ed egli con una finta festa di ciascheduna si vendica.
— Io non avrei mai creduto, valorose donne, né pur imaginato
che la signora mi avesse dato carico di dover favoleggiare: e massimamente
toccando la volta alla signora Fiordiana, avenutale per sorte. Ma poscia che a
Sua Altezza cosí piace, ed è di contentamento di tutti, io mi sforzerò di
raccontare cosa che vi sia di sodisfacimento. E se per aventura il mio
ragionare, che Iddio non voglia, vi fosse noioso, o che passasse di onestá il
termine, mi averete per iscuso, e incolparete la signora Fiordiana, la quale di
tal cosa n’è stata cagione.
In Bologna, nobilissima cittá di Lombardia, madre de’ studi e
accomodata di tutte le cose che si convengono, ritrovavasi uno scolare,
gentiluomo cretense, il cui nome era Filenio Sistema, giovane leggiadro e
amorevole. Avenne che in Bologna si fece una bella e magnifica festa, alla
quale furono invitate molte donne della cittá e delle piú belle; e vi
concorsero molti gentiluomini bolognesi e scolari, tra’ quali vi era Filenio.
Costui, sí come è usanza de’ giovani, vagheggiando ora l’una ed ora l’altra
donna, e tutte molto piacendoli, dispose al tutto volere carolare con una di
esse loro. Ed accostatosi ad una che Emerenziana si chiamava, moglie di messer
Lamberto Bentivogli, la chiese in ballo. Ed ella, che era gentile e non men
ardita che bella, non lo rifiutò. Filenio adunque, con lento passo menando il
ballo e alle volte stringendole la mano, con bassa voce cosí le disse: —
Valorosa donna, tanta è la bellezza vostra, che senza alcun fallo quella
trapassa ogni altra che io vedessi giamai. E non vi è donna veruna a cui
cotanto amore io porti, quando alla Vostra Altezza: la quale se mi
corrisponderá nell’amore, terrommi il piú contento e il piú felice uomo che si
truovi al mondo; ma altrimenti facendo, tosto vedrammi di vita privo, ed ella
ne sará stata della mia morte cagione. Amandovi adunque io, signora mia, com’io
fo ed è il debito mio, voi mi prenderete per vostro servo, disponendo e di me e
delle cose mie, quantunque picciole siano, come delle vostre proprie. E grazia
maggiore dal cielo ricevere non potrei, che di venire suggetto a tanta donna,
la quale come uccello mi ha preso nell’amorosa pania. — Emerenziana, che
attentamente ascoltate aveva le dolci e graziose parole, come persona prudente,
finse di non aver orecchie, e nulla rispose.
Finito il ballo e andatasi Emerenziana a sedere, il giovane
Filenio prese un’altra matrona per mano, e con esso lei cominciò ballare; né
appena egli aveva principiata la danza, che con lei si mise in tal maniera a
parlare: — Certo non fa mestieri, gentilissima madonna, che io con parole vi
dimostri quanto e quale sia il fervido amore che io vi porto e porterò, fin che
questo spirito vitale reggerá queste deboli membra e infelici ossa. E felice,
anzi beato mi terrei, allora quando io vi avessi per mia patrona, anzi singolar
signora. Amandovi adunque io sí come io vi amo, ed essendo io vostro, sí come
voi agevolmente potete intendere, non arrete a sdegno di ricevermi per vostro
umilissimo servitore, perciò che ogni mio bene e ogni mia vita da voi e non
altronde dipende. — La giovane donna, che Pantemia si chiamava, quantunque
intendesse il tutto, non però li rispose, ma la danza onestamente seguí; e
finito il ballo, sorridendo alquanto si puose con le altre a sedere.
Non stette molto che lo innamorato Filenio prese la terza per
mano: la piú gentile, la piú graziata e la piú bella donna che in Bologna
allora si trovasse; e con esso lei cominciò menare una danza, facendosi far
calle a coloro che s’appressavano per rimirarla; e innanzi che si terminasse il
ballo, egli le disse tai parole: — Onestissima madonna, forse io parerò non
poco prosontuoso scoprendovi ora il celato amore che io vi portai e ora porto;
ma non incolpate me, ma la vostra bellezza, la quale a ciascaduna altra donna
vi fa superiore, e me come vostro mancipio tene. Taccio ora i vostri laudevoli
costumi; taccio le egregie e ammirabili vostre virtú, le quali sono tante e
tali, che hanno forza di far discendere giú d’alto cielo i superni Dei. Se
adunque la vostra bellezza, accolta per natura e non per arte, aggradisce agli
immortali Dei, non è maraviglia se quella mi stringe ad amarvi e tenervi chiusa
nelle viscere del mio cuore. Pregovi adunque, gentil signora mia, unico
refrigerio della mia vita, che abbiate caro colui che per voi mille volte al
giorno more. Il che facendo, io riputerò aver la vita per voi, alla cui grazia
mi raccomando. — La bella donna, che Sinforosia si appellava, avendo
ottimamente intese le care e dolci parole che dal focoso cuore di Filenio
uscivano, non puote alcuno sospiretto nascondere: ma pur considerando l’onor
suo e che era maritata, niuna risposta li diede; ma, finito il ballo, se ne
andò al suo luogo a sedere.
Essendo tutta tre una appresso l’altra quasi in cerchio a
sedere, ed intertenendosi in piacevoli ragionamenti, Emerenziana, moglie di
messer Lamberto, non giá a fine di male ma burlando, disse alle due compagne: —
Donne mie care, non vi ho io da raccontare una piacevolezza che mi è avenuta
oggi? — E che? — dissero le compagne. — Io — disse Emerenziana — mi ho trovato,
carolando, uno innamorato il piú bello, il piú leggiadro e il piú gentile che
si possa trovare. Il quale dice esser sí acceso di me per la mia bellezza, che
né giorno né notte non trova riposo; — e puntalmente le raccontò tutto ciò che
egli le aveva detto. Il che intendendo, Pantemia e Sinforosia dissero quello
medesimo esser avenuto a loro; e dalla festa non si partirono, che agevolmente
conobbero uno istesso esser stato colui che con tutta tre aveva fatto l’amore.
Il perché chiaramente compresero che quelle parole dello innamorato non da fede
amorosa ma da folle e fittizio amore procedevano, e a sue parole prestarono
quella credenza che prestare si suole a’ sogni degli infermi o a fole de
romanzi. Ed indi non si partirono, che tutta tre concordi si dierono la fede di
operare sí che ciascheduna di loro da per sé li farebbe una beffa, e di tal
sorte, che l’innamorato si ricorderebbe sempre che anche le donne sanno
beffare.
Continovando adunque Filenio in far l’amore quando con l’una,
quando con l’altra, e vedendo che ciascheduna di loro faceva sembiante di
volerli bene, si mise in cuore, se possibile era, di ottenere da ciascheduna di
loro l’ultimo frutto d’amore; ma non li venne fatto sí come egli bramava ed era
il desiderio suo, perciò che fu perturbato ogni suo disegno. Emerenziana, che
non poteva sofferire il fittizio amore del sciocco scolare, chiamò una sua
fanticella assai piacevoletta e bella, e le impose che ella dovesse con bel
modo parlare con Filenio e isponerli lo amore che sua madonna li porta: e
quando li fusse a piacere, ella una notte vorrebbe esser con esso lui in la
propia casa. Il che intendendo, Filenio si allegrò, e disse alla fante: — Va, e
ritorna a casa, e raccomandami a tua madonna, e dille da parte mia che questa
sera la mi aspetti, giá che ’l marito suo non alberga in casa. — In questo
mezzo Emerenziana fece raccogliere molti fascicoli di pongenti spine, e poseli
sotto la littiera dove la notte giaceva, e stette ad aspettare che lo amante
venisse. Venuta la notte, Filenio prese la spada, e soletto se n’andò alla casa
della sua nemica; e datole il segno, fu tostamente aperto. E dopo che ebbero
insieme ragionato alquanto e lautamente cenato, ambe duo andarono in camera per
riposare. Filenio appena si aveva spogliato per girsene al letto, che
sopragiunse messer Lamberto, suo marito. Il che intendendo, la donna finse di
smarrirsi: e non sapendo dove l’amante nascondere, gli ordinò che sotto il
letto se n’andasse. Filenio, veggendo il pericolo suo e della donna, senza
mettersi alcun vestimento in dosso, ma solo con la camiscia, corse sotto la
littiera: e cosí fieramente si punse, che non era parte veruna del suo corpo,
cominciando dal capo insino a’ piedi, che non gittasse sangue. E quanto piú
egli in quel scuro voleva difendersi dalle spine, tanto maggiormente si
pungeva: e non ardiva gridare, acciò che messer Lamberto non lo udisse e
uccidesse. Io lascio considerare a voi a che termine quella notte si ritrovasse
il miserello; il quale poco mancò che senza la coda non restasse, sí come era
rimasto senza la favella. Venuto il giorno e partitosi il marito di casa, il
povero scolare meglio che egli puote si rivestí, e cosí sanguinoso a casa se ne
tornò, e stette con non picciolo spavento di morte. Ma curato diligentemente
dal medico, si riebbe e ricuperò la pristina salute.
Non passorono molti giorni, che Filenio seguí lo suo
innamoramento facendo l’amore con le altre due: cioè con Pantemia e Sinforosia;
e tanto fece, che ebbe agio di parlare una sera con Pantemia, alla quale
raccontò i suoi lunghi affanni e continovi tormenti, e pregolla di lui pietá
avere dovesse. L’astuta Pantemia, fingendo averli compassione, si iscusava di
non aver il modo di poterlo accontentare; ma pur al fine, vinta da’ suoi dolci
preghi e cocenti sospiri, lo introdusse in casa. Ed essendo giá spogliato per
andarsene a letto con esso lei, Pantemia li comandò che andasse nel camerino
ivi vicino, ove ella teneva le sue acque nanfe e profumate, e che prima molto
bene si profumasse, e poi se n’andasse al letto. Il scolare, non s’avedendo
dell’astuzia della malvagia donna, entrò nel camerino; e posto il piede sopra
una tavola diffitta dal travicello che la sosteneva, senza potersi ritenere,
insieme con la tavola cade giú in uno magazzino terreno, nel quale alcuni
mercatanti tenevano bambaia e lane. E quantunque di alto cadesse, niuno però
male si fece nella caduta. Ritrovandosi adunque il scolare in quello oscuro
luogo, cominciò brancolare, se scala o uscio trovasse; ma nulla trovando,
maladiceva l’ora e ’l punto che Pantemia conosciuta aveva. Venuta l’aurora, e
tardi accortosi il miserello dello inganno della donna, vide in una parte del
magazzino certe fissure nelle mura che alquanto rendevano di luce; e per essere
antiche e grommose di fastidiosa muffa, egli cominciò con maravigliosa forza
cavare le pietre dove men forti parevano: e tanto cavò, che egli fece un
pertugio sí grande, che per quello fuori se ne uscí. E trovandosi in una calle
non molto lontana dalla publica strada, cosí scalcio e in camiscia prese lo
cammino verso il suo albergo, e senza essere d’alcuno conosciuto, entrò in
casa.
Sinforosia, che giá aveva intesa l’una e l’altra beffa fatta a
Filenio, s’ingegnò di farli la terza, non minore delle due. E cominciollo con
la coda dell’occhio, quando ella lo vedeva, guatare, dimostrandoli che ella si
consumava per lui. Il scolare, giá domenticato delle passate ingiurie, cominciò
passeggiare dinanzi la casa di costei facendo il passionato. Sinforosia,
avedendosi lui esser giá del suo amore oltre misura acceso, li mandò per una
vecchiarella una lettera, per la quale li dimostrò che egli con la sua bellezza
e gentil costumi l’aveva sí fieramente presa e legata, che ella non trovava riposo
né dí né notte: e perciò, quando a lui fusse a grado, ella desiderava, piú che
ogni altra cosa, di poter con esso lui favellare. Filenio, presa la lettera e
inteso il tenore, e non considerato l’inganno, e smemorato delle passate
ingiurie, fu il piú lieto e consolato uomo che mai si trovasse. E presa la
carta e la penna, le rispose che se ella lo amava e sentiva per lui tormento,
che era ben contracangiata, perciò che egli piú amava lei che ella lui, e ad
ogni ora che a lei ci paresse, egli era a’ suoi servigi e comandi. Letta la
risposta e trovata la opportunitá del tempo, Sinforosia lo fece venire in casa,
e dopo molti finti sospiri li disse: — Filenio mio, non so qual altro, che tu,
mi avesse mai condotta a questo passo, al quale condotta mi hai; imperciò che
la tua bellezza, la tua leggiadria e il tuo parlare mi han posto tal fuoco
nell’anima, che come secco legno mi sento abbrusciare. — Il che sentendo, il
scolare teneva per certo che ella tutta si struggesse per suo amore. Dimorando
adunque il cattivello con Sinforosia in dolci e dilettevoli ragionamenti, e
parendogli omai ora di andarsene a letto e coricarsi a lato lei, disse
Sinforosia: — Anima mia dolce, innanzi che noi andiamo a letto, mi pare
convenevole cosa che noi si riconfortiamo alquanto; — e presolo per la mano, lo
condusse in uno camerino ivi vicino, dove era una tavola apparecchiata con
preziosi confetti e ottimi vini. Aveva la sagace donna alloppiato il vino per
far che egli s’addormentasse fino a certo tempo. Filenio prese il nappo e lo empí
di quel vino, e non avedendosi dell’inganno, intieramente lo beve. Restaurati
gli spiriti, e bagnatosi con acqua nanfa e ben profumatosi, se n’andò a letto.
Non stette guari che il liquore operò la sua virtú, e il giovane sí
profondamente s’addormentò, che ’l grave tuono delle artigliarie e di ogni
altro gran strepito malagevolmente destato l’arebbe. Laonde Sinforosia, vedendo
che egli dirottamente dormiva e il liquore la sua operazione ottimamente
dimostrava, si partí; e chiamò una sua fante giovane e gagliarda che del fatto
era consapevole, e amendue per le mani e per li piedi presero il scolare, e
chetamente aperto l’uscio, lo misero sopra la strada, tanto lungi da casa,
quanto sarebbe un buon tratto di pietra. Era circa un’ora innanzi che spuntasse
l’aurora, quando il liquore perde la sua virtú e il miserello si destò; e
credendo egli esser a lato di Sinforosia, si trovò scalzo e in camiscia e
semimorto da freddo giacere sopra la nuda terra. Il poverello, quasi perduto
delle braccia e delle gambe, a pena si puote levar in piedi; ma pur con gran
malagevolezza levatosi, e non potendo quasi affermarsi in piedi, meglio che
egli puote e seppe, senza esser d’alcuno veduto, al suo albergo ritornò, e alla
sua salute provedé. E se non fusse stata la giovenezza che lo aiutò, certamente
egli sarebbe rimaso attratto de nervi.
Filenio, ritornato sano e nell’esser che era prima, chiuse
dentro del petto le passate ingiurie, e senza mostrarsi crucciato e di portarle
odio, finse che egli era di tutta tre vie piú innamorato che prima, e quando
l’una e quando l’altra vagheggiava. Ed elle, non avedendosi del mal animo che
egli avea contra loro, ne prendevano trastullo, facendoli quel viso allegro e
quella benigna e graziosa ciera che ad uno vero innamorato far si suole. Il
giovane, che era alquanto sdignosetto, piú volte volse giocare di mano e
signarle la faccia; ma come savio considerò la grandezza delle donne, e che
vergognosa cosa li sarebbe stata a percuotere tre feminelle, e raffrenossi.
Pensava adunque e ripensava il giovane qual via in vendicarsi tener dovesse; e
non sovenendogli alcuna, molto fra sé stesso si ramaricava. Avenne, dopo molto
spazio di tempo, che il giovane s’imaginò di far cosa per la quale al suo
desiderio agevolmente sodisfar potesse; e sí come gli venne nell’animo, cosí la
fortuna fulli favorevole.
Aveva Filenio in Bologna a pigione uno bellissimo palagio, il
quale era ornato d’un’ampia sala e di polite camere. Egli determinò di far una
superba e onorata festa, e invitare molte donne, tra’ quali vi fussero ancora
Emerenziana, Pantemia e Sinforosia. Fatto l’invito e accettato, e venuto il
giorno dell’onorevol festa, tutta tre le donne, poco savie, senza pensar piú
oltre, se n’andarono. Essendo l’ora di rinfrescar le donne con recenti vini e
preziosi confetti, l’astuto giovane prese le tre innamorate per mano, e con
molta piacevolezza le menò in una camera, pregandole che si rinfrescasseno
alquanto. Venute adunque le pazze e sciocche tre donne in camera, il giovane
chiuse l’uscio della camera, e andatosene a loro, disse: — Ora, malvage femine,
è venuto il tempo che io mi vendicherò di voi e farovvi portare la pena
dell’ingiuria fattami per lo mio grande amore. — Le donne, udendo queste
parole, rimasero piú morte che vive, e cominciorono ramaricarsi molto d’aver
altrui offeso; e appresso questo, maladicevano loro medesime che troppo si
avevano fidate in colui che odiare dovevano. Il scolare con turbato e
minaccevole viso comandò che, per quanto caro avevano la vita loro, tutta tre
ignude si spogliassino. Il che intendendo, le ghiottoncelle si guatarono l’una
con l’altra, e dirottamente cominciarono a piangere: pregandolo, non giá per
loro amore, ma per sua cortesia e innata umanitá, l’onor suo riservato le
fusse. Il giovane, che dentro di sé tutto godeva, in ciò le fu molto cortese:
non volse però che nel suo cospetto vestite rimanessero. Le donne, gittatesi a’
piedi del scolare, con pietose lagrime umilmente lo pregorono licenziare le
dovesse, e che di sí grave scorno non fusse cagione. Ma egli, che giá fatto
aveva di diamante il cuore, disse questo non essere di biasmo ma di vendetta
segno. Spogliatesi adunque le donne e rimase come nacquero, erano cosí belle
ignude come vestite. Il giovane scolare, riguardandole da capo a’ piedi e
vedendole sí belle e sí delicate che la lor bianchezza avanzava la neve,
cominciò tra sé sentire alquanta compassione; ma nella memoria ritornandoli le
ricevute ingiurie e il pericolo di morte, scacciò da sé ogni pietá, e nel suo
fiero e duro proponimento rimase. Appresso questo, l’astuto giovane tolse tutte
le vestimenta loro e altre robbe che in dosso portate avevano, e in uno
camerino ivi vicino le pose, e con parole assai spiacevoli le ordinò che tutta
tre, l’una a lato dell’altra, nel letto si coricassero. Le donne, tutte sgomentate
e tremanti da terrore, dissero: — Oh insensate noi, che diranno i mariti, che
diranno i parenti nostri, come si saprá che noi siamo quivi state ignude
trovate uccise? Meglio sarebbe che noi fussimo morte in fascie, che esser con
tal vituperoso scorno manifestate. — Il scolare, vedendole coricate l’una
appresso l’altra, come fanno marito e moglie, prese uno linzuolo bianchissimo
ma non molto sottile, acciò che non trasparessero le carni e fussero
conosciute, e tutta tre coperse da capo a piedi: e uscitosi di camera e chiuso
l’uscio, trovò li mariti loro che in sala danzavano; e finito il ballo, menolli
nella camera dove le tre donne in letto giacevano, e disseli: — Signori miei,
io vi ho quivi condotti per darvi un poco di solacio e per mostrarvi la piú
bella cosa che a’ tempi vostri vedeste giammai; — e approssimatosi al letto con
un torchietto in mano, leggermente cominciò levar il linzuolo da’ piedi e
invilupparlo, e discoperse le donne sino alle ginocchia; ed ivi li mariti
videro le tondette e bianche gambe con i loro isnelli piedi, maravigliosa cosa
a riguardare. Indi discopersele sino al petto, e mostrolli le candidissime
coscie che parevano due colonne di puro marmo, col rotondo corpo al finissimo
alabastro somigliante. Dopo, scoprendole piú in su, li mostrò il teneretto e
poco rilevato petto con le due popoline sode, delicate e tonde, che arebbeno
costretto il sommo Giove ad abbracciarle e basciarle. Di che i mariti ne
prendevano quel trastullo e contento che imaginar si puole. Lascio pensar a voi
a che termine si trovavano le misere e infelici donne, quando udivano i mariti
suoi prendere di loro trastullo. Elle stavano chete e non osavano citire, acciò
che conosciute non fussero. I mariti tentavano il scolare che le discoprisse il
volto; ma egli, piú prudente nell’altrui male che nel suo, consentire non
volse. Non contento di questo, il giovane scolare prese le vestimenta di tutta
tre le donne e mostrolle ai mariti loro. I quali, vedendole, rimasero con una
certa stupefazione che li rodeva il cuore. Dopo con grandissima meraviglia piú
intensamente riguardandole, dicevano tra sé: — Non è questo il vestimento che
io fei alla mia donna? Non è questa la cuffia che io le comprai? Non è questo
il pendente che le discende dal collo innanzi il petto? Non sono questi gli
anelletti che la porta in dito? — Usciti di camera, per non turbar la festa non
si partirono, ma a cena rimasero. Il giovane scolare, che giá aveva inteso
esser cotta la cena e ogni cosa dal discretissimo siniscalco apparecchiata,
ordinò che ogn’uno si ponesse a mensa. E mentre che gl’invitati menavano le
mascelle, lo scolare ritornò nella camera dove le tre donne in letto giacevano;
e discopertele, disse: — Buon giorno, madonne; avete voi uditi i mariti vostri?
Eglino quivi fuori con grandissimo desiderio vi aspettano vedere. Che dimorate?
Levatevi su, dormiglione; non sbadagliate, cessate omai di stropicciarvi gli
occhi, prendete le vestimenta vostre e senza indugio ponetevele in dosso, che
omai è tempo di gire in sala dove le altre donne vi aspettano. — E cosí le
berteggiava e con diletto le teneva a parole. Le sconsolate donne, dubitando
che ’l caso suo avesse qualche crudel fine, piangevano e disperavano della lor
salute. E cosí angosciate e da dolor trasfitte, in piedi si levarono, piú la morte
che altro aspettando. E voltatesi verso il scolare, dissero: — Filenio, ben ti
sei oltre modo di noi vendicato; altro non ci resta se no che tu prendi la tua
tagliente spada e con quella tu ne dia la morte, la qual noi piú che ogni altra
cosa desideriamo. E se questa grazia tu non ne vuoi fare, ti preghiamo almeno
isconosciute a casa ne lasci ritornare, acciò che l’onor nostro salvo rimanga.
— Parendo a Filenio aver fatto assai, prese gli suoi panni: e datili, ordinò
che subito si rivestissero: e rivestite che furono, per un uscio secreto fuori
di casa le mandò; e cosí vergognate, senza esser d’alcuno conosciute, alle lor
case ritornorono. Spogliatesi le loro vestimenta che indosso avevano, le posero
nelli lor forcieri, e calidamente senza andar al letto si misero a lavorare.
Finita la cena, i mariti ringraziorono lo scolare del buon
accetto che fatto gli aveva, e, molto piú, del piacere che avevano avuto in
vedere i delicati corpi che di bellezza avanzavano il sole: e preso da lui il
combiato, si partirono ed ai loro alberghi ritornorono. Ritornati adunque i
mariti a casa, trovorono le loro mogli che nelle loro camere presso il fuoco
sedevano e cusivano. E perché i panni, l’anella e le gioie da’ mariti vedute
nella camera di Filenio li davano alquanta suspizione, acciò che niuno sospetto
li rimanesse, ciascun di loro addimandò la sua donna dove era stata quella sera
e dove erano le sue vestimenta. Ai quali ciascheduna di loro arditamente
rispose che di casa quella notte uscita non era: e presa la chiave della cassa
dove erano le robbe, li mostrò le vestimenta, l’anella e ciò che i mariti fatto
gli avevano. Il che vedendo i mariti e non sapendosi che dire, rimasero cheti,
raccontando minutamente alle loro donne tutto quello che gli era quella notte
avenuto. Il che intendendo, le mogli fecero sembiante di non saper nulla; e
dopo che ebbero alquanto riso, si spogliorono e s’andorono a riposare. Non
passorono molti giorni, che Filenio piú volte per strada s’incontrò nelle sue
care madonne, e disse: — Qual di noi ebbe maggior spavento? qual di noi fu
peggio trattato? — Ma elle, tenendo gli occhi chini a terra, nulla
rispondevano. Ed in tal guisa lo scolare meglio che egli seppe e puote, senza
battitura alcuna, virilmente si vendicò della ricevuta ingiuria. —
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