Aveva giá Febo le dorate rote
nelle salse onde dell’indiano mare, ed i suoi raggi non davano piú splendore
alla terra, e la sua cornuta sorella le oscure tenebre con la sua chiara luce
signoreggiava per tutto, e le vaghe e scintillanti stelle avevano giá il cielo
del suo lume dipinto, quando l’onesta ed orrevole compagnia al luogo solito a
favoleggiare si ridusse. E messisi tutti, secondo i gradi loro, a sedere, la
signora Lucrezia comandò che l’ordine, nella precedente sera tenuto, in questa
osservar si dovesse. E perciò che cinque delle damigelle restavano a novellare,
la signora impose al Trivigiano che i loro nomi scrivesse e nel vasetto d’oro
li ponesse: traendoli dal vaso ad uno ad uno, sí come fu fatto nella prima
sera. Il Trivigiano, ubidiente molto alla sua signora, essequí il comandamento
suo. E per sorte il primo che uscí del vaso, fu d’Isabella il nome: il secondo,
di Fiordiana: il terzo, di Lionora: il quarto, di Lodovica: il quinto fu di
Vicenza. Poscia al suono de’ flauti cominciorono a carolare, menando il Molino
e Lionora la ridda. Di che le donne e parimente gli uomini fecero sí gran risa,
che ancora ridono. Finito il ballo tondo, tutti si puosero a sedere; e le
damigelle una dolce ed amorosa canzone in laude della signora in tal guisa allegramente
cantorono:
I’ dico e dirò sempre,
né fia chi mai di tal pensier mi mute,
ch’essempio siete voi d’ogni virtute.
con gli atti riverenti, onesti e saggi,
ch’escono de’ bei raggi,
s’adorna quel che bello il mondo chiama.
e chi seguir non brama
l’opre gentil, quai fan che mi distempre,
degno non è di fama,
né di gustar il ben de l’altra vita,
al cui valor vostra bontá c’invita.
Finita l’amorosa canzone, Isabella,
a cui per sorte aveva toccato il primo luogo della seconda notte, lietamente al
favoleggiare diede principio, cosí dicendo:
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