— Vaghe e vezzose donne, la favola da Eritrea nella precedente
sera raccontata, mi ha sí di vergogna punto il cuore, che quasi me ne sono
restata in questa sera di favoleggiare. Ma l’osservanza che io porto alla
nostra signora, e la riverenza che io ho a questa orrevole e grata compagnia,
mi stringe e inanima a raccontarne una. La quale quantunque cosí bella non sia
come quella raccontata da lei, pur la raccontarò; ed intenderete come una
poncella, generosa di animo e di alto valore, a cui fu nelle sue opere molto
piú favorevole la fortuna che la ragione, volse piú tosto diventar serva che
avilire la sua condizione; e dopo la gran servitú, di re Cacco moglie divenuta,
rimase paga e contenta: sí come nel discorso del mio ragionamento
comprenderete.
In Tebe, nobilissima cittá dell’Egitto, ornata de publici e
privati edifici, ubertosa di biancheggianti biade, copiosa di freschissime
acque ed abondevole di tutte quelle cose che ad una gloriosa cittá si
convengono, regnava ne’ passati tempi un re, Ricardo per nome chiamato, uomo
saputo, di profonda scienza e di alto valore. Costui, desideroso di aver eredi,
prese per moglie Valeriana, figliuola di Marliano re di Scozia, donna nel vero
compiuta, bella di forma e graziata molto; e di lei generò tre figliuole,
ornate di costumi, leggiadre e belle come matutine rose. L’una delle quali Valenzia,
l’altra Doratea, la terza Spinella si nominava. Vedendo Ricardo Valeriana sua
moglie esser in termine di non poter avere piú figliuoli, e le tre figliuole
esser in etá di dover aver marito, determinò tutta tre onoratissimamente
maritare e dividere il regno suo in tre parti: assegnandone una a ciascheduna
delle figliuole e ritenendo per sé tanto quanto fusse bastevole per la
sustentazione e di sé e della famiglia e corte sua. E sí come egli seco
deliberato aveva, cosí alla deliberazione seguí l’effetto. Maritate adunque che
furono le figliuole in tre potentissimi re di corona: l’una nel re di Scardona,
l’altra nel re dei Goti, la terza nel re di Scizia, ed assignata a ciascheduna
di loro la terza parte del suo reame per dote, e ritenuta per sé una parte
assai piccioletta, la quale al bisogno suo maggiore li prestasse soccorso,
viveva il buon re con Valeriana sua diletta moglie onestamente ed in pacifico
stato.
Avenne che dopo non molti anni, la reina, di cui il re non
aspettava piú prole, se ingravidò; e giunta al parto, parturí una bellissima
bambina, la quale dal re fu non meno ben veduta ed accarrecciata, che furono le
tre prime: ma dalla reina non molto ben veduta ed accettata, non giá perché
odio le portasse, ma per esser tutto il regno in tre parti diviso, né vedersi
modo alcuno di poterla sofficientemente maritare; né però la volse trattare da
meno di figliuola, ma datala ad una sofficiente balia, strettamente le impose
che di lei somma cura avesse, ammaestrandola e dandole quelli gentili e lodevoli
costumi che ad una bella e leggiadretta giovane si convengono. La giovanetta,
che per nome Costanza si chiamava, cresceva di dí in dí in bellezze ed in
costumi; né le era dimostrata cosa alcuna dalla savia maestra, che ella
ottimamente non apprendesse. Costanza, essendo pervenuta all’etá di dodeci
anni, aveva giá imparato ricamare, cantare, sonare, danzare, e far tutto quello
che ad una matrona onestamente si conviene. Ma non contenta di ciò, tutta si
diede agli studi delle buone lettere; le quali con tanta dolcezza e diletto
abbracciava, che non pur il giorno, ma anche la notte in quelle consumava,
afforciandosi sempre di trovar cose che fussero molto isquisite. Appresso
questo, non come donna, ma come valente e ben disposto uomo, all’arte militare
si diede, domando cavalli, armeggiando e giostrando; ed il piú delle volte
rimaneva vincitrice e portava il trionfo, non altrimenti di quello che fanno i
valorosi cavalieri d’ogni gloria degni. Per le quali cose tutte e ciascheduna
da per sé, era Costanza dal re e dalla reina e da tutti tanto amata, che non vi
era termine al loro amore.
Essendo adunque Costanza in etá perfetta, e non avendo il re
piú stato né tesoro di poterla in alcun potente re orrevolmente maritare, molto
tra sé si ramaricava; e questa cosa con la reina sovente conferiva. Ma la
prudentissima reina, che considerava le virtú della figliuola esser tali e
tante che ella non aveva donna che a lei si potesse agguagliare, rimaneva
contenta molto, e con dolci ed amorevoli parole confortava il re che stesse
cheto e punto non dubitasse; perché alcuno potente signore, acceso del lei
amore per le sue degne virtú, non si disdegnarebbe di prenderla per moglie
senza dote. Non passò gran tempo, che la figliuola fu richiesta per moglie da
molti valorosi signori: tra i quali vi fu Brunello, figliuolo del gran marchese
di Vivien. Laonde il re insieme con la reina chiamò la figliuola; e postisi in
una camera a sedere, disse il re: — Costanza, figliuola mia diletta, ora è
venuto il tempo di maritarti, e noi ti abbiamo trovato per marito un giovane
che sará di tuo contento. Egli è figliuolo del gran marchese di Vivien, nostro
molto domestico: il cui nome è Brunellor giovane vago, aveduto e di alto
valore, le cui prodezze sono giá divolgate per tutto il mondo. Ed egli a noi
altro non richiede se non la buona grazia nostra e la dilicata persona tua, la
quale egli stima piú che ogni stato e tesoro. Tu sai, figliuola mia, che per la
povertá nostra non ti potiamo piú altamente maritare. E però tu rimarrai
contenta di tanto, quanto è il voler nostro. — La figliuola, che savia era e di
alto legnaggio vedevasi nata, attentamente ascoltò le parole del padre; e senza
porre alcuna distanza di tempo, in tal guisa gli rispose: — Sacra Corona, non
fa bisogno che io mi distenda in parole in dar risposta alla degna vostra
proposta; ma solo dirovvi ciò che la materia ricerca. E prima io vi rendo
quelle grazie che per me si puolono le maggiori, del buon animo ed affezione
che voi avete verso di me, cercando di darmi marito da me non richieduto.
Dopo’, con ogni riverenza e summissione parlando, io non intendo di degenerare
alle progenie de’ miei antecessori, che ad ogni tempo sono stati famosi e
chiari; né voglio avilire la
Corona vostra, prendendo per marito colui che è inferiore a
noi. Voi, padre mio diletto, avete generato quattro figliuole: delle quali tre
avete onoratissimamente maritate in tre potenti re, dandole grandissimo tesoro
e stato; e me, che fui sempre ubidiente a voi ed a gli precetti vostri, volete
sí bassamente in matrimonio copulare? Laonde conchiudendo dico che mai io non
sono per prender marito, se io, come l’altre tre sorelle, non avrò un re
convenevole alla persona mia. — E preso commiato dal re e dalla reina, non
senza loro profondissimo sparger di lagrime, e montata sopra uno potente
cavallo, sola di Tebe si partí; e prese il cammino verso quella parte dove la
fortuna la guidava.
Cavalcando adunque Costanza alla ventura, mutossi il nome, e
di Costanza, Costanzo si fece chiamare; e passati diversi monti, laghi e stagni,
vide molti paesi, ed udí vari lenguaggi, e considerò le loro maniere ed i
costumi de’ popoli, li quali la loro vita non come uomini, ma come bestie
guidavano. E finalmente un giorno nell’ora del tramontar del sole giunse ad una
celebre e famosa cittá, chiamata Costanza, la quale allora signoreggiava Cacco
re della Bettinia, ed era capo della provinzia. Ed entratavi dentro, cominciò
contemplare gli superbi palazzi, le dritte e spaziose strade, i correnti e
larghi fiumi, i limpidi e chiari fonti; ed approssimatasi alla piazza, vide
l’ampio ed alto palazzo del re, le cui colonne erano di finissimi marmi,
porfidi e serpentini: ed alzati gli occhi alquanto in su, vide il re che stava
sopra un verone che tutta la piazza signoreggiava; e trattosi il cappello di capo,
riverentemente lo salutò. Il re, vedendo il giovanetto sí leggiadro e vago, il
fece chiamare e venire alla presenza sua. Giunto che egli fu dinanzi al re,
addimandollo donde egli veniva e che nome era il suo. Il giovane con allegra
faccia rispose che egli veniva da Tebe, persequitato dalla invidiosa ed
instabile fortuna, e che Costanzo era il nome suo: e desiderava volontieri
accordarsi con alcuno gentiluomo da bene, servendolo con quella fede ed amore
che servire si dee. Il re, a cui molto piaceva l’aspetto del giovanetto, disse:
— Giá che tu porti il nome della mia cittá, io voglio che tu stie nella mia
corte, niun’altra cosa facendo che attendere alla persona mia. — Il giovane,
che altra cosa non desiderava maggiore, primieramente ringraziò il re, e dopo
accettollo per signore, offerendosi in tutto quello che per lui si potesse,
parato.
Essendo adunque Costanzo in forma d’uomo agli servigi del re,
con tanta leggiadria lo serviva, che ogn’uno che lo vedeva, attonito e
stupefatto rimaneva. La reina, che di Costanzo gli elegantissimi gesti, le
laudevoli maniere e prudentissimi costumi veniva considerando, piú attentamente
cominciò riguardarlo; e del suo amore sí caldamente s’accese, che ad altro che
a lui dí e notte non pensava, e con dolci ed amorosi sguardi si fieramente lo
ballestrava, che non che lui, ma ogni dura pietra e saldo diamante intenerito
avrebbe. In cotal guisa adunque amando la reina Costanzo, niuna altra cosa
tanto desiderava, quanto di ritrovarsi con esso lui. E venuto un giorno il convenevole
tempo di ragionar seco, l’addimandò se a lei servire gli fusse a grado, perciò
che, servendola, oltre il guidardone ch’egli riceverebbe, non solamente da
tutta la corte ben veduto sarebbe, ma anche appreciato e sommamente riverito.
Costanzo, avedutosi che le parole che uscivano dalla bocca della reina
procedevano non da buon zelo ch’ella avesse, ma da affezione amorosa, e
considerando che per esser donna non poteva saziare la sua sfrenata ed ingorda
voglia, con chiaro viso umilmente cosí rispose: — Madama, tanta è la servitú
che io ho col signor mio e marito vostro, che mi parrebbe far a lui grandissima
villania, quando io mi scostassi dalla ubidienza e voler suo. Però per iscusato
voi, signora, mi averete, se a’ vostri servigi pronto e apparato non mi
trovarete, perciò che al mio signore fino alla morte di servir intendo, pur che
gli aggradisca il mio servire; — e presa licenza, si partí. La reina, che ben
sapeva che la dura querce con un solo colpo non si atterra, piú e piú volte con
molta astuzia ed arte s’ingegnò di tirar il giovane a gli servigi suoi. Ma egli
costante e forte come alta torre da impetuosi venti battuta, nulla si muoveva.
Il che vedendo, la reina l’ardente e caldo amore in sí acerbo e mortal odio
converse, che piú non lo poteva guatare. E desiderosa della morte sua, giorno e
notte pensava, come dagli occhi se lo potesse rimovere; ma temeva fortemente il
re, che sommamente l’amava e caro lo teneva.
Regnava nella provincia della Bettinia una spezie di uomini, i
quali dal mezzo in su tenevano la forma di creatura umana, ancor che le loro
orecchie e corna di animale fusseno. Ma dal mezzo in giú avevano le membra di
pelosa capra, con un poco di coda torta a guisa di coda di porco, e nominavansi
satiri: i quali sconciamente danneggiavano i villaggi, i poderi e gli uomini
del paese, ed il re desiderava molto di averne uno vivo in sua balía; ma non vi
era alcuno a cui bastasse il cuore di prenderne uno ed al re appresentarlo.
Laonde la reina col mezzo loro s’imaginò di dar a Costanzo la morte; ma non le
venne fatto: perciò che l’ingannatore sovente rimane sotto a’ piedi
dell’ingannato, cosí permettendo la divina providenza e la somma giustizia. La
falsa reina, che chiaramente sapeva il desiderio del re, ragionando un giorno
con esso lui di varie cose, tra l’altre disse: — Signor mio, non sapete voi che
Costanzo, vostro fidelissimo servitore, è sí potente e sí forte, che gli basta
l’animo senza l’altrui aiuto prendere un satiro ed a voi appresentarlo vivo? Il
che, essendo cosí sí come io intendo, voi poterete agevolmente isperimentare, e
ad un’ora adempire il voler vostro: ed egli, come potente e forte cavaliere,
conseguirá un trionfo che gli sará di perpetua fama. —
Piacquero molto le parole dell’astuta reina al re: il quale
subito fece chiamare Costanzo, e tai parole li disse: — Costanzo, se tu mi ami,
sí come tu dimostri e ciascuno il crede, intieramente adempirai i miei desiri,
e tu la vera gloria ne porterai. Tu dèi sapere che non è cosa in questo mondo
ch’io piú brami e desideri, che avere uno satiro in mia balía. Onde, essendo tu
potente e gagliardo, non è uomo in questo regno che meglio mi possa contentare
che tu. Però, amandomi come mi ami, non mi negherai questa dimanda. — Il
giovane, che conosceva la cosa altrove procedere che dal re, non volse
contristarlo; ma con piacevole e lieto viso disse: — Signor mio, questo ed
altro mi potete comandare. E quantunque le forze mie siano deboli, non però
resterò di sodisfare al desiderio vostro, ancora che nella morte io dovessi
incappare. Ma prima che io mi ponga alla pericolosa impresa, voi, signor mio,
ordinarete che al bosco, dove abitano i satiri, sia condotto uno vaso grande
con la bocca larga, e che non sia minor di quello in cui le serventi con il
liscio nettano le camiscie ed altri panni di lino. Appresso questo vi si
porterá una botte non picciola di buona vernaccia, della migliore e della piú
potente che si possi trovare, con doi sacconi di bianchissimo pane. — Il re
incontamente essequí tutto quello che Costanzo aveva divisato. Ed andatosene Costanzo
al bosco, prese uno secchio di rame, ed incominciò attingere fuori della botte
la vernaccia ponendola nel doglio ivi vicino; e preso il pane e fattolo in
pezzi, parimenti nel doglio di vernaccia pieno lo pose. Indi salí sopra una ben
frondata arbore, aspettando quello che ne poteva avenire. Appena che ’l giovane
Costanzo era asceso sopra dell’albero, che gli satiri, che giá avevano sentito
l’odore del fumoso vino, cominciorono appresentarsi al doglio, e ne tolsero una
corpacciata, non altrimenti che fanno i famelici lupi nelle mandre delle
pecorelle venuti; e poscia che ebbero empiuto la loro ventraglia e furono a
bastanza satolli, si misero a dormire; e sí alta e profondamente dormivano, che
tutti gli strepiti del mondo non gli arebbono allora destati. Il che vedendo,
Costanzo scese giú dell’albero; ed accostatosi ad uno, lo legò per le mani e
per li piedi con una fune che seco recata aveva: e senza esser d’alcuno
sentito, lo pose sopra il cavallo, e via lo condusse.
Cavalcando adunque il giovane Costanzo con il satiro
strettamente legato, all’ora del vespro aggiunse ad una villa non molto lontano
dalla cittá; ed avendo il bestione giá padita la ebbriezza, si risvegliò; e
come se dal letto si levasse, cominciò sbadagliare; e guatandosi d’intorno, vide
un padre di famiglia che con molta turba accompagnava un fanciulletto morto
alla sepoltura. Egli piangeva, e messere lo prete, che le essequie faceva,
cantava. Di che lo satiro se ne sorrise alquanto. Poscia entrato nella cittá,
ed aggiunto nella piazza, vide il popolo che attentamente mirava un povero
giovane ch’era sopra la forca per esser dal carnefice impiccato. Di che lo
satiro maggiormente se ne rise. E giunto che fu al palazzo, ogn’un cominciò far
segno di allegrezza, e gridare: — Costanzo! Costanzo! — Il che vedendo,
l’animale vie piú fortemente mandò fuori le risa. E pervenuto Costanzo al
cospetto del re e della reina e delle sue damigelle, appresentolli lo satiro;
il quale, se per a dietro rise, ora furono sí grandi le risa sue, che tutti,
che ivi erano presenti, ne presero non picciola maraviglia.
Vedendo il re che Costanzo aveva adempiuto il desiderio suo,
tanta affezione li pose, quanta mai ebbe patrone a servitore alcuno; ma ben
doglia sopra doglia alla reina crebbe, la quale, con sue parole credendo
distruggere Costanzo, il puose in stato maggiore. E non potendo la scelerata
sofferire il tanto bene che di lui ne vedeva riuscire, s’imaginò un nuovo
inganno: il qual fu questo; perciò che ella sapeva che ’l re era consueto
andarsene ogni mattina alla pregione dove il satiro dimorava, e per suo
trastullo il tentava che egli parlasse; ma il re non ebbe mai tanta forza di
farlo parlare. Onde, andatasene al re, disse: — Monsignor lo re, piú e piú
volte siete andato all’albergo del satiro, e vi siete affaticato per farlo
ragionare con esso voi per prenderne trastullo; né mai la bestia ha voluto
favellare. Che volete piú star a rompervi il cervello? Sapiate se Costanzo
vorrá, tenete per certo che egli è sofficiente a farlo ragionare e rispondere
sí come meglio li parerá. — Il che intendendo, il re immantinente fece Costanzo
a sé venire; ed appresentatosi, gli disse: — Costanzo, io mi rendo certo che tu
sai quanto piacere ne prenda del satiro da te preso; ma mi doglio che egli
mutolo sia e non vogli alle dimande mie in modo alcuno rispondere. Se tu
vorrai, sí come io intendo, fare il debito tuo, non dubito che egli parlerá. —
— Signor mio, — rispose Costanzo, — se lo satiro è mutolo, che ne posso io?
Darli la loquela non è ufficio umano ma divino. Ma se l’impedimento della
lingua procedesse non da vizio naturale overo accidentale, ma da dura
ostinazione di non voler rispondere, io mi sforzerò a piú potere di far sí che
egli parli. — Ed andatosi insieme col re alla prigione del satiro, gli recò ben
da mangiare e meglio da bere; e dissegli: — Mangia, Chiappino; — perciò che
cosí gli aveva imposto nome; ed egli lo guatava, e non rispondeva. — Deh,
parla. Chiappino, ti prego; e dimmi se quel cappone ti piace e quel vino ti
diletta. — Ed egli pur taceva. Vedendo Costanzo l’ostinata voglia, disse: — Tu
non mi vuoi rispondere, Chiappino; tu veramente fai il tuo peggio, perciò che
io ti farò morire in prigione da fame e da sete. — Egli lo guatava con occhio
torto. Disse allora Costanzo: — Rispondemi, Chiappino; che se tu, come spero,
meco parlerai, io ti prometto di cotesto luoco liberarti. — Chiappino, che
attentamente ascoltava il tutto, intesa la liberazione, disse: — E che vuoi tu
da me? — Hai tu ben mangiato e bevuto secondo il voler tuo? — disse Costanzo. —
Sí, rispose Chiappino. — Ma dimmi, ti prego, per cortesia, — disse Co stanzo; —
che avevi tu che ridevi quando noi eravamo per strada e vedevamo un fanciullo
morto alla sepoltura portare? — A cui rispose Chiappino: — Io me ne risi, non
del morto fanciullo, ma del padre, di cui il morto non era figliuolo, che
piangeva, e del prete, di cui egli era figliuolo, che cantava. — Il che
significò che la madre del morto fanciullo era adultera del prete. — Piú oltre
io vorrei intendere da te, Chiappino mio: qual cagione ti mosse a maggior riso,
quando noi ci giungessimo alla piazza? — Io mi mossi al riso, — rispose
Chiappino, — che mille ladroni, che hanno rubbato migliaia di fiorini al
publico e meritano mille forche, si stavano a guatare in piazza un miserello
che era alla forca condotto, ed aveva solamente involato dieci fiorini per
sostentamento forse e di sé e della famiglia sua. — Appresso questo, dimmi, di
grazia, — disse Costanzo; — quando aggiungemmo al palazzo, per che piú
fortemente ridesti? — Deh, non mi astringer piú a ragionare ora, ti prego, —
disse Chiappino, — ma va, e ritorna dimane, che io ti risponderò e dirotti cose
che tu forse non pensi. — Il che udendo, Costanzo disse al re: — Partiamsi, che
dimane faremo ritorno, ed intenderemo ciò che egli voglia dire. — Partitisi
adunque, il re e Costanzo ordinarono che fusse dato a Chiappino ben da mangiare
e da bere, acciò che meglio potesse ciarlare.
Venuto il giorno sequente, ambeduo ritornorono a Chiappino, ed
il trovorono che come un grasso porco soffiava e roncheggiava. Accostatosi
Costanzo appresso a lui, piú volte ad alta voce lo chiamò. Ma Chiappino, che
era ben pasciuto, dormiva, e nulla rispondeva. Costanzo, perlungato un dardo
che in mano teneva, tanto lo punse, che egli si risentí; e destato che egli fu,
l’addimandò: — Orsú, dí, Chiappino, quello che heri ne promettesti. Perché,
giunti che noi fummo al palazzo, sí forte ridesti? — A cui rispose Chiappino: —
Tu lo sai molto meglio che io; perciò che tutti gridavano: Costanzo! Costanzo!
e nondimeno sei Costanza. — Il che il re in quel punto non intese quello che
Chiappino volesse inferire. Ma Costanzo, che ’l tutto aveva compreso, acciò che
Chiappino piú oltre non procedesse, gli troncò la strada dicendo: — Ma quando
innanzi al re e alla reina fosti, che causa ti mosse a dover oltre misura
ridere? — A cui rispose Chiappino: — Io fieramente me ne ridei, perché il re ed
ancor tu credete che le damigelle, che alla reina serveno, siano damigelle: e
non dimeno la maggior parte loro damigelli sono; — e poi si tacque. Il re,
questo intendendo, stette alquanto sopra di sé, nulla però dicendo; e partitosi
dal silvestre satiro, con il suo Costanzo del tutto chiarirsi si volse. E fatta
la isperienza, trovò Costanzo esser femina e non uomo, e le damigelle
bellissimi giovani, sí come Chiappino raccontato gli aveva. Ed in quello
instante il re fece accendere un grandissimo fuoco in mezzo della piazza; e
presente tutto il popolo, fece la reina con tutti li damigelli arrostire. E
considerata la lodevole lealtá e franca fede di Costanza, e vedendola
bellissima, in presenza de tutti i baroni e cavalieri la sposò. Ed inteso di
cui era figliuola, molto si rallegrò; e mandati gli ambasciatori a Ricardo re
ed a Valeriana sua moglie ed alle tre sorelle, come ancor Costanza era maritata
in un re, tutti ne sentirono quella letizia che sentire si debbe. E cosí
Costanza nobile e generosa in guidardone del ben servire reina rimase, e con
Cacco re lungamente visse. —
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