— Io ho sempre inteso, piacevoli e graziose donne, l’uomo
esser il piú nobile e il piú valente animale che mai la natura creasse; perciò
che Iddio lo creò alla imagine ed alla similitudine sua, e volse ch’egli
signoreggiasse e non fusse signoreggiato. E per questo si dice, l’uomo esser
animal perfetto e di maggior perfezione che ogni altro animale, perché tutti,
non eccettovando anche la femina, sono sottoposti all’uomo. Di qua procede che
malagevolmente fanno coloro che con astuzia ed arte procurano la morte di sí
degno animale. E non è maraviglia se questi tali, mentre che si sforzano di
dare ad altrui la morte, in quella disavedutamente incorreno; sí come fecero
quattro donne, le quali, credendosi altrui uccellare, al fine uccellate rimasero,
e miseramente finirono la vita loro: sí come per la presente favola, che ora
raccontare intendo, agevolmente comprenderete.
In Provino, cittá assai famosa e regale, si trovorono ne’
passati tempi tre sorelle, vaghe d’aspetto, gentili di costumi e di maniere
accorte, ma basse di legnaggio; perciò che erano figliuole d’uno maestro Rigo
fornaio, che di continovo nel forno l’altrui pane coceva. L’una delle quali
Brunora, l’altra Lionella e la terza Chiaretta si chiamava. Essendo un giorno
tutta tre queste giovanette nel giardino, di cui a maraviglia si dilettavano,
passò per quindi Ancilotto re, che per suo diporto con molta compagnia se
n’andava alla caccia. Brunora, che era la maggior sorella, vedendo sí bella ed
orrevole compagnia, disse alle sorelle Lionella e Chiaretta: — Se io avessi il
maestro di casa del re per mio marito, mi do sto vanto, che io con un bicchiere
di vino saziarei tutta la sua corte. — Ed io — disse Lionella, — mi do sta
lode, che se io avessi il secretissimo cameriere del re per marito, farei tanta
tela con un fuso del mio filo, che di bellissime e sottilissime camiscie
fornirei tutta la sua corte. — Ed io — disse Chiaretta, — mi lodo di questo,
che se io avessi il re per mio marito, gli farei tre figliuoli in un medesimo
parto, duo maschi ed una femina; e ciascuno di loro arrebbe i capelli giú per
le spalle annodati e meschi con finissimo oro, ed una collana al collo ed una
stella in fronte. — Queste parole furono udite da uno dei corteggiani; il quale
subito corse al re, e precisamente li raccontò ciò che le fanciulle avevano
insieme detto. Il re, inteso cotal tenore, le fece a sé venire, e ad una ad una
le interrogò, che detto avevano insieme quando erano nel giardino. A cui tutta
tre con somma riverenza ordinatamente replicorono ciò avevano detto. Il che ad
Ancilotto re molto piacque. Ed indi non si partí, che il maestro di casa
Brunora prese per moglie, ed il cameriere Lionella, ed egli la Chiaretta. E lasciato
l’andare alla caccia, tutti ritornorono a casa, dove furono fatte le pompose
nozze.
Queste nozze assai dispiacquero alla madre del re; perciò che,
quantunque la fanciulla fusse vaga di aspetto, formosa di viso, leggiadra della
persona, ed avesse un ragionare di dolcezza pieno, non però era convenevole
alla grandezza ed alla potenza del re, per esser feminella vile, abbietta e di
minuta gente; né poteva in maniera alcuna la madre patire che uno maestro di
casa ed uno cameriere fussero detti cognati del re suo figliuolo. Onde tanto
crebbe l’odio alla suocera contra la nuora, che quasi non la poteva sentire,
non che vedere; ma pur, per non contristare il figliuolo, teneva l’odio nel
petto nascosto. Avenne, sí come piacque a colui che ’l tutto regge, che la
reina s’ingravidò. Il che fu di sommo piacere al re, il quale con grandissima
allegrezza aspettava di vedere la gentil prole de’ figlioli che gli erano sta’
promessi da lei. Al re dopo alquanti dí accadette di cavalcare nello altrui
paese, ed ivi per alcuni giorni dimorare: e perciò la reina e li figliuoli, che
di lei nasceranno, alla attempata madre instantissimamente raccomandò. La
quale, quantunque la nuora non amasse né veder la volesse, nondimeno di averne
buona cura al figliuolo largamente promise.
Partito adunque il re ed andatosene al suo viaggio, la reina
parturí tre figliuoli, duo maschi ed una femina; e tutta tre, sí come la reina
quando era poncella al re aveva promesso, avevano i capegli annodati e sparsi
giú per le spalle, con una vaga catenella al collo e con la stella nella
fronte. La proterva e maligna madre del re, priva d’ogni caritativa pietá e
accesa di pernizioso e mortal odio, tantosto che nacquero i cari bambini,
deliberò, senza il perfido proponimento mutare, di fargli al tutto morire,
acciò che di loro mai si sapesse novella e la reina in disgrazia del re venisse.
Appresso questo, perché Chiaretta era reina e signoreggiava il tutto, era
nasciuta tra le due sorelle una tanta invidia contra di lei, quanta nascere
potesse giamai; e con sue astuzie ed arti continovamente s’ingegnavano di
metterla in maggior odio della insensata madre.
Avenne che nel tempo che la reina parturi, nacquero in corte
ancora tre cani botoli, duo maschi ed una femina: i quali erano stellati in
fronte ed uno signaluzzo di gorgiera in torno al collo tenevano. Mosse le due
invidiose sorelle da diabolico spirito, presero i tre cani botoli che la madre
poppavano, e portorongli all’empia suocera; e fatta la debita riverenza, le
dissero: — Noi sappiamo, madama, che la Vostra Altezza poco
ama ed ha cara la sorella nostra, e meritamente; perciò che ella è di bassa
condizione, e non conviene al vostro figliuolo e nostro re una donna di sí
vilissimo sangue, come ella è. E però, sapendo noi il voler vostro, siamo qui
venute, e vi abbiamo recati tre cani botoli che nacquero con la stella in
fronte, acciò che abbiamo il parer vostro. — Questo molto piacque alla suocera,
e s’imaginò d’appresentargli alla nuora, che ancora non sapeva quello aveva
parturito, e dirle come quelli erano i bambini di lei nasciuti. Ed acciò che
tal cosa non si scoprisse, la mala vecchia ordinò alla comare che alla reina
dir dovesse, i fanciulli che parturiti avea, esser stati tre cani botoli. La
suocera adunque parimenti e le sorelle della reina e la comare se n’andorono a
lei, e dissero: — Vedi, o reina, l’opera del tuo bel parto; riserbalo, acciò
che, quando il re verrá, possa il bel frutto vedere. — E dette queste parole,
la comare le pose i cagnolini al lato, confortandola tuttavia che non si
disperasse, perché alle volte queste cose tra persone d’alto affare suoleno
avenire.
Aveva giá ciascheduna delle scelerate femine adempiuto ogni
suo reo e malvagio proponimento, e solo una cosa ci restava: che agli
innocentissimi fanciulli dessero acerba morte. Ma a Dio non piacque che del
proprio sangue si bruttassino le mani; ma fatta una cassetta e ben incerata di
tenace pece, e messi i fanciulli dentro e chiusi, la gittorono nel vicino
fiume, ed a seconda dell’acqua la lasciorono andare. Iddio giusto, che non paté
che l’innocente sangue patisca, mandò sopra la sponda del fiume un monaio,
Marmiate per nome chiamato; il quale, veduta la cassetta, la prese ed aperse, e
dentro vi trovò i tre bambini che ridevano. E perciò che erano molto belli,
pensò che fussero figliuoli di qualche gran matrona, la quale per vergogna del
mondo avesse commesso sí fatto eccesso. Onde renchiusa la cassetta e postasela
in spalla, se n’andò a casa; e disse alla moglie, che Gordiana si chiamava: —
Guata, moglie mia, ciò che trovai nella riva del fiume: io te ne faccio un
dono. — Gordiana, veduti i fanciulli, graziosamente gli ricevette; e non
altrimenti che se fussero del suo corpo nati, li nudrí. A l’uno de’ quali puose
nome Acquirino, all’altro Fluvio, per esser sta’ ritrovati nelle acque: ed alla
bambina, Serena.
Ancilotto re stavasi allegro, sempre pensando di trovare al
suo ritorno tre belli figliuoli; ma la cosa non gli avenne sí come ei pensava,
perciò che l’astuta madre del re, tantosto che s’accorse il figliuolo al
palazzo avicinarsi, gli andò incontro, e dissegli la sua cara moglie, in vece
di tre figliuoli, tre botoli cani aver parturito. E menatolo nella camera dove
la addolorata moglie per lo parto giaceva, gli dimostrò i cagnolini che al lato
teneva. Ed avenga che la reina dirottamente piangesse, negando tuttavia averli
parturiti, nientedimeno l’invidiose sorelle confermavano esser il vero tutto
quello che aveva detto la vecchia madre. Il che udendo, il re molto si turbò, e
quasi da dolore in terra cadde; ma poscia ch’egli rinvenne alquanto, stette
gran pezza tra il sí e ’l no suspeso, ed al fine diede piena fede alle parole
materne. E perché la misera reina era pazientissima, e con forte animo
sofferiva la corteggiana invidia, venne al re pietá di farla morire; ma comandò
che fusse posta sotto il luoco dove si lavano le pentole e le scutelle, e che
per suo cibo fussero le immondizie e le carogne che giú della fetente e sozza
scaffa cadevano.
Mentre che l’infelice reina dimorò in quel puzzolente luogo
nudrendosi d’immondizie, Gordiana, moglie di Marmiato monaio, parturí un
figliuolo, al quale puose nome Borghino; e quello con li tre amorevolmente
allevò. Aveva Gordiana per sua usanza ogni mese di troncare alli tre fanciulli
gli annodati e lunghi capelli: dai quali molte preziose gioie e grosse e
bianche perle cadevano. Il che fu cagione che Marmiato, lasciata la vilissima
impresa di macinare, presto ricco divenne; e Gordiana e i tre fanciulli e
Borghino, molto largamente vivendo, amorevolmente godevano. Giá erano venuti i
tre fanciulli alla giovenil etá, quando persentiro che di Marmiato monaio e di
Gordiana figliuoli non erano, ma trovati in una cassettina che giú per lo fiume
scorreva. Laonde molto si ramaricorono; e desiderosi di provare sua ventura,
chiesero da loro buona licenza, e si partirono. Il che non fu di contentamento
di Marmiato e Gordiana; perciò che si vedevano privare del tesoro che usciva
delle bionde loro chiome e della loro stellata fronte.
Partitisi adunque da Marmiato e da Gordiana l’uno e l’altro
fratello con la sorella, e fatte molte lunghe giornate, per aventura tutta tre
aggiunsero in Provino, cittá d’Ancilotto re suo padre; ed ivi, presa una casa a
pigione, insieme abitorono, nudrendosi del tratto delle gemme, delle gioie e
delle pietre preciose che dal capo gli cadevano. Avenne che il re un giorno
andando per la terra con alcuni suoi corteggiani spasseggiando, a caso indi
passò dove dimoravano i duo fratelli e la sorella; i quali, non avendo ancora
veduto né conosciuto il re, discesero giú dalle scale, ed andorono all’uscio: e
trattisi di testa il cappuccio, ed inchinate le ginocchia ed il capo,
riverentemente il salutorono. Il re, che aveva l’occhio d’un falcone
pellegrino, gli guatò fiso nel viso, e vide che ambeduo tenevano una dorata
stella nella fronte; e subito gli venne una rabbia al cuore, che quelli giovani
fussero suoi figliuoli. E fermatosi, dissegli: — Chi siete voi? e di donde
venite? — Ed elli umilmente risposero: — Noi siam poveri forastieri venuti ad
abitare in cotesta cittá. — Disse il re: — Piacemi molto; e come vi chiamate? —
A cui l’uno disse: — Acquirino; — l’altro disse: — Mi chiamo Fluvio. — Ed io, —
disse la sorella, — mi addimando Serena. — Disse allora il re: — Per cortesia
tutta tre a desinare con esso noi dimane vi invitiamo. — I giovani, alquanto
arrossiti, non potendo denegare l’onestissima dimanda, accettorono lo invito.
Il re, ritornato al palagio, disse alla madre: — Madama, oggi, andando a
diporto, vidi per aventura duo leggiadri giovanetti ed una vaga puncella: e
tutta tre avevano una dorata stella nella fronte, che, se io non erro, paiono
quelli che dalla reina Chiaretta mi furono giá promessi. — Il che udendo, la
sceleste vecchia se ne sorrise alquanto; ma pur le fu una coltellata che le
trapassò il cuore. E fattasi chiamare la comare che i fanciulli allevati aveva,
secretamente le disse: — Non sapete voi, comare mia cara, che i figliuoli del
re vivono, e son piú belli che mai? — A cui rispose la comare: — Com’è possibil
questo? non si affocorono nel fiume? E come lo sapete voi? — A cui rispose la
vecchia: — Per quanto che io posso comprendere per le parole del re, i vivono,
e del vostro aiuto ci è di bisogno molto; altrimenti, tutte stiamo in pericolo
di morte. — Rispose la comare: — Non dubitate punto, madama, che io spero di
operar sí, che tutta tre periranno. —
E partitasi, la comare subito se n’andò alla casa di
Acquirino, Fluvio e Serena; e trovata Serena sola, la salutò, e fece seco molti
ragionamenti; e dopo che ebbe lungamente ragionato con esso lei, disse: —
Avresti per aventura, figliuola mia, dell’acqua che balla? — A cui rispose
Serena, che no. — Deh! figliuola mia, — disse la comare, — quante belle cose
vedresti, se tu ne avesti; perciò che, bagnandoti il viso, diventeresti assai
piú bella di ciò che sei. — Disse la fanciulla: — E come potrei io fare per
averne? — Rispose la comare: — Manda i tuoi fratelli a ricercarla, che la
ritroveranno, perciò che dalle parti nostre non è molto lontana. — E detto
questo, si partí. Ritornati Acquirino e Fluvio a casa, Serena, fattasi
all’incontro, li pregò che per amor suo dovessino con ogni sollecitudine cercare
che la avesse di questa preciosa acqua che balla. Fluvio ed Acquirino,
facendosene beffe, ricusavano di andare, perciò che non sapevano dove che tal
cosa si trovasse. Ma pur, astretti dalle umili preghiere della diletta sorella,
presero un’ampolla ed insieme si partirono.
Avevano i duo fratelli piú miglia cavalcato, quando giunsero
ad uno chiaro e vivo fonte, dove una candida colomba si rinfrescava. La quale,
messo giú ogni spavento, disse: — O giovanetti, che andate voi cercando? — A
cui Fluvio rispose: — Noi cerchiamo quella preciosa acqua, la quale, come si
dice, balla. — Oh miserelli! — disse la colomba, — e chi vi manda a torre tal
acqua? — A cui rispose Fluvio: — Una nostra sorella. — Disse allora la colomba:
— Certo voi ve n’andate alla morte; perciò che vi si trovano molti velenosi
animali che, vedendovi, subito vi divoreranno. Ma lasciate questo carico a me,
che io sicuramente ve ne porterò. — E presa l’ampolla che i giovanetti avevano,
ed annodatala sotto l’ala destra, si alzò a volo; ed andatasene lá dove era la
delicata acqua, ed empiuta l’ampolla, ritornò alli giovani che con sommo
desiderio l’aspettavano.
Ricevuta l’acqua, e rese le debite grazie alla colomba, i
giovani ritornorono a casa, ed a Serena sua sorella l’acqua appresentorono, imponendole
espressamente che piú non gli comandasse cotai servigi, perciò che erano stati
in pericolo di morte. Ma non passaro molti dí, che ’l re da capo vide i
giovanetti; a’ quai disse: — E perché, avendo voi accettato lo invito, non
veneste ne’ passati giorni a desinare con esso noi? — A cui riverentemente
risposero: — Gli urgentissimi negozi, sacra Corona, ne sono stati primiera
cagione. — Allora disse il re: — Vi aspettiamo dimattina senza fallo al prandio
con noi. — I giovani si escusorono. Ritornato il re al palazzo, disse alla
madre che aveva ancora veduti i giovanetti stellati in fronte. Il che udendo,
la madre tra sé stessa molto si turbò; e da capo fece chiamare la comare, e
secretamente il tutto le raccontò pregandola che dovesse provedere al soprastante
pericolo. La comare la confortò, e dissele che non dovesse temere; perciò che
la farebbe sí che in maniera alcuna non saranno piú veduti. E partitasi dal
palazzo, alla casa della fanciulla se ne gí; e trovatala sola, l’addimandò se
quell’acqua che balla, ancora avuta aveva. A cui la fanciulla rispose, che sí:
ma non senza grandissimo pericolo della vita delli fratelli suoi. — Ma ben io
vorrei — disse la comare, — che tu, figliuola mia, avesti il pomo che canta;
perciò che tu non vedesti mai il piú bello, né gustasti il piú soave e dolce
canto. — Disse la fanciulla: — Io non so come poterlo avere; perciò che i
fratelli non vorranno andare a trovarlo, perché sono stati piú in pericolo di
morte che in speranza di vita. — I ti hanno pur recata l’acqua che balla, —
disse la vecchia; — non però sono morti. Sí come adunque ti hanno portata
l’acqua, cosí parimenti ti porteranno il pomo. — E tolta licenza, si partí. Non
era appena partita la comare, che Acquirino e Pluvio aggiunsero a casa; e
Serena li disse: — Io, fratelli miei, vorrei volentieri vedere e gustare quel
pomo che sí dolcemente canta. E se non fate sí che io l’abbia, pensate in breve
di vedermi di vita priva. — Il che intendendo, Fluvio ed Acquirino molto la
ripresero, affermandole che per lei non volevano andare in pericolo di morte,
sí come per lo adietro fatto avevano. Ma pur tanti furono i dolci prieghi di
Serena, congiunti con quelle calde lagrime che dal cuore venivano, che
Acquirino e Fluvio si disposero al tutto di contentarla, che che avenire ne
dovesse.
Laonde montati a cavallo, si partirono; e tanto cavalcarono,
che giunsero ad una ostaria: ed entrativi dentro, addimandorono l’oste s’egli
per aventura saprebbe insignarli il luogo dove ora si trova il pomo che
dolcemente canta. Risposogli fu di sí: ma che andare non vi potevano, perciò
che il pomo era in un vago e dilettevole giardino in guardia ed in governo d’un
mortifero animale, il quale con le aperte ali, quanti al giardino s’avicinano,
tanti ne uccide. — Ma come dobbiam far noi, — dissero i giovani, — imperciò che
deliberato abbiamo di averlo al tutto? — Rispose l’oste: — Se voi farete ciò
che io vi dirò, arrete il pomo, né temerete la velenosa fiera, e men la morte.
Prendete adunque questa veste tutta di specchi coperta; e l’una di voi se la
ponga indosso, e cosí vestito entri nel giardino di cui trovarete l’uscio
aperto; e l’altro resti fuori del giardino, ed in modo alcuno non si lasci
vedere. Ed entrato ch’egli sará nel giardino, l’animale subito gli verrá al
l’incontro; e vedendosi sé stesso negli specchi, incontanenti in terra cadere;
ed andatosene all’albero del cantante pomo, quello umanamente prenderá, e senza
guardarsi a dietro fuori del giardino uscirá. — I giovani molti ringraziorono
l’oste; e partitisi, quanto gli disse l’oste, tanto operorono; ed avuto il
pomo, alla sorella lo portorono, essortandola che piú a sí pericolose imprese
strengere non li dovesse.
Passati dopo’alquanti giorni, il re vide i giovanetti; e
fattigli a sé chiamare, li disse: — Qual è stata la cagione, che secondo
l’ordine dato non siete venuti a desinare con esso noi? — A cui rispose Fluvio:
— Non per altra cagione, signore, ci siamo restati di venire, se non per le
diverse occupazioni che ci hanno intertenuti. — Disse il re: — Nel giorno
sequente vi aspettiamo; e fate sí che in maniera alcuna non ne mancate. — A cui
rispose Acquirino che, potendosi da certi suoi negozi sviluppare, molto
volontieri vi verrebbono. Ritornato al palazzo, il re disse alla madre che
ancor veduti aveva i giovanetti, e che li stavano fitti nel cuore, pensando
sempre a quelli che Chiaretta promessi gli aveva; e che non poteva con l’animo
riposare, fino a tanto che non venissero a desinare con esso lui. La madre del
re, udendo tai parole, si trovò in maggior travaglio che prima, dubitando forte
che scoperta non fusse. E cosí dogliosa ed affannata, mandò per la comare, e
dissele: — Io mi credevo, comare mia, che i fanciulli oggimai fussero spenti e
che di loro non si sentisse novella alcuna; ma ei vivono, e noi ci stiamo in
pericolo di morte. Provedete adunque ai casi nostri, altrimenti noi tutte
periremo. — Rispose la comare: — O Alta madama, state di buon animo e non vi
perturbate, perch’io farò sí che di me voi vi lodarete, e di loro novella
alcuna piú non sentirete. — E tutta indignata e di furor piena, si partí, e
andossene alla fanciulla; e datole il buon giorno, l’addimandò se ’l pomo che
canta avuto aveva. A cui rispose la fanciulla che sí. Allora l’astuta e sagace
comare disse: — Pensa, figliuola mia, di non aver cosa veruna, se non hai anche
una cosa vie piú bella e piú leggiadra che le due prime. — E che è cotesta
cosa, madre mia, cosí leggiadra e bella, che voi mi dite? — disse la giovane. A
cui la vecchia rispose: — L’ugel bel verde, figliuola mia; il quale dí e notte
ragiona, e dice cose maravigliose. Se tu lo avesti in tua balía, felice e beata
ti potresti chiamare. — E dette queste parole, si partí.
Non furono sí tosto i fratelli a casa venuti, che Serena gli
affrontò, e pregolli che una sol grazia non le negassino. Ed addimandatala che
grazia era quella che ella voleva, rispose: — L’ugel bel verde. — Fluvio, il
quale era stato al contrasto della velenosa fiera e che di tal pericolo si
ricordava, a pieno le ricusava di voler andare. Ma Acquirino, quantunque piú
volte ancora egli ricusato gli avesse, pur finalmente mosso dalla fraternevole
pietá e dalle abondevoli e calde lagrime che Serena spargeva, unitamente
deliberorono di contentarla; e montati a cavallo, piú giornate cavalcorono, e
finalmente giunsero ad un fiorito e verdeggiante prato: in mezzo del quale era
un’altissima e ben fronzuta arbore, circondata da varie figure marmoree che
vive parevano: ed ivi appresso scorreva un ruscelletto che tutto il prato
rigava. E sopra di questo albero l’ugel bel verde saltando di ramo in ramo si
trastullava, proferendo parole che non umane ma divine parevano. Smontati i
giovani de gli loro palafreni, e lasciatili a suo bel grado pascersi nel prato,
s’accostorono alle figure di marmo; le quali subito che i giovani toccorono,
statue di marmo ancora elli divennero.
A Serena, che molti mesi aveva con desiderio aspettati Fluvio
ed Acquirino, suoi diletti fratelli, parve di averli omai perduti, e non vi
esser piú speranza di rivedergli. Onde stando ella in tale ramaricamento, e
l’infelice morte de’ fratelli piangendo, determinò tra sé stessa di provare sua
ventura; ed ascesa sopra un gagliardo cavallo, in viaggio si pose: e tanto
cavalcò, che aggiunse al luogo dove l’ugel bel verde sopra un ramo d’un
fronzuto albero dolcemente parlando dimorava. Ed entrata nel verde piato,
subito conobbe i palafreni delli fratelli che di erbuzze si pascevano; e
girando gli occhi or quinci or quindi, vide li fratelli conversi in due statue
che la loro effigie tenevano: di che tutta stupefatta rimase. E scesa giú del
cavallo ed avicinatasi a l’albero, stese la mano, ed a l’ugel bel verde puose
le mani adosso. Il quale, poi che di libertá privo si vide, di grazia le
dimandò che lo lasciasse andare e non tenerlo, che a tempo e luogo di lei si
ricordarebbe. A cui Serena rispose non volerle in modo alcuno compiacere, se
prima gli suoi fratelli al suo primo esser restituiti non erano. Allora disse
lo ugello: — Guatami sotto l’ala sinistra, e troverai una penna assai piú
dell’altre verde, con certi segni gialli per dentro; prendila, e vattene alle
statue, e con la penna toccavi gli occhi, che tantosto che tocchi gli arrai,
nel primo stato ch’erano i fratelli ritorneranno vivi. — La giovane, alzatagli
l’ala sinistra, trovò la penna come l’uccello detto le aveva; e andatasene alle
figure di marmo, quelle ad una ad una con la penna toccò, e subito di statue
uomini divennero. Veduti adunque nella pristina forma i fratelli ritornati, con
somma allegrezza gli abbracciò e basciò. Avendo allora Serena avuto lo
desiderato intento suo, da capo l’ugel bel verde pregò la donna di grazia che
lo lasciasse in libertá, promettendole che se tal dono li concedeva, di
giovarle molto, se in alcun tempo si trovasse aver bisogno del suo soccorso.
Serena, non contenta di questo, rispose che mai lo liberarebbe, fino a tanto
che non truvassino, chi è il padre e la madre loro: e che tal carico dovesse
pazientemente sopportare. Era giá nasciuta una gran discordia tra loro per lo
avuto augello; ma dopo molti combattimenti, di commune consenso fu lasciato
appresso la donna; la quale con non picciola solecitudine lo custodiva e caro
lo teneva. Avuto dunque l’ugel bel verde, Serena e i fratelli montorono a
cavallo ed a casa contenti si ritornorono.
Il re, che sovente passava davanti la casa de’ giovanetti, non
vedendogli, assai si maravigliava; ed addimandati gli vicini che era avenuto di
loro, gli fu risposo che non sapevano cosa alcuna, e che era molto tempo che
non erano sta’ veduti. Ora essendo ritornati, non passorono duo giorni che
furono veduti dal re; il quale gli addimandò che era stato di loro, che sí
lungo tempo non si avevano lasciati vedere. A cui rispose Acquirino che alcuni
strani accidenti che gli erano occorsi, erano stati la cagione: e se non erano
andati da sua Maestá, sí come ella voleva ed era il desiderio suo, le
chiedevano perdono, e volevano emendare ogni suo fallo. Il re, sentito il loro
infortunio ed avutane compassione grande, non si partí di lá che tutta tre gli
volse al palagio a desinare seco. Acquirino, tolta celatamente l’acqua che
balla, Pluvio il pomo che canta, e Serena l’ugel bel verde, con il re
lietamente entrorono nel palagio, e si puosero sedere a mensa. La maligna madre
e le invidiose sorelle, vedendo sí bella figliuola e sívenuto leggiadri e
politi giovanetti, i cui begli occhi risplendevano come vaghe stelle, ebbero
sospetto grande, e passione non picciola sentirono nel cuore.
Acquirino, fornito il desinare, disse al re: — Noi vogliamo,
innanzi che si leva la mensa, far vedere a vostra Maestá cose che le piaceranno
molto; — e presa una tazza d’argento, e postavi dentro l’acqua che balla, sopra
la mensa la pose. Fluvio, suo fratello, messa la mano in seno, estrasse il pomo
che canta, ed appresso l’acqua lo mise. Serena, che in grembo teneva l’ugel bel
verde, non fu tarda a ponerlo sopra la mensa. Quivi il pomo cominciò un
soavissimo canto; e l’acqua al suono del canto cominciò maravigliosamente
ballare. Di che il re ed i circostanti ne sentivano tanto piacere, che dalle
risa non si potevano astenere. Ma affanno e sospizione non picciola crebbe
allora alla nequitosa madre ed alle sorelle, perciò che dubitavano forte della
vita sua. Finito il canto ed il ballo, l’ugel bel verde cominciò parlare, e
disse: — O sacro re, che meritarebbe colui che di duo fratelli ed una sorella
la morte procurata avesse? — A cui l’astuta madre del re primamente rispose: —
Non altro che il fuoco; — e parimente tutte le altre cosí risposero. Ed allora
l’acqua che balla ed il pomo che canta alzorono la voce, dicendo: — Ahi falsa
madre di nequizia piena, te stessa la tua lingua condanna! e voi malvage ed
invidiose sorelle con la comare a tal suplicio insieme dannate sarete. — Il che
udendo, ’l re rimase tutto suspeso. Ma l’ugel bel verde, seguendo il suo
parlare, disse: — Sacra Corona, questi sono i tre tuoi figliuoli che sommamente
hai desiderati! Questi sono i tuoi figliuoli che nella fronte la stella
portano! E la loro innocentissima madre è quella che sino a quest’ora è stata
ed è sotto la fetente scaffa. — E fatta trarre la infelice reina del puzzolente
luogo, orrevolmente la fece vestire; e vestita che fu, venne alla presenza del
re: la quale, quantunque lungo tempo fusse stata prigione e mal trattata,
nondimeno fu preservata nella primiera bellezza; ed in presenza di tutti lo
ugel bel verde raccontò il caso dal principio sino alla fine, come era
processo. Ed allora conoscendo il re il successo della cosa, con molte lagrime
e singulti strettamente abbracciò la moglie ed i cari figliuoli. E l’acqua che
balla, il pomo che canta e l’ugel bel verde, lasciati in abbandono, in un punto
insieme disparvero. E venuto il giorno seguente, il re comandò che in mezzo
della piazza fusse un grandissimo fuoco acceso; indi ordinò che la madre e le
due sorelle e la comare in presenza di tutto il popolo fussero senza
compassione alcuna abbruggiate. Ed il re poi con la cara moglie e con gli
amorevoli figliuoli lungo tempo visse; e maritata la figliuola onorevolmente,
lasciò li figliuoli del regno unichi eredi. —
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