatto rimase; e uscito della prigione con
le mani dietro legate e col capestro ravolto al collo, accompagnato dal
carnefice e dalla sbirraglia, si aviò con frettoloso passo verso il luoco della
giustizia; e giuntovi, rivolse le spalle alla scala che era appoggiata alla
forca, ed in tal modo di scaglione in scaglione quella ascese. E con intrepido
e costante animo pervenuto al deputato termine della scala, guardò d’intorno al
popolo, e raccontógli a pieno la causa per la quale egli era condotto alla
forca: dopo con dolci ed amorevoli parole d’ogni oltraggio umilmente dimandò
perdono, essortando i figliuoli ad esser ubidienti ai loro vecchi padri. Udita
che ebbe il popolo la causa della condannazione di Salardo, non vi fu veruno
che dirottamente non piangesse la sciagura del sventurato giovane, e che non
desiderasse la sua liberazione.
Mentre che le sopradette cose si facevano, Fransoe se ne era
andato al palagio, al marchese tai parole dicendo: — Illustrissimo signor, se
mai favilla di pietá fu accesa nel petto di giusto signore, rendomi certo
quella raddoppiarsi in voi, se con la solita clemenza considerarete la
innocenza dell’amico, all’estremo di morte giá condotto per errore non
conosciuto. Qual causa, signor mio, vi indusse a sentenziare a morte Salardo
che tanto cordialmente voi amavate? Egli non vi ha mai offeso, né pur pensato
di offendervi. Ma se voi, benignissimo signore, commetterete il fedelissimo
amico vostro esser qui alla presenza vostra condotto innanzi che egli moia,
farovvi apertamente conoscere la innocenza sua. — Il marchese con gli occhi per
ira affocati, senza altra risposta all’amico Fransoe rendere, volevalo al tutto
da sé scacciare; quando egli, gittatosi a terra ed abbracciateli le ginocchia,
tuttavia piangendo, cominciò gridare: — Mercé, signor giusto, mercé, signor
benigno! non moia, pregoti, per tua cagione lo innocente Salardo. Cessi la
perturbazione tua, ed io manifesterotti l’innocenza sua. Cessa per un’ora,
signore, per amore della conservata sempre da’ tuoi vecchi e da te giustizia!
Non sia detto di te, signore, che si strabocchevolmente senza causa facci
morire i tuoi amici. — Il marchese, tutto sdegnoso contra Fransoe, disse: —
Vedo che tu attendi d’esser compagno di Salardo; e se poco piú accendi il fuoco
di mia ira, a mano a mano te li metterò appresso. — Disse Fransoe: — Signore,
io sono contento che la lunga mia servitú abbia questo ricompenso che tu faccia
impiccarmi insieme con Salardo, se non lo trovi innocente. — Il marchese,
considerata la grandezza dell’amico Fransoe, fra sé stesso pensò che senza
certezza della innocenza sua egli non si obligarebbe ad essere suspeso con
Salardo, e perciò disse che era contento che si soprastesse per un’ora, e non
provando Fransoe lui esser innocente, s’apparecchiasse a ricevere la morte con
esso lui. E fattosi chiamare uno servente, gli ordinò che egli andasse al luoco
della giustizia imponendo per nome suo a’ ministri che piú oltre non
precedessero, e che Salardo, cosí legato e col capestro al collo, dal carnefice
accompagnato, alla presenza sua fusse condotto.
Giunto Salardo alla presenza del marchese e veggendolo ancora
nella faccia infiammato, fermò il suo altiero animo; e con asciutto viso ed
aperto né da parte alcuna turbato, cosí li disse: — Signor mio, la servitú mia
verso te e l’amore che io ti porto, non avevan meritato l’oltraggio e la
vergogna che mi hai fatta condannandomi a vituperevole ed ignominiosa morte. E
quantunque il sdegno preso per la mia gran follia, se follia dir si dee, voglia
che tu contra tua natura in me incrudelisca, non però dovevi, senza udire la
ragione, sí frettolosamente condannarmi a morte. Il falcone, per la cui pensata
morte sei contra me focosamente adirato, vive ed è in quel stato che era prima;
né io lo presi per ucciderlo né per oltraggiarti, ma per far piú certa
isperienza d’un mio celato oggetto: il quale ora ora ti sará manifesto. — E
chiamato Fransoe che ivi era presente, lo pregò che il falcone portasse e al
caro e dolce suo padrone rendesse. E da principio sino alla fine li raccontò
gli amorevoli comandamenti del padre e la contrafazione loro. Il marchese,
udite le parole di Salardo che uscivano dalle intime parti del cuore, e veduto
il suo falcone grasso e bello piú che prima, quasi muto divenne. Ma poscia che
alquanto in sé medesimo rivenne e considerò l’error suo in aver inavedutamente
condannato lo innocente amico a morte, alciò gli occhi quasi di lagrime pregni,
e guardando fiso nel volto di Salardo, cosí li disse: — Salardo, se ora tu
potesti penetrare con gli occhi della parte di dentro del mio cuore,
apertamente conosceresti che la fune, che ti ha fin ora tenute legate le mani,
e il capestro, che ti ha circondato il collo, non hanno apportato a te tanto
dolore quanto a me affanno, né tanta pena a te quanta a me doglia; né penso mai
piú viver lieto e contento, poi che in tal maniera ho offeso te che con tanta
sincera fede mi amavi e servivi. E se possibil fusse che quello è giá fatto si
potesse annullare, io per me lo annullarei. Ma essendo ciò impossibile,
sforzerommi con ogni mia possa di ristaurare in tal guisa la ricevuta offesa,
che di me rimarrai contento. — Ciò detto, il marchese con le propie mani li
trasse il capestro dal collo e le mani li sciolse, abbracciandolo con somma
amorevolezza e piú fiate basciandolo; e presolo con la destra mano, lo fece
appresso sé sedere.
E volendo il marchese che ’l laccio fusse posto al collo di
Postumio per i suoi malvagi portamenti, ed impiccato, Salardo no ’l permesse;
ma fattolo venire a sé innanzi, disseli tai pa role: — Postumio, da me per Dio
da fanciullo insino a cotesta etá allevato, io di te sallo Iddio che non so che
fare. Da l’una parte mi tira l’amore che io fin ora ti ho portato; da l’altra
mi trae lo sdegno contra te per li tuoi mali gesti conceputo. L’uno vuole che
come buon padre ti perdoni; l’altro mi essorta che contra te rigidamente
m’incrudelisca. Che debbo dunque far io? Se io ti perdono, sarò mostrato a
dito; se farò la giusta vendetta, farò contra lo divino precetto. Ma acciò che
io non sii detto troppo pio né troppo crudele, torrò la via di mezzo: e da me
non sarai corporalmente punito, né anche ti fia da me al tutto perdonato.
Prendi adunque questo capestro che tu mi avevi avinchiato al collo, ed in
ricompenso de’ miei beni, che tu desideravi avere, lo porterai teco,
ricordandoti sempre di me e del tuo grave errore: stando da me sí lontano, che
mai non possi piú sentir nova di te. — E cosí detto, lo scacciò da sé, e
mandollo in sua mal’ora; né piú di lui se intese novella alcuna. Ma Teodora,
alle cui orecchie era giá pervenuta la nova della liberazione di Salardo, se ne
fuggí; e andatasene in un monasterio di suore, dolorosamente finí la vita sua.
Indi Salardo, persentita la morte di Teodora sua moglie, chiese buona licenza
dal marchese, e da Monferrato si partí ed a Genova ritornò: dove lietamente
lungo tempo visse, e per Dio dispensò la maggior parte de’ suoi beni,
ritenendone tanti, quanti fussero bastevoli al viver suo. —
Aveva la favola da Lauretta
raccontata, piú volte mosse le compagne a lagrimare; ma poi che intesero
Salardo esser liberato dalla forca, e Postumio vituperevolmente cacciato, e
Teodora miseramente morta, si rallegrarono molto, e resero le debite grazie a
Dio che da morte l’avea campato. La signora, che attentamente ascoltata aveva
la pietosa favola e quasi ancora da dolcezza piangeva, disse: — Se queste altre
donzelle nel narrar le loro favole si porteranno sí valorosamente come ha fatto
la piacevole Lauretta, ciascheduna di noi si potrá agevolmente contentare. — E
senza dir altro, né aspettar altra risposta, le comandò che ’l suo enimma
proponesse, acciò che l’ordine dato nella precedente sera si osservasse. Ed
ella presta a’ suoi comandamenti con lieto viso cosí disse:
Nacqui tra duo serragli incarcerata;
e di me nacque dopo un tristo figlio,
grande come sarebbe, ohimè mal nata!
un picciol grano di minuto miglio:
da cui per fame fui poi divorata,
senza riguardo alcun, senza consiglio.
O trista sorte mia dura e proterva,
di madre non poter restar pur serva!
Non senza grandissimo diletto fu da
tutti ascoltato il dotto ed arguto enimma dalla festevole Lauretta
ingeniosamente raccontato, e chi in uno modo e chi in un altro lo interpretorono.
Ma niuno fu che aggiungesse al segno. Laonde la vaga Lauretta, vedendolo
irresolubile rimanere, sorridendo disse: — Lo enimma per me proposto, se io non
erro, altro non significa se non la fava secca, la quale, essendo nata, giace
chiusa tra duo serragli, cioè due scorze; dopo nasce di lei, a guisa di un
granello di miglio, un vermicello, il quale sí fieramente la rode e consuma,
che, di madre, serva non può rimanere. —
Ad ognuno maravigliosamente piacque la isposizione di
Lauretta, e tutti ad una voce molto la comendorono. La quale, fatta la debita
reverenza, al suo luoco si pose a sedere. Ed Alteria, la quale appresso
Lauretta sedeva ed a cui il secondo luoco di favoleggiare toccava, desiderosa
piú di dire che di ascoltare, non aspettando altro comandamento dalla signora,
in tal maniera a dire incominciò:
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