— Festevoli e graziose donne, ho
inteso per fama ed anche veduto per isperienza, un ben servire altrui,
quantunque non si riconosca la persona a cui si serve, il piú delle volte
ridondare in grandissimo beneficio di colui che fidelmente ha servito. Il che
avenne al figliuolo d’un re; il quale avendo liberato un salvatico uomo dalla
dura e stretta prigione del padre, egli piú volte da violente morte fu campato
da lui: sí come per la presente favola, che raccontarvi intendo, agevolmente
intenderete: essortandovi amorevolmente tutte che nel servire non vogliate
esser ritrose, perciò che, se da colui che ha ricevuto il servigio guidardonate
non sarete, almeno Iddio, rimuneratore del tutto, non lasciará le fatiche
vostre irremunerate, anzi parteciperá con esso voi la sua divina grazia.
Cicilia, donne mie care, sí come a ciascheduna di voi puol
esser chiaro, è una isola perfetta ed ubertosa, e per antichitá tutte le altre
avanza; ed in essa sono molte cittá e castella, che molto piú di quello che
ella sarebbe, l’abbelliscono. Di questa isola, ne’ passati tempi era signore re
Filippo Maria, uomo saggio, amorevole e singolare; ed aveva per moglie una
donna molto gentile, graziosa e bella, e di lei ebbe un solo figliuolo,
Guerrino per nome chiamato. Il re d’andare alla caccia vie piú che ogni altro
signore si dilettava, perciò che era robusto e forte, e tal essercizio molto li
conveniva. Ora avenne che, ritrovandosi in caccia con diversi suoi baroni e
cacciatori, vide uscire fuori del folto bosco un uomo salvatico assai grande e
grosso, e sí difforme e brutto, che a tutti grandissima ammirazione rendeva, e
di corporali forze ad alcuno non era inferiore. E messosi in ordine il re con
duo suoi baroni e dei migliori che ci avesse, animosamente l’affrontò, e dopo
lungo combattimento, valorosamente lo vinse: e preso de sue mani e legato, al
palazzo lo condusse; e trovata stanza a lui convenevole e sicura, dentro lo
mise, e ben chiuso con fortissime chiavi, ordinò che ben custodito e atteso
fusse. E perché il re lo aveva sommamente caro, volse che le chiavi rimanessino
in custodia della reina; né era giorno che il re per suo trastullo non
l’andasse a vedere alla prigione. Non passorono molti giorni, che il re da capo
si mise in punto per andare alla caccia; ed apparecchiate quelle cose che in
tal facenda fanno bisogno, con la nobile compagnia si partí: raccomandate però
prima le chiavi della prigione alla reina.
Mentre che il re era alla caccia, venne gran voglia a
Guerrino, che giovanetto era, di vedere l’uomo salvatico; ed andatosene solo
con l’arco, di cui molto si dilettava, e con una saetta in mano alla ferriata
della prigione dove abitava il mostro, lo vide, e con esso lui incominciò
domesticamente ragionare. E cosí ragionando, l’uomo salvatico, che
l’accarezzava e losingava, destramente la saetta, che riccamente era lavorata,
di mano li tolse. Onde il fanciullo cominciò dirottamente a piangere, né si
poteva dalle lagrime astenere, chiedendogli che li dovesse dare la sua saetta.
Ma l’uomo salvatico disse:
— Se tu mi vuoi aprire e liberarmi di questa prigione, io ti
restituirò il tuo strale; altrimenti, non te lo renderò mai. — A cui disse il
fanciullo: — Deh, come vuoi tu ch’io t’apri e liberi, se io non ho il modo di
liberarti? — Allora disse il salvatico uomo: — Quando ti fusse in piacere di
sciogliermi e liberarmi di questo angusto luogo, io bene t’insegnarei il modo
che tosto liberare mi potresti. — Ma come? — rispose Guerrino; — dammi il modo.
— A cui disse il salvatico uomo; — Va dalla reina tua madre; e quando
addormentata la vederai nel meriggio, destramente guata sotto il guanciale
sopra il quale ella riposa, e chetamente, che ella non ti senta, furale le
chiavi della prigione, e recale qui, ed aprimi: che, aperto che tu mi averai,
subito ti restituirò il tuo strale. E di questo servizio a qualche tempo forse
ti potrò remeritare. — Guerrino, bramoso di avere lo suo dorato strale, piú
oltre, come fanciullo, non si pensò: ma senza indugio alcuno corse alla madre;
e trovatala che dolcemente riposava, pianamente le tolse le chiavi, e con
quelle se ne ritornò al salvatico uomo; e dissegli: — Ecco le chiavi. Se io
quinci ti scioglio, va tanto lontano, che di te piú odor alcuno non si senta;
perciò che se il padre mio, ch’è gran maestro di cacce, ti ritrovasse e
prendesse, agevolmente uccider ti farebbe. — Non dubitar, figliuolo mio, —
disse il salvatico uomo, — che tantosto ch’aperto avrai la prigione, che
disciolto mi veggia, io ti darò la tua saetta, e io me ne andrò sí lontano, che
mai piú né da tuo padre, né d’altrui sarò accolto. — Guerrino, che aveva le
forze virili, tanto s’affaticò, che finalmente aperse la prigione; e l’uomo
salvatico, resoli la saetta e ringraziatolo molto, si partí.
Era l’uomo salvatico uno bellissimo giovane, il quale, per disperazione
di non poter acquistare l’amore di colei che cotanto amava, lasciati gli
amorosi pensieri e gli urbani solazzi, si era posto tra le boscarecce belve,
abitando l’ombrose selve ed i folti boschi, mangiando l’erbe e bevendo l’acqua
a guisa di bestia. Laonde il miserello aveva fatto il pelo grossissimo e la
cotica durissima e la barba folta e molto lunga; e per li cibi d’erba la barba,
il pelo ed i capelli erano sí verdi divenuti, che era cosa mostruosa a vederlo.
Destata la reina e messa la mano sotto il guanciale per
prender le chiavi che sempre a lato teneva, e non trovandole, molto si
maravigliò; e ravogliendo il letto sotto sopra, e nulla trovando, come pazza
alla prigione se n’andò, e trovandola aperta e non vedendo l’uomo salvatico, da
dolore si sentiva morire; e scorseggiando per lo palazzo or quinci or quindi,
addimandava or a questo or a quello chi era stato quel sí temerario ed
arrogante, che gli aveva bastato l’animo di togliere le chiavi della prigione
senza sua saputa. A cui nulla sapere tutti rispondevano. E incontratosi
Guerrino nella madre, e vedendola tutta di furore accesa, disse: — Madre mia,
non incolpate veruno dell’aperta prigione, perciò che, s’alcuno merita
punizione alcuna, io sono quello che debbo patire, perché io sono stato
l’apertore. — La reina, ciò udendo, molto maggiormente se ne dolse, temendo che
’l re, venendo dalla caccia, il figliuolo per sdegno non uccidesse; perciò che
le chiavi a lei quanto la persona propria raccomandate aveva. Laonde la reina,
credendo schifare uno picciolo errore, in un altro assai maggiore incorse;
perciò che, senza metter indugio alcuno, chiamò duo suoi fidelissimi serventi
ed il figliuolo; e dategli infinite gioie, e danari assai, e cavalli
bellissimi, il mandò alla buona ventura, pregando cordialissimamente li
serventi che il suo figliuolo raccomandato gli fusse.
Appena che ’l figliuolo era dalla madre partito, che il re
dalla caccia al palazzo aggiunse; e sceso giú del cavallo, subito se n’andò
alla prigione per vedere l’uomo salvatico: e trovatala aperta, e veduto che
egli era fuggito, s’accese di tanto furore, che nell’animo suo al tutto propose
di uccidere colui che di cotal errore era stato cagione. E andatosene alla
reina che in camera mesta si stava, l’addimandò chi era stato colui sí
sfacciato, sí arrogante e sí temerario, che gli abbia bastato il cuore d’aprir
la prigione e dar causa che l’uomo salvatico fuggisse. La reina con tremante e
debole voce rispose: — Non vi turbate, o re, che Guerrino, com’egli confessato
mi ha, di ciò n’è stato cagione; — e gli raccontò tanto quanto per Guerrino
narrato le fu. Il che il re intendendo, molto si risentí. Poscia la reina
soggiunse che per timore ch’egli non uccidesse il figliuolo, in lontane parti
mandato l’aveva e che era accompagnato da duo fedelissimi serventi carichi di
gioie e di danari assai per le loro bisogna. Al re, intendendo questo, doglia
sopra doglia crebbe, e nulla quasi mancò che non cadesse in terra e non venisse
pazzo; e se non fussero stati i corteggiani che lo ritennero, agevolmente alla
dolorata moglie in quel punto la morte data arrebbe. Ritornato il povero re
alquanto in sé, e posto giú ogni sfrenato furore, disse alla reina: — O donna,
che pensiero è stato il vostro in mandare in luoghi non conosciuti il commune
figliuolo? Credevate voi forse che io facessi piú conto d’uno uomo salvatico,
che delle proprie carni? — E senz’altra risposta aspettare, comandò che molti
soldati subito montassero a cavallo, ed in quattro parti si dividessero, e con
ogni diligenza cercassero si trovare lo potevano. Ma invano si affaticorono;
perciò che Guerrino con gli serventi andavasi nascoso, né d’alcuno si lasciava
conoscere.
Cavalcando adunque il buon Guerrino con gli serventi suoi, e
passando valli, monti e fiumi, e dimorando ora in un luogo ed ora in uno altro,
pervenne all’etá di sedeci anni; e tanto era bello, che pareva una matutina
rosa. Non stette guari, che venne un diabolico pensiero agli serventi di
uccidere Guerrino, e prendere le gioie ed i danari e tra loro dividerli. Ma il
pensiero gli andò buso, perciò che per divino giudizio non si potero mai
convenir insieme. Avenne che per sua buona sorte passò allora un vago e
leggiadro giovanetto, che era sopra d’un superbo cavallo e pomposamente ornato;
ed inchinato il capo, diede un bel saluto a Guerrino, dicendo: — O gentil
cavaliere, quando non vi fosse a noia, io mi accompagnerei volontieri con voi.
— A cui Guerrino rispose: — La gentilezza vostra non permette che io ricusi sí
fatta compagnia: anzi io vi ringrazio, e vi chieggo di grazia speziale che voi
vi dignate di venire con esso noi. Noi siamo forastieri, né sappiamo le strade,
e voi per cortesia vostra ne le insegnarete: e cosí cavalcando, ragionaremo
insieme alcuno nostro accidente occorso, ed il viaggio ci sará men noioso. —
Questo giovanetto era il salvatico uomo che fu da Guerrino della prigione di re
Filippo Maria sciolto. Costui, per vari paesi e luochi strani errando, fu per
aventura veduto da una bellissima fata, ma inferma alquanto; la quale, avendolo
sí difforme e brutto considerato, rise della sua bruttura sí neramente, che una
postema vicina al cuore se le ruppe, che agevolmente affocata l’arebbe. Ed in
quel punto da tal infirmitá, non altrimenti che se per l’adietro male avuto non
avesse, libera e salva rimase. Laonde la bella fata, in ricompensamento di
tanto beneficio ricevuto, non volendo parer ingrata, disse: — Oh uomo ora sí
difforme e sozzo, e della mia desiderata sanitá cagione, va, e per me sii fatto
il piú bello, il piú gentile, il piú savio e grazioso giovane che trovar si
possa; e di tutta quella autoritá e potere che mi è dalla natura concesso, io
ti fo partecipe, potendo tu fare e disfare ogni cosa ad ogni tuo piacere. — Ed
appresentatogli un superbo e fatato cavallo, lo licenziò che dovesse andare
ovunque a grado li paresse.
Cavalcando adunque Guerrino co ’l giovanetto e non
conoscendolo, ancor che egli conoscesse lui, finalmente pervenne ad una
fortissima cittá, Irlanda chiamata; la quale a quei tempi Zifroi re
signoreggiava. Questo re Zifroi aveva due figliuole vaghe di aspetto e gentili
di costumi, e di bellezza Venere avanzavano: l’una de’ quai Potenziana, l’altra
Eleuteria si chiamava; ed erano sí amate dal re, che per l’altrui occhi non
vedeva se non pe’ loro. Pervenuto adunque Guerrino alla cittá d’Irlanda col
giovane isconosciuto e con gli serventi, prese l’alloggiamento di un oste, il
piú faceto uomo che in Irlanda si trovasse; e da lui tutti furono onorevolmente
trattati. Venuto il giorno sequente, il giovanetto isconosciuto finse di voler
partire e andarsene in altre parti; e prese commiato da Guerrino,
ringraziandolo molto della buona compagnia avuta da lui. Ma Guerrino, che
oramai gli aveva preso amore, in maniera alcuna non voleva che si partisse; e
tanto l’accarezzò, che di rimanere seco acconsentí.
Trovavansi nel territorio irlandese duo feroci e paventosi
animali: de’ quai l’uno era un cavallo salvatico e l’altro una cavalla
similmente salvatica; ed erano di tanta ferocitá e coraggio, che non pur le
coltivate campagne affatto guastavano e dissipavano, ma parimenti tutti gli
animali e le umane creature miseramente uccidevano. Ed era quel paese per la
loro ferocitá a tal condizione divenuto, che non si trovava uomo che ivi abitar
volesse: anzi i propi paesani abbandonavano i loro poderi e le loro care abitazioni,
e se ne andavano in alieni paesi. E non vi era uomo alcuno sí potente e
robusto, che raffrontarli non che ucciderli ardisse. Laonde il re, vedendo il
paese tutto nudo sí di vittovaria come di bestie e di creature umane, né
sapendo a tal cosa trovar rimedio alcuno, si ramaricava molto, biastemando
tuttavia la sua dura e malvagia fortuna. I duo serventi di Guerrino, che per
strada non avevano potuto adempire il loro fiero proponimento per non potersi
convenire insieme e per la venuta dell’incognito giovanetto, s’imaginorono di
far morire Guerrino, e rimaner signori delle gioie e danari; e dissero tra
loro: — Vogliamo noi vedere si potiamo in guisa alcuna dare la morte al nostro
patrone? — E non trovando modo né via che gli sodisfacesse, perciò che stavano
in pericolo della vita loro se l’uccidevano, s’imaginorono di ragionar
secretamente con l’oste, e raccontargli come Guerrino suo patrone è uomo prode
e valente, e piú volte con esso loro si aveva vantato di poter uccidere quel
cavallo salvatico senza danno di alcuno. — E questa cosa agevolmente potrá
venire alle orecchie del re: quale, bramoso della morte degli duo animali e
della salute di tutto il suo territorio, fará venire a sé Guerrino, e vorrá
intendere il modo che si ha a tenere; ed egli non sapendo che fare né che dire,
facilmente lo fará morire, e noi delle gioie e danari saremo possessori. — E sí
come deliberato avevano, cosí fecero. L’oste, inteso questo, fu il piú allegro
ed il piú contento uomo che mai la natura creasse; e senza mettere intervallo
di tempo, corse al palazzo; e fatta la debita riverenza con le ginocchia in
terra, secretamente gli disse: — Sacra Corona, sappiate che nel mio ostello ora
si trova un vago ed errante cavaliere, il quale per nome Guerrino si chiama; e
confavolando io con gli serventi suoi di molte cose, mi dissero, tra le altre,
come il loro patrone era uomo famoso in prodezza e valente con le arme in mano,
e che a’ giorni nostri non si trovava un altro che fusse pare a lui, e piú e
piú volte si aveva vantato di essere sí potente e forte, che atterrarebbe il
cavallo salvatico che nel territorio vostro è di tanto danno cagione. — Il che
intendendo, Zifroi re immantinente comandò che a sé lo facesse venire. L’oste,
ubidientissimo al suo signore, ritornò al suo ostello e disse a Guerrino che
solo al re dovesse andare, perciò che egli seco desiderava parlare.
Guerrino, questo intendendo, alla presenza del re si
appresentò; e fattagli la convenevole riverenza, gli addimandò qual era la
causa che egli dimandato lo aveva. A cui Zifroi re disse: — Guerrino, la
cagione che mi ha costretto farti qui venire, è che io ho inteso che sei
valoroso cavaliere, né hai un altro pare al mondo, e piú volte hai detto la tua
fortezza esser tale, che senza offensione tua e di altrui domaresti il cavallo
che cosí miserabilmente distrugge e dissipa il regno mio. Se ti dá il cuore di
prendere tal gloriosa impresa qual’è questa, e vincerlo, io ti prometto sopra
questa testa di farti un dono, che per tutto il tempo della vita tua rimarrai
contento. — Guerrino, intesa l’alta proposta del re, molto si maravigliò:
negando tuttavia aver mai dette cotali parole che gli erano imposte. Il re
della risposta di Guerrino molto si turbò; e adirato alquanto, disse: — Voglio,
Guerrino, che al tutto prendi questa impresa; e se tu sarai contrario al voler
mio, pensa di rimaner privo di vita. —
Partitosi Guerrino dal re e ritornato all’ostello, molto
addolorato si stava, né ardiva la passione del cuor suo scoprire. Onde il
giovane isconosciuto, vedendolo contra il consueto suo sí malinconoso stare,
dolcemente gli addimandò, qual era la cagione che sí mesto ed addolorato il
vedeva. Ed egli, per lo fratellevole amore che gli portava non potendogli
negare l’onesta e giusta dimanda, li raccontò ordinatamente ciò che gli era
avenuto. Il che intendendo, l’incognito giovane disse: — Sta di buon animo né
dubitar punto, perciò che io t’insegnarò tal strada, che tu non perirai: anzi
tu sarai vincitore, ed il re conseguirá il desiderio suo. Ritorna adunque al
re, e dilli che tu vuoi che ’l ti dia un valente maestro che ferra cavalli; ed
ordinagli quattro ferri da cavallo, i quali siano grossi, e d’ogni intorno
maggiori degli ferri comuni duo gran dita, e ben crestati, e che abbino duo
ramponi lunghi un gran dito da dietro, acuti e pungenti. Ed avuti, li farai
mettere ai piedi del mio cavallo, che è fatato; e non dubitare di cosa alcuna.
—
Ritornato Guerrino al re, gli disse ciò che il giovane gli
aveva imposto. Il re, fatto venire un ottimo maestro da cavalli, gli ordinò che
tanto facesse quanto da Guerrino gli fia comandato. Andatosi il maestro alla
sua stanza, Guerrino seco se n’andò, e gli ordinò nel modo antedetto i quattro
ferri da cavallo. Il che intendendo, il maestro non gli volse fare, ma,
sprezzatolo, trattollo da pazzo, perciò che gli pareva una cosa nuova e non piú
udita. Guerrino, vedendo che il maestro lo deleggiava e non gli voleva ubidire,
se ne andò al re, e lamentossi del maestro che servire non l’aveva voluto.
Laonde il re, fattolo chiamare, strettamente gli ordinò, con pena della
disgrazia sua, o che facesse ciò che gli era sta imposto, o che egli andasse a
far la impresa che Guerrino far doveva. Il maestro, vedendo che ’l comandamento
del re stringeva, fece i ferri e messegli al cavallo, secondo che gli era sta’
divisato. Ferrato adunque il cavallo e ben guarnito di ciò che fa mestieri,
disse il giovane a Guerrino: — Monta sopra questo mio cavallo, e vattene in
pace; e quando udirai il nitrire del salvatico cavallo, scendi giú del tuo, e
traeli la sella e la briglia, e lascialo in libertá: e tu sopra d’un eminente
albero ascenderai, aspettando di quella impresa il fine. — Guerrino, ben
ammaestrato dal suo diletto compagno di ciò che far doveva, tolta licenza,
lietamente si partí.
Era giá sparsa per tutta la cittá d’Irlanda la gloriosa fama
che un leggiadro e vago giovanetto aveva tolta l’impresa di prendere il
salvatico cavallo e appresentarlo al re. Il perché uomini e donne correvano
alle finestre per vederlo passare: e vedendolo sí bello, sí giovanetto e sí riguardevole,
si movevano a pietá, e dicevano: — Oh poverello, come volontariamente alla
morte corre! certo gli è un grave peccato che costui sí miseramente muoia; — e
per compassione dalle lagrime non si potevano contenere. Ma Guerrino, intrepido
e virile, allegramente se n’andava; e giunto al luogo dove il salvatico cavallo
dimorava, e sentitolo nitrire, scese giú del suo; e spogliatolo di sella e di
briglia, e lasciatolo in libertá, salí sopra d’una forte querce, ed aspettò
l’aspra e sanguinolente battaglia. Appena che Guerrino era asceso sopra
l’albero, che giunse il salvatico cavallo, ed affrontò lo fatato destriere: ed
ambedue cominciarono il piú crudo duello che mai fusse veduto al mondo.
Impercioché parevano duo scatenati leoni, e per la bocca gettavano la schiuma a
guisa di setosi cinghiali da rabiosi cani cacciati; e dopo che ebbero
valorosamente combattuto, finalmente il fatato destriere tirò un paio di calci
al salvatico cavallo, e giunselo in una mascella, e quella dal luogo gli mosse.
Il perché perdé la scrima di poter piú guerreggiare né piú difendersi. Il che
vedendo, Guerrino tutto allegro rimase; e sceso giú della querce, prese un
capestro che seco recato aveva, e legollo, ed alla cittá cosí smascellato il
condusse, e con grandissima allegrezza di tutto il popolo, sí come promesso
aveva, al re lo presentò.
Il re con tutta la cittá fece gran festa e trionfo. Ma a’ duo
serventi crebbe doglia maggiore, perciò che non era adempito il malvagio
proponimento suo. Laonde d’ira e di sdegno accesi, da capo fecero intendere a
Zifroi re come Guerrino con agevolezza ucciderebbe anche la cavalla, quando gli
fusse a grado. Il che inteso dal re, egli fece quello istesso che del cavallo
fatto aveva. E perciò che Guerrino ricusava di far tale impresa, che veramente
pesava, il re minacciò di farlo suspendere con un piede in su, come rubello
della sua corona. E ritornato Guerrino all’ostello, raccontò il tutto al suo
compagno; il quale sorridendo disse: — Fratello, non ti paventare, ma va, e
trova il maestro da cavalli, ed ordinali quattro altri ferri altrettanto
maggiori de’ primi, che siano ben ramponati e pungenti e farai quel medesimo
che del cavallo fatto hai, e con maggior onore del primo adietro tornerai. —
Ordinati adunque i pungenti ferri, e ferrato il forte fatato destriere,
all’onorata impresa se ne gí. Giunto che fu Guerrino al luogo dove era la
cavalla, e sentitala nitrire, fece tanto quanto per l’adietro fatto aveva; e
lasciato il fatato cavallo in libertá, la cavalla se gli fe’ all’incontro, e lo
salí d’un terribile e paventoso morso: e fu di tal maniera, che il fatato
cavallo appena si potè difendere. Ma pur sí vigorosamente si portò, che la
cavalla finalmente da un calcio percossa, della gamba destra zoppa rimase. E
Guerrino, disceso dell’alta arbore, presela e strettamente legolla; ed asceso
sopra il suo cavallo, al palazzo con trionfo e con allegrezza di tutto il
popolo se ne tornò, ed al re l’appresentò. E tutti per maraviglia correvano a
vedere la cavalla attratta, la quale per la doglia grave la vita sua finí. E
cosí tutto il paese da tal seccagine libero ed ispedito rimase.
Era giá Guerrino ritornato all’ostello, e per stanchezza erasi
posto a riposare; e non potendo dormire per lo strepito inordinato che sentiva,
levò su da posare, e sentí un non so che di strano, che in un vaso di melle
batteva ed uscire di quello non poteva. Laonde, aperto da Guerrino il vaso,
vide un gallavrone che l’ali batteva e levarsi non poteva: onde egli, mosso a
pietá, prese quell’animaletto, ed in libertá lo lasciò.
Zifroi re, non avendo ancora guidardonato Guerrino del doppio
avuto trionfo, e parendogli gran villania se no ’l guidardonava, il mandò a
chiamare; ed appresentatosi, gli disse: — Guerrino, tu vedi come per opera tua
il mio regno è liberato; e però per tanto beneficio ricevuto rimunerarti
intendo. E non trovando dono né beneficio che a tanto merito convenevole sia,
ho determinato di darti una delle figliuole mie in moglie. Ma sappi che io ne
ho due: delle quali l’una Potenziana si chiama, ed ha i capelli con artificio
leggiadro involti e come l’oro risplendono; l’altra Eleuteria si addimanda, ed
ha le chiome che a guisa de finissimo argento rilucono. Laonde, se tu
indovinerai qual di loro sia quella dalle trezze d’oro, in moglie l’averai con
grandissima dote: altrimenti il capo dal busto ti farò spiccare. — Guerrino,
intesa la severa proposta di Zifroi re, molto si maravigliò; e voltatosi a lui,
disse: — Sacra Corona, è questo ’l guidardone delle mie sostenute fatiche? È
questo il premio de’ miei sudori? È questo il beneficio che mi rendete, avendo
io liberato il vostro regno, che oramai era del tutto disolato e guasto? Ahimè,
ch’io non meritava questo; né ad un tanto re come siete voi, tal cosa si
conveniva. Ma poscia che cosí vi piace, ed io sono nelle mani vostre, fate di
me quello che piú vi aggrada. — Or va, disse il re, — e non piú tardare; e
dotti termine per tutto dimane a risolverti di tal cosa. — Partitosi Guerrino
tutto rimancato, al suo caro compagno se ne gí, e raccontògli ciò che detto gli
aveva Zifroi re. Il compagno, di ciò facendo poca stima, disse: — Guerrino, sta
di buon animo né dubitare; perciò che io ti libererò del tutto. Ricordati che
nei giorni passati il gallavrone nel melle inviluppato liberasti, ed in libertá
lo lasciasti. Ed egli sará cagione della tua salute. Imperciò che dimane dopo
il desinare al palazzo se n’andrá, e tre volte attorno il volto di quella dai
capelli d’oro susurrando volerá, ed ella con la bianca mano lo scaccerá. E tu
avendo veduto tre fiate simil atto, conoscerai certo quella esser colei che tua
moglie fia. — Deh! — disse Guerrino al suo compagno — quando verrá quel tempo,
che io possi appagarti di tanti benefici per me da te ricevuti? Certo, se io
vivessi mille anni, non potrei d’una minima parte guidardonarti. Ma colui che è
rimuneratore del tutto, supplisca per me in quello che io sono manchevole. —
Allora rispose il compagno a Guerrino: — Guerrino, fratel mio, non fa bisogno
che tu mi rendi guidardone delle sostenute fatiche; ma ben è ormai tempo che io
me ti scopra, e che tu conosca chi io sono. E cosí come me dalla morte mi
campasti, cosí ancor io ho voluto di tanta obligazione il merito renderti.
Sappi che io sono l’uomo salvatico che sí amorevolmente dalla prigione del tuo
padre liberasti: e per nome chiamomi Rubinetto. — E raccontògli come la fata
nell’esser sí leggiadro e bello ridotto l’aveva. Guerrino, ciò intendendo,
tutto stupefatto rimase; e per tenerezza di cuore quasi piangendo, l’abbracciò
e basciò, e per fratello il ricevette. E perciò che omai s’avicinava il tempo
di risolversi con Zifroi re, amenduo al palazzo se n’andorono. Ed il re ordinò
che Potenziana ed Eleuteria, sue dilette figliuole, tutte velate di
bianchissimi veli, venessero alla presenza di Guerrino; e cosí fu fatto.
Venute adunque le figliuole, e non potendosi conoscere l’una
dall’altra, disse ’l re: — Qual di queste due vuoi tu, Guerrino, che io ti dia
per moglie? — Ma egli, stando sopra di sé tutto sospeso, nulla rispondeva. Il
re, curioso di vedere il fine, molto lo infestava, dicendogli che ’l tempo
fuggiva e che si risolvesse omai. Ma Guerrino rispose: — Sacratissimo re, se il
tempo fugge, il termine di tutt’oggi che mi avete dato, non è ancor passato. —
Il che esser il vero tutti parimente confirmarono. Stando in questa lunga
aspettazione il re, Guerrino e tutti gli altri, ecco sopragiunse il gallavrone:
il qual susurrando intorniò il chiaro viso di Potenziana dalle chiome d’oro. Ed
ella, come paventata, con le mani il ribatteva indietro; ed avendolo piú di tre
fiate ribattuto, finalmente si partí. Stando circa ciò Guerrino alquanto
dubbioso, fidandosi pur tuttavia delle parole di Rubinetto suo diletto
compagno, disse il re: — Orsú, Guerrino, che fai? omai gli è tempo che s’impona
fine, e che tu ti risolva. — Guerrino, ben guardata e ben considerata l’una e
l’altra poncella, puose la mano sopra il capo di Potenziana che il gallavrone
gli aveva mostrata; e disse: — Sacra Corona, questa è la figliuola vostra dalle
chiome d’oro. — E scopertasi la figliuola, fu chiaramente veduto ch’ella era quella;
ed in quel punto, presenti tutti e circostanti, e con molta sodisfazione di
tutto il popolo, Zifroi re glie la diede in moglie; ed indi non si partí, che
anche Rubinetto, suo fidato compagno, sposò l’altra sorella. Dopo’ Guerrino si
manifestò che egli era figliuolo di Filippo Maria re di Sicilia. Laonde Zifroi
sentí maggior allegrezza, e furono fatte le nozze vie piú pompose e grandi. E
fatto intendere tal matrimonio al padre ed alla madre di Guerrino, n’ebbero
grandissima allegrezza e contento, perciò che il loro figliuolo esser perduto
credevano; e ritornatosene in Sicilia con la cara moglie e con il diletto
fratello e cognata, fu dal padre e dalla madre graziosamente veduto ed
accarecciato; e lungo tempo visse in buona pace, lasciando dopo sé figliuoli
bellissimi e del regno eredi. —
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