— Egli è un motto che tra’ volgari è non poco frequentato ne’
ragionamenti loro: «Non scherzar che ’l doglia, né motteggiar del vero; perciò
che chi ode, vede e tace, altri non nuoce e vive sempre in pace».
Fu adunque nell’estreme parti di Lombardia un uomo chiamato
Bernio, il quale, quantunque de’ beni della fortuna abondevole non fusse, non
però d’animo e di cuore agli altri inferiore si reputava. Costui prese per
moglie una valorosa e gentilesca donna, nominata Alchia; la quale, avenga che
di bassa condizione fusse, era però dotata d’ingegno e di laudevoli costumi, e
tanto amava il marito, quanto un’altra che trovar si potesse giamai. Essi molto
desideravano figliuoli, ma la grazia da Iddio non gli era concessa; perciò che
l’uomo il piú delle volte non sa quello che addimandando piú li convenga.
Stando ambeduo in questo desiderio e veggendo la fortuna essergli al tutto
contraria, costretti da lungo desio, deliberorono di prenderne uno e per propio
e legittimo figliuolo tenerlo e nudricarlo. Ed andatisene una mattina per tempo
a quel luogo dove sono i teneri fanciulli dalli loro padri abbandonati, e
adocchiatone uno che piú bello e piú vezzoso degli altri li parve, quello
presero; e con molta diligenza e disciplina fu da loro accostumatamente
nudrito.
Avenne che, come piacque a colui che l’universo regge ed ogni
cosa a suo bel grado tempra ed ammollisce, Alchia si ingravidò; e pervenuto il
tempo del parto, parturí un figliuolo che tutto somigliava al padre. Di che
l’uno e l’altro ne ebbe incredibile allegrezza; e Valentino nome gl’imposero.
Il fanciullo, ben nudrito ed allevato, cresceva ed in virtú ed in costumi; e
tanto amava il fratello, Fortunio chiamato, che, quando egli era senza di lui,
da doglia si sentiva morire. Ma la discordia, d’ogni ben nimica, vedendo il
loro fervido e caldo amore, e non potendo omai sofferire tanta tra loro
amorevolezza, un giorno se interpose, ed operò sí che gli suoi frutti acerbi
assaggiare incominciorono. Imperciò che scherzando tra loro un giorno, si com’è
usanza de’ fanciulli, ed essendo per lo giuoco riscaldati alquanto, e non
potendo Valentino patire che Fortunio nel giuoco li fusse superiore, in tanta
rabbia e furore venne, che piú volte bastardo e nato di vil femina li disse. Il
che udendo Fortunio e di ciò maravigliandosi molto, assai si turbò; e voltosi
verso Valentino, li disse: — Come, sono io bastardo? — E Valentino con parole
tra’ denti non morte, seco tuttavia contrastando, animosamente lo confermò.
Laonde Fortunio oltre modo dolente del giuoco si partí; ed andatosene alla
putativa madre, dolcemente la dimandò se di lei e di Bernio era figliuolo. A
cui Alchia rispose che sí. Ed accortasi che Valentino con ingiuriose parole
oltraggiato l’aveva, quello fortemente minacciò, giurando di malagevolmente
castigarlo. Fortunio per le parole d’Alchia suspicò, anzi tenne per certo che
egli suo figliuolo legittimo non fusse; pur piú volte assaggiare la volse
s’egli era suo vero figliuolo, e di saperlo al tutto deliberò. Onde Alchia,
vedendo l’ostinato volere di Fortunio, e non potendo da tal importunitá
rimoverlo, gli confermò lui non esser suo vero figliuolo, ma nudrito in casa
per amor d’Iddio e per alleviamento de’ peccati suoi e del marito. Queste
parole al giovane furono tante coltellate al cuore, e li crebbero doglia sopra
doglia. Ora essendo senza misura dolente, né soffrendogli il cuore sé medesimo
con alcuna violenza uccidere, determinò di uscire al tutto di casa di Bernio,
ed errando per lo mondo tentare se la fortuna ad alcun tempo li fusse
favorevole. Alchia, veduta la volontá di Fortunio ogni ora piú pronta, né
vedendo modo né via di poterlo rimovere dal suo duro proponimento, tutta accesa
d’ira e di sdegno, dielli la maledizione, pregando Iddio che se gli avenisse
per alcun tempo di cavalcare il mare, ei fusse dalla sirena non altrimenti
inghiottito che sono le navi dalle procellose e gonfiate onde marine. Fortunio,
dall’impetuoso vento del sdegno e dal furor dell’ira tutto spinto, né intesa la
maledizione materna, senza altro congedo prendere dai parenti, si partí, ed
indirizzò verso ponente il suo cammino.
Passando adunque Fortunio or stagni or valli or monti ed altri
alpestri e salvatici luoghi, finalmente una mattina tra sesta e nona giunse ad
uno folto ed inviluppato bosco; e dentro entratovi, trovò il lupo, l’aquila e
la formica, che per la cacciagione di giá un preso cervo fuor di modo si
rimbeccavano, ed in partirlo in maniera alcuna convenire non si potevano.
Stando adunque i tre animali in questo duro contrasto, né volendo l’uno ceder a
l’altro, al fine in tal guisa patteggiorono, che ’l giovane Fortunio, che
allora eravi sopragiunto, dovesse la loro lite difinire, dando a ciascuno di
loro la parte che li paresse piú convenevole. E cosí tutta tre rimasero
contenti: promettendo l’uno all’altro d’acquetarsi ed in maniera alcuna non
contravenire alla difinitiva sentenza, quantunque ella fusse ingiusta.
Fortunio, preso volentieri l’assunto, e con maturitá considerata la loro
condizione, in tal guisa la preda divise: al lupo, come animal vorace e
addentato molto, in guidardone della durata fatica assignò tutte l’ossa con la
macilente carne; all’aquila, uccello rapace e di denti privo, per rimunerazione
sua in cibo offerse le interiora col grasso che la carne e l’ossa circonda;
alla granifera e sollecita formica, per esser manchevole di quella potenza
ch’al lupo ed all’aquila è dalla natura concessa, per premio della sostenuta
fatica le tenere cervella concesse. Del grave e ben fondato giudicio ciascuno
di loro rimase contento; e di tanta cortesia, quanta ei usata gli aveva, come
meglio puotero e seppero il ringraziorono assai. E perciò che la ingratitudine
tra gli altri vizi è sommamente biasmevole, tutta tre concordi volsero che ’l
giovane non si partisse, se prima da ciascun di loro non era per lo ricevuto
servigio ottimamente guidardonato. Il lupo adunque in riconoscimento del
passato giudicio disse: — Fratello, io ti do questa virtú, che ogni volta il
tuo desiderio sará di divenire lupo e dirai: fuss’io lupo, incontanente di uomo
in lupo tu ti trasformerai, ritornando però a tuo bel grado nella tua forma
prima. — Ed in tal maniera fu altresí dall’aquila e dalla formica beneficiato.
Fortunio, tutto allegro per lo ricevuto dono, rendute prima
quelle grazie ch’ei seppe e puote, chiese da loro commiato, e si partí; e tanto
camminò, che aggiunse a Polonia, cittá nobile e popolosa: il cui imperio teneva
Odescalco re, molto potente e valoroso, il quale aveva una figliuola, Doralice
per nome chiamata. E volendola onorevolmente maritare, aveva fatto bandire un
gran torniamento nel suo regno; né ad alcuno intendeva in matrimonio copularla,
se non a colui che della giostra fusse vincitore. E molti duchi, marchesi ed
altri potenti signori erano giá da ogni parte venuti per far l’acquisto del
prezioso premio; e della giostra ornai era passato il primo giorno, ed uno
saracino, sozzo e contrafatto di aspetto, strano di forma e nero come pece, di
quella superiore appareva. La figliuola del re, considerata la diformitá e
lordura del saracino, ne sentiva grandissimo dolore che ei ne fusse della
onorata giostra vincente; e messasi la vermiglia guancia sopra la tenera e
delicata mano, si attristava e ramaricava, maladicendo la sua dura e malvagia
sorte: bramando prima ’l morire che di sí sformato saracino moglie venire.
Fortunio, entrato nella cittá e veduta la onorevol pompa ed il
gran concorso dei giostranti, ed intesa la causa di sí glorioso trionfo, si
accese di ardentissimo desiderio di mostrare quanto era il suo valore nel
torniamento. Ma perciò che era privo di tutte quelle cose che ai giostranti si
convengono, dolevasi molto. E stando in questo ramarico ed alzando gli occhi al
cielo, vide Doralice, figliuola del re, che ad una superba finestra appoggiata
si stava: la quale, da molte vaghe e generose matrone circondata, non
altrimenti pareva che ’l vivo e chiaro sole tra le minute stelle. E sopragiunta
la buia notte, ed andatisene tutti ai loro alloggiamenti, Doralice mesta si
ridusse sola in una cameretta non meno ornata che bella; e stando cosí solinga
con la finestra aperta, ecco Fortunio, il quale, come vide la giovane, fra sé
disse: — Deh, che non sono io aquila? — Né appena egli aveva fornite le parole,
che aquila divenne; e volato dentro della finestra, e ritornato uomo come
prima, tutto giocondo e tutto festevole se le appresentò. La poncella,
vedutolo, tutta si smarrí; e sí come da famelici cani lacerata fusse, ad alta
voce cominciò gridare. Il re, che non molto lontano era dalla figliuola, udite
le alte grida, corse a lei, ed inteso che nella camera era un giovane, tutta la
zambra ricercò, e nulla trovando, a riposare se ne tornò; perciò che il
giovane, fattosi aquila, per la finestra si era fuggito. Né fu si tosto il
padre postosi a riposare, che da capo la poncella si mise ad alta voce gridare;
perciò che il giovane, come prima, a lei presentato si aveva. Ma Fortunio,
udito il grido della giovane, e temendo della vita sua, in una formica si
cangiò, e nelle bionde trezze della vaga donna si nascose. Odescalco, corso
all’alto grido della figliuola e nulla vedendo, contra di lei assai si turbò, e
acramente minacciolla che, se ella piú gridava, egli le farebbe uno scherzo che
non le piacerebbe; e tutto sdegnato se ne partí, pensandosi ch’ella avesse
veduto nella sua imaginativa uno di coloro che per suo amore erano stati nel
torniamento uccisi. Il giovanetto, sentito del padre il ragionamento, e veduta
la di lui partenza, la spoglia di formica depose e nel suo esser primo fece
ritorno. Doralice, vedendo il giovane, subitamente si volse gittar giú dal
letto e gridare, ma non puote; perciò che il giovane le chiuse con una delle
mani la bocca e disse: — Signora mia, io non sono qui venuto a torvi l’onore e
l’aver vostro, ma per racconfortarvi ed esservi umilissimo servitore. Se voi
piú gridarete, una di due cose averrá: o che ’l vostro chiaro nome e buona fama
fie guasta, o che voi sarete cagione della mia e vostra morte. E perciò,
signora del cuor mio, non vogliate ad un tempo macchiare l’onor vostro e
mettere a pericolo di amenduo la vita. — Doralice, mentre Fortunio diceva tai
parole, piangeva e si ramaricava molto; né poteva in maniera alcuna patire il
paventoso assalto. Ma Fortunio, vedendo il perturbato animo della donna, con
dolcissime parole che arrebbeno spezzato un monte, tanto disse e tanto fece,
che addolcí l’ostinata voglia della donna; la quale, vinta dalla leggiadria del
giovane, con esso lui si pacificò. E vedendo il giovane di bellissimo aspetto,
robusto e delle membra sue ben formato, e ripensando tra sé stessa alla
bruttura del saracino, molto si doleva che egli dovesse della giostra esser
vincitore e parimente della sua persona possessore. E mentre che ella seco
ragionava, le disse il giovane: — Damigella, s’io avessi il modo, volentieri
giostrerei; e dammi il cuore che della giostra sarei vincitore. — A cui rispose
la donzella: — Quando cosí fusse, niun altro che voi sarebbe della persona mia
signore. — E vedendolo tutto caldo e ben disposto a tal impresa, di danari e di
gioie infinite l’accomodò. Il giovane, allegramente presi i danari e le gioie,
addimandolla qual abito piú le sarebbe a grado che egli si vestisse. A cui
rispose: — Di raso bianco. — E sí come ella divisò, cosí egli fece.
Fortunio adunque il giorno seguente, guarnito di rilucenti
armi coperte di una sopra veste di raso bianco, di finissimo oro e sottilissimi
intagli ricamata, montò sopra un possente ed animoso cavallo coperto di colore
del cavaliere; e senza esser da alcun conosciuto, in piazza se ne gí. Il
popolo, giá raunato al famoso spettacolo, veduto il prode cavaliere
isconosciuto con la lancia in mano per giostrare, non senza gran maraviglia e
come smemorato incominciò fiso a riguardarlo; e ciascuno diceva: — Deh, chi è
costui che sí leggiadro e sí pomposo si rappresenta in giostra, e non si
conosce? — Fortunio, nell’ordinata sbarra entrato, al suo rivale fece motto che
entrasse; ed amenduo, abbassate le nodose lance, come scatenati leoni si
scontrorono: e cosí grave fu del giovinetto il colpo nella testa, che il
saracino toccò del cavallo le groppe, e non altrimenti che un vetro battuto ad
un muro, nella nuda terra morto rimase. E quanti quel giorno in giostra ne
incontrò, tanti furono da lui valorosamente abbattuti. Stavasi la damigella
tutta allegra, e con ammirazione grandissima intensamente il riguardava, e tra
sé stessa ringraziava Iddio che della servitú del saracino l’aveva deliberata,
e pregavalo li desse la vittoriosa palma.
Giunta la notte, e chiamata Doralice a cena, non gli vi volse
andare; ma fattisi portare certi delicati cibi e preziosi vini, finse non aver
allora appetito di mangiare: ma facendole bisogno, al tardo sola mangerebbe. E
chiusasi sola in camera, ed aperta la finestra, lo affezionato amante con sommo
desiderio aspettò; e ritornatosi come la notte precedente, ambeduo insieme
lietamente cenorono. Dappoi Fortunio l’addimandò come dimane vestire si
dovesse, ed ella a lui: — Di raso verde, tutto di argento ed oro finissimo
ricamato: ed altressí il cavallo. — Ed il tutto fu tostamente la mattina
essequito. Appresentatosi adunque in piazza, il giovanetto all’ordinato termine
del torniamento entrò; e se il giorno avanti il suo gran valore aveva
dimostrato, nel sequente vie piú quello dimostrò. E la delicata donzella giustamente
esser sua ognuno ad alta voce affannava.
Venuta la sera, la damigella, tra sé tutta gioconda, tutta
giocosa ed allegra, finse quello istesso che nella precedente notte simulato
aveva. E chiusasi in camera, ed aperta la finestra, il valoroso giovane
aspettò, e con esso lui agiatamente cenò. E addimandatala da capo di che
vestimento nel sequente giorno addobbar si dovesse, li rispose: — Di raso
cremesino, tutto ricamato di oro e di perle; ed altresí la sopraveste del
cavallo sará in tal guisa guarnita, perciò che in tal maniera sarò ancor io
vestita. — Donna, — disse Fortunio, — se dimane per aventura io fussi alquanto
piú tardo dell’usato nel venire in giostra, non ve ne maravigliate; perciò che
non senza causa tarderò la venuta mia. —
Venuto il terzo giorno e l’ora del giostrare, tutto il popolo
il termine del glorioso triunfo con grandissima allegrezza aspettava; ma niuno
dei giostranti, per la smisurata fortezza del prode cavaliere incognito, ardiva
di comparere. E la dimoranza del cavaliere troppo lunga non pur al popolo
generava sospetto grandissimo, ma ancora alla donzella, quantunque della dimora
ne fusse consapevole. E vinta da interno dolore, non se ne avedendo alcuno,
quasi tramortita cadde. Ma poi ch’ella sentí Fortunio avicinarsi alla piazza,
gli smarriti spiriti cominciorono a ritornare ai loro luochi. Era Fortunio d’un
ricco e superbo drappo vestito, e la coperta del suo cavallo d’oro finissimo
tutta dipinta di lucenti rubini, di smeraldi, di zaffiri e di grossissime
perle, le quali secondo il giudizio universale un stato valevano. Giunto in
piazza il valoroso Fortunio, tutti ad alta voce gridavano: — Viva, viva il
cavalier incognito! — e con un spesso e festoso batter di mani fischiavano. Ed
entrato nella sbarra, sí coraggiosamente si portò, che mandati tutti sopra la
nuda terra, della giostra ebbe il glorioso trionfo. E sceso giú del potente
cavallo, fu dai primi e dai maggiori della cittá sopra i loro omeri sollevato;
e con sonore trombe ed altri musici stromenti, e con grandissimi gridi che
givano in fino al cielo, alla presenza del re incontanente lo portorono. E
trattogli l’elmo e le relucenti arme, il re vide un vago giovanetto; e chiamata
la figliuola, in presenza di tutto il popolo con grandissima pompa la fece
sposare, e per un mese continovo tenne corte bandita.
Essendo Fortunio con la diletta moglie un certo tempo
dimorato, e parendogli sconvenevole e cosa vile il star ne l’ozio avolto
raccontando l’ore sí come fanno quelli che sciocchi sono e di prudenza privi,
determinò al tutto di partirsi, e andarsene in luochi dove il suo gran valore
fusse apertamente conosciuto. E presa una galea e molti tesori che ’l suocero
gli aveva donati, e tolta da lui e dalla moglie buona licenza, sopra la galea
salí. Navigando adunque Fortunio con prosperi e favorevoli venti, aggiunse
nell’Atlantico mare; né fu guari piú di dieci miglia entrato nel detto mare,
che una sirena, la maggiore che mai veduta fusse, alla galea si accostò, e
dolcemente cominciò a cantare. Fortunio, che in un lato della galea col capo
sopra l’acqua per ascoltare dimorava, si addormentò; e cosí dormendo fu dalla
sirena diglottito, la quale, attuffatasi nelle marine onde, se ne fuggí. I
marinai, non potendolo soccorrere, scoppiavano da dolore; e tutti mesti e
sconsolati la galea di bruni panni copersero, ed all’infelice e sfortunato
Odescalco fecero ritorno, raccontandoli l’orribile e lagrimoso caso che nel
mare gli era sopravenuto. Dil che il re e Doralice e tutta la cittá grandissimo
dolore sentendo, di neri panni si vestiro.
Avicinatasi giá l’ora del parto, Doralice un bellissimo
bambino parturí; il quale, vezzosamente in molte delicatezze nudrito, alla etá
di duo anni pervenne. E considerando la mesta ed addolorata Dolarice sé esser
priva del suo diletto e caro sposo, né esservi piú speranza alcuna di poterlo
riavere, nell’alto e viril animo suo propose di voler al tutto, ancor che il re
consentire non le volesse, mettersi in mare alla fortuna e la sua ventura
provare. E fatta mettere in punto una galea ben armata e di gran vantaggio, e
presi tre pomi a maraviglia lavorati, dei quali l’uno era di auricalco, l’altro
di argento ed il terzo di finissimo oro, tolse licenza dal padre, ed in galea
col bambino montò; e date le vele al prosperevole vento, nell’alto mare entrò.
La mesta donna, cosí navigando con tranquillo mare, ordinò alli marinai che
dove lo sposo suo dalla sirena fu inghiottito, in quel luoco condurre la
dovessero. Il che fu essequito. Aggiunta adunque la nave al luogo dove lo sposo
fu dalla sirena diglottito, il bambino cominciò dirottamente a piangere; e non
potendolo la madre per modo alcuno attasentare, prese il pomo di auricalco ed
al fanciullo lo diede. Il quale, seco giuocando, fu dalla sirena veduto; ed
ella, accostatasi alla galea e sollevando alquanto la testa delle schiumose
onde, disse alla donna: — Donna, donami quel pomo; perciò che di quello io sono
innamorata molto. — A cui la donna rispose non volerglielo donare, perciò che
del figliuolino era il trastullo. — Se ti sará in piacere di donarlomi, — disse
la sirena, — ed io ti mostrerò lo sposo tuo insino al petto. — Il che ella
intendendo, e desiderando molto di vedere lo sposo suo, glielo donò. E la
sirena in ricompenso del caro dono, sí come promesso le aveva, il marito sino
al petto le mostrò; ed at tuffatasi nell’onde, non si lasciò piú allora vedere.
Alla donna, che ogni cosa attentamente veduto aveva, crebbe maggior desiderio
di vederlo tutto; e non sapendo che fare né che dire, col suo bambino si
confortava. Al quale, da capo piangendo, acciò che s’attasentasse, la madre il
pomo d’argento diede. Ma essendo per aventura dalla sirena veduto, alla donna
lo richiese in dono. Ma ella, stringendosi nelle spalle e vedendo che ’l era il
trastullo del fanciullo, di donarglielo ricusava. A cui disse la sirena: — Se
tu mi donerai il pomo che è vie piú bello dell’altro, io ti prometto di
mostrarti il tuo sposo sino alle ginocchia. — La povera Doralice, desiderosa di
vedere piú avanti il suo diletto sposo, pospose l’amore del fanciullo, e
lietamente glielo donò; e la sirena, attesa la promessa, nell’onde s’attuffò.
La donna tutta tacita e sospesa stavasi a vedere, né alcun partito per liberare
da morte il suo marito prender sapeva; ma toltosi in braccio il bambino che
tuttavia piangeva, con esso lui si consolava alquanto. Il fanciullo,
ricordatosi del pomo con cui sovente giuocava, si mise in sí dirotto pianto,
che fu la madre da necessitá costretta dargli il pomo d’oro. Il quale, veduto
dallo ingordo pesce, e considerato che sopra gli altri duo era bellissimo,
parimente le fu richiesto in dono; e tanto disse e tanto fece, che la madre
contra il voler del fanciullo glielo concesse. E per che la sirena le aveva
promesso di far vedere lo sposo suo intieramente tutto, per non mancare della
promessa, s’avicinò alla galea; e sollevato alquanto il dorso, apertamente
glielo mostrò. Fortunio, vedendosi fuori delle onde e sopra il dorso della
sirena in libertá, tutto giolivo, senza interponere indugio alcuno, disse: —
Deh fuss’io un’aquila! — E questo detto, subitamente aquila divenne; e levatosi
a volo, sopra l’antenna della galea agevolmente salí: ed ivi, tutti i marinai
vedendo, abbasso disceso, nella propria sua forma ritornò, e prima la moglie ed
il bambino, indi la marinerezza strettamente abbracciò e basciò. Allora tutti allegri
del ricoperato sposo, al regno paterno fecero ritorno; e giunti nel porto, le
trombe, le naccare, i tamburi e gli altri stromenti cominciorono sonare. Il re
questo udendo si maravigliò, e sospeso attese quello che ciò volesse dire. Ma
non stette guari che venne il noncio, ed annonciò al re come Fortunio suo
genero con la diletta sua figliuola era ag giunto. E smontati di galea, tutti
se n’andorono al palazzo: dove con grandissima festa e trionfo furono ricevuti.
Dopo alcuni giorni Fortunio, andatosene a casa e fattosi lupo, Alchia sua
matrigna e Valentino suo fratello per la ricevuta ingiuria divorò; e ritornato
nella primiera forma, ed asceso sopra il suo cavallo, al regno del suocero fece
ritorno: dove con Doralice sua cara e diletta moglie per molti anni in pace con
grandissimo piacere di ciascuna delle parti insieme si goderono. —
|