— La favola, donne mie care, dal Molino arteficiosamente
raccontata, mi ha fatto rimovere da quella che mi era nell’animo di dire; e
un’altra raccontar vi voglio, la quale, se non m’inganno, non sará di minor
piacere alle donne, che fusse la sua a gli uomini. E quanto piú la sua fu lunga
e alquanto sconvenevole, tanto piú la mia sará breve e onesta.
Dicovi adunque, piacevoli donne, che Carlo d’Arimino, sí come
io penso alcuna di voi sapere, fu uomo guerreggevole, dispregiatore d’Iddio,
bestemmiatore de’ santi, omicida, bestiale e dedito ad ogni specie di
effeminata lussuria. E tanta fu la malignitá di lui, e tali e tanti i vizi
dell’animo, che non aveva pare. Costui, essendo giovane leggiadro e riguardevole,
fortemente s’accese dell’amore d’una giovanetta, figliuola d’una povera vedova;
la quale, ancor che avesse bisogno e con la figliuola in gran necessitá
vivesse, era però di tal condizione, che piú tosto si arrebbe lasciata morire
da fame, che consentire la figliuola peccasse. La giovane, che Teodosia si
chiamava, oltre che era bella e piacevole, era anche onesta, accostumata e di
canuti pensieri dotata; e sí era intenta al divino culto e alle orazioni, che
nell’animo le temporali cose al tutto sprezzava. Carlo adunque, infiammato di
lascivo amore, di giorno in giorno la sollecitava, e il dí che egli non la
vedeva, da doglia si sentiva morire. Piú volte egli tentò con lusinghe, con
doni e con ambasciate ridurla a’ suoi piaceri, ma egli nel vero s’affaticava
indarno, perciò che, come giovane prudente e savia, ogni cosa rifiutava, e
cotidianamente pregava Iddio che lo rimovesse da tai disonesti pensieri. Non
potendo il giovane far piú resistenza all’ardente amore, anzi bestial furore, e
ramaricandosi di esser refutato da colei che piú che la vita sua amava, propose
nell’animo, intravenga che si voglia, di rapirla e contentare il suo
concupiscibile appetito. Ma pur temea far tumulto, e che ’l popolo, che
l’odiava molto, non lo uccidesse; ma vinto dalla sfrenata voglia e divenuto
come rabbioso cane, compose con duo suoi servi, uomini audacissimi, di volerla
affatto rapire.
Laonde un giorno, nell’oscurar della sera, egli prese le sue
armi, e con i duo serventi se n’andò alla casa della giovane; e trovato l’uscio
aperto, prima che entrasse dentro, comandò a gli servi facessero buona guardia,
né, per quanto cara hanno la vita sua, lasciasseno alcuno entrare in casa o
fuori uscire, fino a tanto che egli non ritornasse a loro. I servi, desiderosi
di compiacere al suo padrone, risposero che farebbero quanto gli era da lui
imposto. Avendo adunque Teodosia, con qual mezzo non so, la venuta di Carlo
persentita, dentro d’una povera cucina subito soletta si rinchiuse. Salito
allora Carlo su per la scala della picciola casa, trovò la vecchia madre, la
quale, fuori d’ogni sospizione d’essere in tal guisa salita, a filare si stava:
e dimandolle della figliuola sua, da lui tanto desiata. L’onesta donna, veduto
che ebbe il giovane lascivo armato, piú tosto al mal fare che al bene tutto
inchinevole, molto si smarrí, e nel viso come persona morta pallida divenne, e
piú volte volse gridare; ma pensando che nulla farebbe, prese partito di tacere
e metter l’onor suo nelle mani d’Iddio, in cui molto si fidava. E preso pur alquanto
d’ardire, e voltato il viso contra a Carlo, cosí gli disse: — Carlo, non so con
qual animo e con qual arroganza sei tu qui venuto a contaminare la mente di
colei che onestamente viver desidera. Se tu sei venuto per bene, Iddio,
munerator del tutto, ti dia ogni giusto e onesto contento; ma quando altrimenti
fusse, il che Iddio no ’l voglia, tu faresti gran male a voler con vituperio
conseguire quello che non sei per mai avere. Spezza adunque e rompi cotesta
sfrenata voglia, né vogli tuore alla figliuola mia quello che tu rendere non le
puoi giamai, cioè l’onor del corpo suo. E quanto piú tu sei di lei innamorato,
tanto ella maggior odio ti porta, essendo tutta data alla virginitá. —
Carlo, udite le compassionevoli parole della vecchiarella,
assai si turbò; né per questo si mosse dal suo fiero proponimento, ma come
pazzo si mise per ogni parte della casa a ricercarla; e non la ritrovando, al
luoco della picciola cucina se ne gí, e trovatala rinchiusa, pensò che ella,
come era, dentro vi si fusse: e guatando per una fissura della porta, vide la Teodosia che in orazioni
si stava, e con dolcissime parole la cominciò pregare che aprire lo volesse, in
tal guisa dicendo: — Teodosia, vita della mia vita, sappi che io non sono qui
venuto per macolare l’onor tuo, lo quale piú che me stesso amo, e lo reputo
mio; ma per accettarti per propia moglie, quando ed a te ed alla madre tua
fusse a grado. Ed io vorrei esser omicida di colui che l’onor tor ti volesse. —
Teodosia, che attentamente ascoltava le parole di Carlo, senza altro indugio
rispondendo cosí disse: — Carlo, rimoviti da cotesto pertinace volere; perciò
che per moglie mai non sei per avermi, perché la mia virginitá offersi a colui
che ’l tutto vede e regge. E quantunque a mio mal grado con violenza il corpo
mio macchiasti, non però la ben disposta mente, la quale dal principio del mio
nascimento al mio fattor donai, contaminar potresti. Iddio ti diede il libero
arbitrio acciò tu conoscesti il bene e il male e operasti quello che piú ti
aggrada. Segui adunque il bene, che sarai detto virtuoso, e lascia il
contrario, che è detto vizioso. —
Carlo, dopo che vide nulla giovare le sue lusinghe, e
sentendosi rifiutare, né potendo piú far resistenza alla fiamma che gli
abbrusciava il cuore, come giovane piú furibondo che prima, lasciate le parole
da canto, l’uscio, il quale non molto forte né molto sicuro era, con poca
difficultá ad ogni suo buon piacere aperse. Entrato adunque Carlo nella
piccioletta cucina, e veggendo la damigella piena di grazia e d’incomprensibile
bellezza, dell’amor suo piú furiosamente infiammato, pensò ogni suo disordinato
appetito allora del tutto adempire: e se le aventò addosso, non altrimenti che
volonteroso ed affamato veltro alla timidetta lepre. Ma la misera Teodosia,
avendo li biondi capei sparsi dopo le spalle, ed essendo tenuta stretta nel
collo, divenne pallida e debole di modo che quasi piú movere non si poteva.
Laonde ella levò la mente al cielo, ed a Iddio dimandò soccorso. Appena era
fornita la mentale orazione, che Teodosia miracolosamente sparve, ed a Carlo
Iddio sí fortemente abbarbagliò il lume dell’intelletto, che piú cosa buona non
conoscea; e credendo egli di toccar la damigella, abbracciarla, basciarla e in
sua balia averla, altro non stringeva, altro non abbracciava né basciava se non
pentole, caldaie, schidoni, scovigli ed altre simili cose che erano per la
cucina. Avendo giá Carlo saziata la sua sfrenata voglia, ed il vulnerato petto
da capo moversi sentendo, corse ancora ad abbracciar le caldaie, non altrimenti
che le membra di Teodosia fussero. E sí fattamente il volto e le mani dalla
caldaia tinte rimasero, che non Carlo, ma il demonio pareva.
In questa guisa adunque avendo Carlo saziato il suo appetito,
e parendogli oggimai tempo di partirsi, cosí di nero tinto scese giú della
scala. Ma i duo servi che presso l’uscio facevano la guardia che niuno entrasse
o uscisse, veggendolo cosí contrafatto e divisato in viso, che piú di bestia
che di umana creatura la sembianza teneva, imaginandosi che il demonio o
qualche fantasma egli si fusse, volsero come da cosa mostruosa fuggire. Ma
fattisi con miglior animo all’incontro, e guatatolo sottilissimamente nel
volto, e vedutolo sí diforme e brutto, di molte bastonate il caricorono, e con
le pugna, che di ferro parevano, tutto il viso e le spalle li ruppero, né li
lasciorono in capo capello che bene gli volesse: né contenti di ciò, lo
gittorono a terra, stracciandogli i panni da dosso e dandogli calzi e pugna
quante mai ne puote portare; e tanto spessi erano i calzi che i servi li
davano, che mai Carlo
non puote aprire la bocca ed intendere la causa perché cosí crudelmente lo
percotevano. Ma pur tanto fece, che uscí delle lor mani: e via se ne fuggí,
pensando tuttavia averli dietro le spalle. Carlo adunque essendo da’ suoi servi
senza pettine oltra modo carminato, ed avendo per le dure pugna gli occhi sí
lividi e gonfi che quasi non discerneva, corse verso la piazza gridando e
fortemente ramaricandosi de’ servi suoi che l’avevano sí maltrattato. La
guardia della piazza, udendo la voce ed il lamento che egli faceva, gli andò
all’incontro, e veggendolo sí diforme e col viso tutto impiastracciato, pensò
lui esser qualche pazzo. E non essendo da alcuno per Carlo conosciuto, ognuno
il cominciò deleggiare e gridare: — Dalli, dalli, che gli è pazzo! — e appresso
questo alcuni lo spinghievano, altri gli sputavano nella faccia ed altri
prendevano la minuta polve e glie la aventavano ne gli occhi. E cosí in
grandissimo spazio di tempo lo tennero, infino a tanto che ’l rumore andò alle
orecchie del pretore; il quale, levatosi di letto e fattosi alla finestra che
guardava sopra la piazza, dimandò che era intravenuto, che cosí gran tumulto si
faceva. Uno della guardia rispose che era un pazzo che metteva la piazza tutta
sotto sopra. Il che intendendo, il pretore domandò che, legato, li fusse menato
dinanzi. E cosí fu essequito. Carlo, che per lo adietro era da tutti molto
temuto, vedendosi esser legato, schernito e maltrattato, né sapendo che era
isconosciuto, assai di ciò seco si maravigliava; ed in tanto furore divenne,
che quasi ruppe il laccio che legato lo teneva. Essendo adunque Carlo condotto
dinanzi al pretore, subito il pretore lo conobbe che egli era Carlo da Arimino:
né puote altro imaginare, salvo che quella lordura e diformitá procedeva per
causa di Teodosia, la quale egli sapeva che sommamente amava. Laonde cominciò
lusingarlo ed accarezzarlo, promettendogli di punire coloro che di tal vergogna
erano stati cagione. Carlo, che ancora non sapeva che egli paresse un etiopo,
stava tutto sospeso; ma poscia che chiaramente conobbe lui esser di bruttura
tinto, che non uomo ma bestia pareva, pensò quello istesso che ’l pretore
imaginato s’aveva. E mosso a sdegno, giurò di tal ingiuria vendicarsi, quando
il pretore non la punisse. Il rettore, venuto il chiaro giorno, mandò per
Teodosia, giudicando lei aver fatto ciò per magica arte. Ma Teodosia, che tra
sé considerava il tutto ed ottimamente conosceva il pericolo grande che le
poteva avvenire, se ne fuggí ad uno monasterio di donne di santa vita: dove
nascosamente dimorò, servendo a Dio, tutto il tempo della vita sua con buon
cuore. Carlo dopo fu mandato allo assedio di uno castello, e volendo fare
maggiori prove di ciò che li conveneva, fu preso come vil topo a trappola;
perciò che volendo ascendere le mura del castello e primo mettere lo stendardo
del papa sopra li merli, fu colto da una grossa pietra, la quale in tal maniera
il fracassò e ruppe, che non puote appena dir sua colpa. E cosí il malvagio
Carlo, come meritato aveva, senza sentire vero frutto del suo amore, la sua
vita miseramente finí. —
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