— Non sarebbe, graziose donne, al mondo stato il piú dolce, il
piú dilettevole, né ’l piú felice, che trovarsi in servitú d’amore, se non
fusse l’amaro frutto della súbita gelosia, fugatrice de gli assalti di
Cupidine, insidiatrice dell’amorose donne, diligentissima investigatrice della
loro morte. Laonde mi si para davanti una favola che vi doverá molto piacere;
perciò che per quella poterete agevolmente comprendere il duro ed infelice fine
che fece un gentiluomo ateniense; il quale con la sua fredda gelosia credette
la moglie per man di giustizia finire, ed egli al fine condennato e morto rimase.
Il che giudico che vi sará caro udire; perciò che, se io non erro, penso che
ancor voi innamorate siete.
In Atene, antiquissima cittá della Grecia, ne’ passati tempi
domicilio e recettacolo di tutte le dottrine, ma ora per la sua ventosa
superbia totalmente rovinata e distrutta, ritrovavasi un gentiluomo, messer
Erminione Glaucio per nome chiamato: uomo veramente grande ed estimato assai
nella cittá e ricco molto, ma povero d’intelletto. Perciò che, essendo oramai
attempato, e attrovandosi senza figliuoli, deliberò de maritarsi; e prese per
moglie una giovanetta, nominata Filenia, figliuola di messer Cesarino
Centurione, nobile di sangue, di maravigliosa bellezza e d’infinite virtú
dotata: né vi era nella cittá un’altra che a lei pareggiar si potesse. E perciò
che egli temeva per la sua singolar bellezza non fusse sollecitata da molti e
cadesse in qualche ignominioso difetto, per lo quale poi ne fusse dimostrato a
dito, pensò di porla in un’alta torre nel suo palazzo, non lasciando che da
alcuno fosse veduta. E non stette molto che il povero vecchio, senza sapere la
cagione, divenne di lei tanto geloso, che appena di sé stesso si fidava.
Avenne pur che nella cittá si trovava un scolare cretense,
giovane di etá, ma saccente ed aveduto molto e da tutti per la sua gentilezza e
leggiadria assai amato e riverito: il quale per nome Ippolito si chiamava, ed
innanzi che ella prendesse marito, lungo tempo vagheggiata l’aveva; ed appresso
questo teneva stretta domestichezza con messer Erminione, il quale non meno l’amava
che se figliuolo li fusse. Il giovanetto, essendo alquanto stanco di studiare e
desideroso di ricoverare gli spiriti lassi, di Atene si partí; ed andatosene in
Candia, ivi per un spazio di tempo dimorò, e ritornato ad Atene, trovò Filenia
che maritata era. Di che egli fu oltre misura dolente; e tanto piú si doleva,
quanto che si vedeva privo di poterla a suo bel grado vedere: né poteva
sofferire che sí bella e vaga giovanetta fusse congiunta in matrimonio con sí
bavoso ed isdentato vecchio. Non potendo adunque l’innamorato Ippolito piú
pazientemente tollerare gli ardenti stimoli ed acuti strali d’amore, se ingegnò
di trovare qualche secreto modo e via, per la quale egli potesse adempire i
suoi desiri. Ed essendogliene molti alle mani venuti, ne scelse prudentissimamente
uno che piú giovevole li pareva. Imperciò che, andatosene alla bottega di uno
legnaiuolo suo vicino, gli ordinò due casse assai lunghe, larghe ed erte, e
d’una medesima misura e qualitá, sí che l’una dall’altra agevolmente non si
poteva conoscere. Dopo se ne gí da messer Erminione; ed infingendosi avere
bisogno di lui, con molta astuzia li disse queste parole: — Messer Erminione
mio, non meno di padre da me amato e riverito sempre, se non mi fusse noto
l’amore che voi mi portate, io non mi ardirei con tanta baldanza richiedervi
servigio alcuno; ma perciò che hovvi trovato sempre amorevole verso me, non
dubitai punto di non poter ottener da voi ciò che l’animo mio brama e desidera.
Mi occorre di andare fino nella cittá di Frenna per alcuni miei negozi
importantissimi, dove starò fino a tanto che saranno ispediti. E perché in casa
non ho persona di cui fidare mi possa, per essere alle mani di servitori e
fantesche de’ quali non mi assicuro molto, io vorrei, tuttavia se vi è a
piacere, deporre appresso voi una mia arca piena delle piú care cose che io mi
trovi avere. — Messer Erminione, non avedendosi della malizia del scolare, li
rispose che era contento: e acciò che la fusse piú sicura, la metterebbe nella
camera dove egli dormiva. Di che lo scolaro li rese quelle grazie le quali egli
seppe e puote le maggiori, promettendoli di tal servigio tenere perpetua
memoria; ed appresso questo sommamente lo pregò che si degnasse di andare fino
alla casa sua per mostrargli quelle cose che nell’arca aveva riservate.
Andatosene adunque messer Erminione alla casa d’Ippolito, egli vi dimostrò
un’arca piena di vestimenti di gioie e di collane di non poco valore. Indi
chiamò un de’ suoi serventi; e dimostratolo a messer Erminione, li disse: —
Ogni volta, messer Erminione, che questo mio servente verrá a tor l’arca,
prestaretegli quella fede, come se egli fusse la persona nostra. — Partitosi
messer Erminione, Ippolito si pose nell’altra arca che era simile a quella
delle vestimenta e gioie; e chiusosi dentro, ordinò al servente che la portasse
lá dove egli sapeva. Il servente, che del fatto era consapevole, ubidientissimo
al suo patrone, chiamò uno bastagio; e messagliela in su le spalle, la recò
nella torre dove era la camera in cui messer Erminione la notte con la moglie
dormiva.
Era messer Erminione uno de’ primai della cittá; e per esser
uomo ricco molto e assai potente, gli avenne che, per l’autoritá ch’egli
teneva, li fu bisogno contra la sua voglia di andare per alquanti giorni fino ad
uno luogo addimandato Porto Pireo, lontano per spazio de venti stadi dalla
cittá d’Atene, per assettare certe liti e differenze che tra’ cittadini e
quelli del contado vertivano. Partitosi adunque messer Erminione mal contento
per la gelosia che dí e notte lo premeva, ed avendo il giovane nell’arca chiuso
piú volte udito la bella donna gemere, ramaricarsi e piangere, maladicendo la
sua dura sorte, e l’ora, e ’l punto che ella si maritò in colui che era
distruttore della sua persona, aspettò l’opportuno tempo che ella
s’addormentasse. E quando li parve che ella era nel suo primo sonno, li uscí
dell’arca ed al letto si avicinò; e disse: — Destati, anima mia, che io sono il
tuo Ippolito. — Ed ella, destata, vedendolo e conoscendolo, perciò che era il
lume acceso, volse gridare. Ma il giovane, messa la mano alla sua bocca, non la
lasciò gridare; ma quasi lagrimando disse: — Taci, cuor mio; non vedi tu ch’io
sono Ippolito, amante tuo fedele, che senza di te il viver mi è noioso? —
Achetata alquanto la bella donna, e considerata la qualitá del vecchio
Erminione e del giovane Ippolito, di tal atto non rimase scontenta: ma tutta
quella notte giacque con esso lui in amorosi ragionamenti, biasmando gli atti
ed i gesti del pecorone marito, e dando ordine di potersi alcuna volta
ritrovare insieme. Venuto il giorno, il giovane si rinchiuse nell’arca; e la
notte se ne usciva fuori a suo piacere, e giaceva con esso lei.
Erano giá passati molti e molti giorni, quando messer
Erminione, sí per lo incomodo che pativa, sí anche per la rabbiosa gelosia che
di continovo lo cruciava, assettò le differenze di quel luogo, e ritornossi a
casa. Il servente d’Ippolito, che inteso aveva la venuta di messer Erminione,
non stette molto che se n’andò a lui, e per nome del suo patrone chieseli
l’arca: la quale, secondo l’ordine tra loro dato, graziosamente da lui li fu
restituita; ed egli, preso un bastagio, a casa se la recò. Uscito Ippolito
dell’arca, andò verso piazza, dove s’imbattè in messer Erminione; ed
abbracciatisi insieme, del ricevuto servigio come meglio puote e seppe
cortesemente lo ringraziò, offerendoli e sé e le cose sue sempre a’ suoi
comandi paratissime.
Ora avenne che, standosi messer Erminione nel letto una
mattina con la moglie piú del solito a giacere, se li rappresentorono nel
pariete innanzi agli occhi certi sputi che erano assai alti e lontani molto da
lui. Onde acceso dalla gran gelosia che egli aveva, molto si maravigliò, e tra
sé stesso cominciò sottilmente considerare se gli sputi erano suoi overo di
altrui; e poi che egli ebbe ben pensato e ripensato, non vi puote mai cadere
nell’animo ch’egli fatti li avesse. Laonde temendo forte di quello che gli era
avenuto, si voltò contra la moglie, e con turbata faccia le disse: — Di chi
sono quei sputi sí alti? Quelli non sono sputi di me; io mai non li sputai;
certo che tradito mi hai. — Filenia allora, sorridendo di ciò, li rispose: —
Avete voi altro che pensare? — Messer Erminione, vedendola ridere, molto piú se
infiammò; e disse: — Tu ridi, ah, rea femina che tu se’? e di che ti ridi? — Io
mi rido, — rispose Filenia, — della vostra sciocchezza. — Ed egli pur tra sé
stesso si rodeva; e volendo isperimentare se tanto alto poteva sputare, ora
tossendo ed ora raccagnando, si afforzava col sputo di aggiungere al segno; ma
in vano si affaticava, perciò che lo sputo tornava indietro, e sopra il viso li
cadeva, e tutto lo impiastracciava. Avendo questo il povero vecchio piú volte
isperimentato, sempre a peggior condizione si ritrovava. Il che vedendo,
conchiuse per certo dalla moglie esser stato gabbato; e voltatosi a lei le
disse la maggior villania che mai a rea femina si dicesse. E se non fusse stato
il timore di sé stesso, in quel punto con le propie mani uccisa l’arrebbe; ma
pur si astenne, volendo piú tosto procedere per via della giustizia, che
bruttare le mani nel suo sangue. Onde non contento di questo, ma di sdegno e
d’ira pieno, al palagio se n’andò; ed ivi produsse innanzi al podestá contra la
moglie una accusazione di adulterio commesso. Ma perché il podestá non poteva condannarla
se prima non era osservato lo statuto, mandò per lei per diligentemente
essaminarla.
Era in Atene un statuto in somma osservanza, che ciascheduna
donna, di adulterio dal marito accusata, fusse posta a’ piedi della colonna
rossa, sopra la quale giaceva un serpe; indi se le dava il giuramento, se fusse
vero che l’adulterio avesse commesso. E giurato che ella aveva, erale di
necessitá che la mano in bocca del serpe ponesse; e se la donna il falso
giurato aveva, subito il serpe la mano dal braccio le spiccava: altrimenti
rimaneva illesa. Ippolito, che giá aveva persentita la querela esser data in
giudizio, e che il podestá aveva mandato per la donna che comparesse a far sua
difesa, acciò che non incorresse ne i lacci della ignominiosa morte, incontanente
da persona astuta e che desiderava camparle la morte, depose le sue vestimenta,
e certi stracci da pazzo si mise indosso; e senza che d’alcuno fusse veduto,
uscí di casa, ed al palagio come pazzo se ne corse, facendo di continovo le
maggior pazzie del mondo. Mentre che la sbirraglia del podestá menava la
giovane al palagio, concorse tutta la cittá a vedere come la cosa riusciva; ed
il pazzo, spingendo or questo or quello, si fece tanto innanzi, che puose le
braccia al collo alla disconsolata donna, ed un saporoso bascio le diede: ed
ella, che aveva le mani dietro avinte, dal bascio non si puote difendere.
Giunta adunque che fu la giovane innanzi al giudizio, le disse il podestá: —
Filenia, come tu vedi, qui è messer Erminione tuo marito, e duolsi di te che
abbi commesso l’adulterio, e perciò addimanda ch’io secondo lo statuto ti
punisca; e però tu giurerai se il peccato che ti oppone il tuo marito, è vero.
— La giovane, che astuta e prudentissima era, animosamente giurò che niuno di
peccato l’aveva tocca, se non il suo marito e quel pazzo che v’era presente.
Giurato che ebbe Filenia, i ministri della giustizia la condussero al serpe: al
quale presentata la mano di Filenia in bocca, non le fece nocumento alcuno;
perciò che aveva confessato il vero, che niuno altro di peccato, se non il
marito e il pazzo, tocca l’aveva. Veduto questo, il popolo ed i parenti, che
erano venuti1 a vedere l’orrendo spettacolo, innocentissima la
giudicorono, e gridavano che messer Erminione tal morte meritava, quale la donna
patire doveva. Ma per che egli era nobile e di gran parentado e dei maggiori
della cittá, non volse il podestá, come la giustizia permetteva, che fusse
pubblicamente arso; ma pur, per non mancare del debito suo, lo condannò in una
pregione: dove in breve spazio di tempo se ne morí. E cosí miseramente finí
messer Erminione la sua rabbiosa gelosia, e la giovane da ignominiosa morte si
disviluppò. Dopo non molti giorni Ippolito, presala per sua legittima moglie,
seco molti anni felicemente visse. —
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