— Sí potente, sí alto e sí acuto è l’intelletto dell’uomo, che
senza dubbio supera e avanza tutte l’umane forze del mondo. E però
meritatamente dicesi l’uomo savio signoreggiare le stelle. Laonde mi soviene
una favola, per la quale agevolmente intenderete come una povera fanciulletta,
dalla fortuna sovenuta, d’uno ricco e potente re moglie divenne. E quantunque
la favola breve sia, sará però, se non m’inganno, tanto piú piacevole e
ridicolosa. Prestatemi adunque l’orecchie vostre attente ad ascoltarmi, sí come
per lo adietro fatto avete a queste nostre onestissime compagne, le quali si
hanno piú tosto da sommamente lodare, che in niuna parte biasmar di voi.
In Boemia, piacevoli donne, non è gran tempo che si trovò una
vecchiarella, Bagolana Savonese per nome chiamata. Costei, essendo poverella ed
avendo due figliuole, l’una de quai Cassandra, l’altra Adamantina si
addimandava, volse di quella poca povertá, che ella si trovava avere, ordinare
i fatti suoi e contenta morire. E non avendo in casa né fuori cosa alcuna di
cui testare potesse, eccetto che una cassettina piena di stoppa, fece
testamento; e la cassettina con la stoppa lasciò alle figliuole, pregandole che
dopo la morte sua pacificamente insieme vivessero. Le due sorelle, quantunque
fussino povere de’ beni della fortuna, nondimeno erano ricche de’ beni dell’animo,
ed in vertú ed in costumi non erano inferiori all’altre donne. Morta adunque la
vecchiarella, e parimente sepolta, Cassandra, la qual era la sorella maggiore,
prese una libbra di quella stoppa, e con molta sollecitudine si puose a filare;
e filata che fu, diede il filo ad Adamantina sua sorella minore, imponendole
che lo portasse in piazza e lo vendesse, e del tratto di quello comprasse tanto
pane, acciò che ambedue potessero delle sue fatiche la loro vita sostentare.
Adamantina, tolto il filo e postolo sotto le braccia, se
n’andò in piazza per venderlo secondo il comandamento di Cassandra; ma venuta
la cagione e la opportunitá, fece il contrario di quello era il voler suo e
della sorella: perciò che s’abbattè in piazza in una vecchiarella che aveva in grembo
una poavola, la piú bella e la piú ben formata che mai per l’adietro veduta si
avesse. Laonde Adamantina, avendola veduta e considerata, di lei tanto se
n’invaghí, che piú di averla che di vendere il filo pensava. Considerando
adunque Adamantina sopra di ciò, e non sapendo che fare né che dire per averla,
pur deliberò di tentare sua fortuna, sí a baratto la potesse avere. Ed
accostatasi alla vecchia, disse: — Madre mia, quando vi fusse in piacere, io
baratterei volontieri con la poavola vostra il filo mio. — La vecchiarella,
vedendo la fanciulla bella, piacevole e tanto desiderosa della poavola, non
volse contradirle; ma preso il filo, la poavola le appresentò. Adamantina,
avuta la poavola, non si vide mai la piú contenta; e tutta lieta e gioconda a casa
se ne tornò. A cui la sorella Cassandra disse: — Hai tu venduto il filo? — Sí,
— rispose Adamantina. — E dov’è il pane che hai comperato? — disse Cassandra. A
cui Adamantina, aperto il grembiale di bucato che dinanzi teneva sempre,
dimostrò la poavola che barattata aveva. Cassandra, che di fame si sentiva
morire, veduta la poavola, di sí fatta ira e sdegno s’accese, che, presa
Adamantina per le trecce, le diede tante busse, che appena la meschina si
poteva movere. Adamantina, pazientemente ricevute le busse, senza far difesa
alcuna, meglio che seppe e puote con la sua poavola in una camera se n’andò.
Venuta la sera, Adamantina, come le fanciullette fanno, tolse
la poavola in braccio, ed andossene al fuoco; e preso dell’oglio della lucerna,
le unse lo stomaco e le rene: indi, rivoltata in certi stracci che ella aveva,
in letto la mise, ed indi a poco, andatasene a letto, appreso la poavola si
coricò. Né appena Adamantina aveva fatto il primo sonno, che la poavola
cominciò chiamare: — Mamma, mamma, caca! — E Adamantina destata, disse: — Che
hai, figliuola mia? — A cui rispose la poavola: — Io vorrei far caca, mamma
mia. — Ed Adamantina: — Aspetta, figliuola mia, — disse. E levatasi di letto,
prese il grembiale che ’l giorno dinanzi portava, e glielo pose sotto dicendo:
— Fa caca, figliuola; — e la poavola, tuttavia forte premendo, empí il
grembiale di gran quantitá di danari. Il che vedendo, Adamantina destò la
sorella Cassandra e le mostrò i danari che aveva cacati la poavola. Cassandra,
vedendo il gran numero de danari, stupefatta rimase, Iddio ringraziando che per
sua bontá nelle lor miserie abbandonate non le aveva; e voltatasi alla sorella,
le chiese perdono delle busse che da lei a gran torto ricevute aveva; e fece
molte carezze alla poavola, dolcemente basciandola e nelle braccia strettamente
tenendola. Venuto il chiaro giorno, le sorelle fornirono la casa di pane, di
vino, di oglio, di legna e di tutte quelle cose che appartengono ad una ben
accomodata famiglia. Ed ogni sera ungevano lo stomaco e le rene alla poavola,
ed in sottilissimi pannicelli la rivoglievano, e sovente se la voleva far caca
le dimandavano. Ed ella rispondeva, che sí; e molti danari cacava.
Avenne che una sua vicina, essendo andata in casa delle due
sorelle, ed avendo veduta la loro casa in ordine di ciò che le faceva mestieri,
molto si maravigliò; né si poteva persuadere che sí tosto fussero venute sí
ricche, essendo giá state sí poverissime, e tanto piú conoscendole di buona
vita e sí oneste del corpo loro, che opposizione alcuna non pativano. Laonde la
vicina, dimorando in tal pensiero, determinò di operare sí che la potesse
intendere dove procedesse la causa di cotanta grandezza. E andatasene alla casa
delle due sorelle, disse: — Figliuole mie, come avete fatto voi a fornire sí pienamente
la casa vostra, conciosiacosaché per lo adietro voi eravate sí poverelle? — A
cui Cassandra, che era la maggior sorella, rispose: — Una libra di filo di
stoppa con una poavola barattata abbiamo, la quale senza misura alcuni danari
ci rende. — Il che la vicina intendendo, nell’animo neramente si turbò; e tanta
invidia le crebbe, che di furargliela al tutto determinò. E ritornata a casa,
raccontò al marito come le due sorelle avevano una poavola che dí e notte le
dava molto oro ed argento, e che al tutto di involargliela determinato aveva. E
quantunque il marito si facesse beffe delle parole della moglie, pure ella
seppe tanto dire, ch’egli le credette. Ma dissele: — E come farai tu a
involargliela? — A cui la moglie rispose: — Tu fingerai una sera d’esser
ebbriaco, e prenderai la tua spada, e correrammi dietro per uccidermi
percotendo la spada nelle mura; ed io, fingendo d’aver di ciò paura, fuggirò su
la strada; ed elle, che sono compassionevoli molto, mi apriranno; ed io
chiuderommi dentro la loro casa, e resterò presso loro quella notte, ed io
opererò quanto che io potrò. — Venuta adunque la sequente sera, il marito della
buona femina prese la sua arrugginita spada, e percotendo quando in questo muro
quando in quell’altro, corse dietro alla moglie: la quale, piangendo e gridando
ad alta voce, fuggí fuor di casa. Il che udendo, le due sorelle corsero alle
finestre per intender quello che era avenuto, e cognobbero la voce della loro
vicina, la quale molto forte gridava; e le due sorelle, abbandonate le finestre,
scesero giú a l’uscio ed apertolo, la tirarono in casa. E la buona femina,
dimandata da loro per che cagione il marito cosí irato la seguiva, le rispose:
— Egli è venuto a casa sí imbalordito dal vino, che non sa ciò che si faccia; e
perché io lo riprendeva di queste sue ebbrezze, egli prese la spada e corsemi
dietro per uccidermi. Ma io, piú gagliarda di lui, ho voluto fuggire per minor
scandalo, e sonomi qui venuta. — Disse e l’una e l’altra sorella: — Voi, madre
mia, avete fatto bene; e starete questa notte con esse noi, acciò non
incorriate in alcun pericolo della vita: e in questo mezzo il marito vostro
padirá l’ebbrezza sua. — Ed apparecchiata la cena, cenarono insieme; e poscia
unsero la poavola, e se n’andarono a riposare.
Venuta l’ora che la poavola di cacare bisogno aveva, disse: —
Mamma, caca! — E Adamantina, secondo l’usanza, le poneva sotto il pannicello
mondo, e la poavola cacava danari con grandissima maraviglia di tutte. La buona
femina che era fuggita, il tutto vedeva, e molto suspesa restava; e parevale
un’ora mille anni di furarla e di poter operare tal effetto. Venuta l’aurora,
la buona femina, dormendo ancora le sorelle, chetamente si levò di letto; e
senza che Adamantina se ne avedesse, le furò la poavola che vi era appresso: e destatele,
tolse licenza di andar a casa, dicendole che la pensava che oramai il marito
poteva aver digesto il vino sconciamente bevuto. Andatasene a casa, la buona
donna disse lietamente al marito: — Marito mio, ora noi abbiamo trovato la
ventura nostra: vedi la poavola; — ed un’ora mille anni le pareva che venisse
notte per farsi ricca.
Sopragiunta la buia notte, la donna prese la poavola; e fatto
un buon fuogo, le unse lo stomaco e le rene: ed infasciata in bianchi
pannicelli, nel letto la pose, e spogliatasi ancora ella, appresso la poavola
si coricò. Fatto il primo sonno, la poavola si destò, e disse: — Madonna, caca!
— e non disse: — Mamma, caca; — perciò che non la conosceva; e la buona donna,
che vigilante stava aspettando il frutto che seguirne doveva, levatasi di letto
e preso un panno di lino bianchissimo, glie lo puose sotto, dicendo: — Caca,
figliuola mia, caca! — La poavola, fortemente premendo, invece di danari, empí
il panno di tanta puzzolente feccia, che appena se le poteva avicinare. Allora
disse il marito: — Vedi, o pazza che tu sei, come ella ti ha ben trattata; e
sciocco sono stato io a crederti tale pazzia. — Ma la moglie, contrastando col
marito, con giuramento affermava sé aver veduto con gli occhi propi gran somma
di danari per lei cacata. E volendo la moglie riservarsi alla notte seguente a
far nuova isperienza, il marito, che non poteva col naso sofferire il tanto
puzzore che egli sentiva, disse la maggior villania alla moglie che mai si
dicesse a rea femina del mondo; e presa la poavola, la gittò fuori della
finestra sopra alcune scopazze che erano a rimpetto della casa loro. Avenne che
le scopazze furono caricate da alcuni contadini lavoratori di terre sopra di un
carro; e senza che alcuno se n’avedesse, fu altresí messa la poavola sul carro:
e di quelle scopazze fatto fu alla campagna un lettamaro da ingrassare a suo
luogo e tempo il terreno.
Occorse che Drusiano re, andando un giorno per suo diporto
alla caccia, gli venne una grandissima volontá di scaricare il soperchio peso
del ventre; e smontato giú del cavallo, fece ciò che naturalmente gli
bisognava. E non avendo con che nettarsi, chiamò un servente che gli desse
alcuna cosa con la quale si potesse mondare. Il servente, andatosene al
lettamaro, e ricercando per dentro se poteva trovar cosa che al proposito
fusse, trovò per aventura la poavola; e presala in mano, la portò al re. Il
quale senz’alcun sospetto tolse la poavola; e postasela dietro alle natiche per
nettare messer lo perdoneme, trasse ’l maggior grido che mai si sentisse.
Imperciocché la poavola con i denti gli aveva presa una natica; e sí
strettamente la teneva, che gridare ad alta voce lo faceva. Sentito da’ suoi il
smisurato grido, subito tutti corsero al re; e vedutolo che in terra come morto
giaceva, tutti stupefatti restarono: e vedendolo tormentare dalla poavola, si
posero unitamente per levargliela dalle natiche; ma si affaticavano in vano, e
quanto piú si sforzavano di rimovergliela, tanto ella gli dava maggior passione
e tormento: né fu mai veruno che pur crollare la potesse, non che indi
ritrarla. Ed alle volte con le mani gli apprendeva i sonagli, e sí fatta
stretta gli dava, che gli faceva veder quante stelle erano in cielo a mezzo il
giorno. Ritornato l’affannato re al suo palazzo con la poavola alle natiche
taccata, e non trovando modo né via di poterla rimovere, fece fare un bando:
che s’alcuno, di qual condizione e grado essere si voglia, si trovasse, a cui
bastasse l’animo la poavola dalle natiche spiccargli, che gli darebbe il terzo
del suo regno; e se poncella fusse, qual si volesse, per sua cara e diletta
moglie l’apprenderebbe: promettendo sopra la sua testa di osservare tanto
quanto nel bando si conteneva. Intesosi adunque il bando, molti concorsero al
palazzo con viva speranza di ottenere lo constituto premio. Ma la grazia non fu
concessa ad alcuno che traere gli la potesse: anzi, come alcuno se gli
avicinava, ella gli dava piú noia e passione. Ed essendo il travagliato re sí
fieramente tormentato, né trovando rimedio alcuno al suo incomprensibile dolore,
quasi come morto giaceva.
Cassandra e Adamantina, che grandissime lagrime sparse avevano
per la loro perduta poavola, avendo inteso il publicato bando, vennero al
palazzo ed al re s’appresentorono. Cassandra, che era la sorella maggiore,
comenciò far festa alla poavola e li maggior vezzi che mai far si potesse. Ma
la poavola, stringendo i denti e chiudendo le mani, maggiormente tormentava il
sconsolato re. Adamantina, che alquanto stava discosta, si fece avanti; e
disse: — Sacra Maestá, lasciate che ancora io tenti la ventura mia; — ed
appresentatasi alla poavola, disse: — Deh, figliuola mia, lascia omai cheto il
mio signore, né gli dar piú tormento; — e presala per i pannicelli,
accarezzolla molto. La poavola, che conosciuta aveva la sua mamma, la quale era
solita a governarla e maneggiarla, subito dalle natiche si staccò; ed
abbandonato il re, saltolle nelle braccia. Il che vedendo, il re tutto attonito
e sbigottito rimase, e si puose a riposare, perciò che molte e molte notti e
giorni dalla passione grande che egli sentita e provata aveva, mai non aveva
potuto trovar riposo. Ristaurato Drusiano re dallo intenso dolore, e delle gran
morse risanato, per non mancare della promessa fede, fece venire a sé
Adamantina; e vedendola vaga e bella giovanetta, in presenza di tutto il popolo
la sposò: e parimenti Cassandra, sua sorella maggiore, onorevolmente maritò; e
fatte solenni e pompose feste e trionfi, tutti in allegrezza e tranquilla pace
lungo tempo vissero. La poavola, vedute le superbe nozze dell’una e l’altra
sorella, ed il tutto aver sortito salutifero fine, subito disparve. E che di
lei n’avenisse, mai non si seppe novella alcuna. Ma giudico io che si
disfantasse, come nelle fantasme sempre avenir suole. —
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