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Giovanni Francesco Straparola
Le piacevoli notti

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  • LIBRO SECONDO
    • NOTTE DECIMATERZA
      • FAVOLA XII. Guglielmo re di Bertagna, aggravato d'una infermitá, fa venir tutti i medici per riaver la salute e conservarsi sano. Maestro Gotfreddo medico, e povero, li dá tre documenti, e con quelli si regge, e sano rimane.
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FAVOLA XII.

Guglielmo re di Bertagna, aggravato d'una infermitá, fa venir tutti i medici

per riaver la salute e conservarsi sano. Maestro Gotfreddo medico,

e povero, li dá tre documenti, e con quelli si regge, e sano rimane.

[Isabella:]

— Bennati anzi divini si suoleno giudicar coloro che con effetti si guardano dalle cose contrarie e col giudicio naturale si accostano a quelle che di beneficio e giovamento li sono: ma rari per l'addietro s'hanno trovati e oggidí pochi si trovano, che una regola nel loro vivere vogliono osservare. Ma altramente avenne ad uno re, il quale per conservar la sanitá prese dal medico tre documenti e quelli osservando si resse.

Penso, anzi mi rendo certo, graziose donne, che mai non abbiate inteso il caso di Guglielmo re di Bertagna, il quale a' tempi suoi né in prodezza né in cortesia non ebbe il pare, e mentre ch'egli visse, sempre li fu la fortuna favorevole e propizia. Avenne che il re gravemente s'infermò: ma essendo assai giovane e di gran coraggio, nulla o poco estimava quel male. Or continovando l'infermitá e di giorno in giorno facendosi maggiore, divenne a tale, che quasi non piú vi era speranza di vita. Laonde il re ordinò che tutti i medici della cittá venissero alla sua presenzia e liberamente dicesseno il lor parere. Intesa la voluntá del re, tutti i medici, di qualunque grado e condizione esser si voglia, andorono al palazzo regale e dinanzi al re s'appresentarono. Tra questi medici vi era uno nominato maestro Gotfreddo, uomo di buona vita e di sofficiente dottrina, ma povero e mal vestito e peggio calzato. E perché egli era mal addobbato, non ardiva comparere tra tanti sapienti ed eccellentissimi uomini: ma per vergogna si puose dietro l'uscio della camera del re, che appena si puotea vedere, e ivi chetamente stava ad ascoltar quello che dicevano i prudentissimi medici. Appresentati adunque tutti i medici dinanzi al re, disse Guglielmo: — Eccellentissimi dottori, la causa del raunarvi insieme alla presenza mia, altro non è se non ch'io desidero intender da voi la causa di questa mia grave infermitá, pregandovi che con ogni diligenzia vogliate curarla e darmi quelli opportuni rimedi che si ricercano, restituendomi alla pristina sanitá. La qual restituita, mi darete quelli consegli che piú idonei vi pareranno a conservarla. — Risposero i medici: — Sacra Maestá, dar la sanitá non è in potestate nostra, ma nella mano di Colui che sol con un cenno il tutto regge. Ma ben si sforzeremo in quanto per noi si potrá, di farvi quelle provisioni che possibili seranno a riaver la sanitá e, riavuta, conservarla. — Indi cominciarono i medici a disputare dell'origine dell'infermitá del re e de' rimedi che s'hanno a dare; e ciascuno di loro, sí come è lor usanza, particolarmente referiva l'opinione sua, allegando Galeno, Ippocrate, Avicenna e gli altri suoi dottori. Il re, poscia che intese chiaramente la lor opinione, volgendo gli occhi verso l'uscio della sua camera, vidde un non so che di ombra che appareva, e addimandò se vi era alcuno che restasse a dir l'opinione sua. Fulli risposto che no. Il re, ch'aveva adocchiato uno, disse: — Parmi veder, se non son cieco, non so che dietro quella porta; e chi è egli? — A cui rispose uno di quei sapienti: — Est homo quidam; — quasi schernendolo e facendosene beffe di lui: e non considerava che spesse volte aviene che l'arte dall'arte è schernita. Il re fecegli intendere che venisse innanzi alla presenzia sua; ed egli, cosí mal vestito che un mendico pareva, fecesi innanzi, e tutto timoroso umilmente s'inchinò, dandogli un bel saluto. Il re, fattolo prima onorevolmente sedere, lo interrogò del nome suo. A cui rispose: — Gotfreddo è il mio nome, Sacra Maestá. — Allora disse il re: — Maestro Gotfreddo, voi dovete a bastanza aver inteso 'l caso mio per la disputazione c'hanno fatto fin'ora questi onorandi medici; però non fa bisogno altrimenti riassumere quello è stato detto. Che dite adunque voi di questa mia infermitá? — Rispose maestro Gotfreddo: — Sacra Maestá, quantunque tra questi onorandi padri il piú infimo e il men dotto e il men eloquente meritamente dir mi possa per esser povero e di poca estimazione, nondimeno per obedire a' precetti di Vostra Sublimitá mi sforzerò, in quanto per me si potrá, di dichiarirle l'origine del mal suo; indi darolle una norma e una regola che nell'avenire sano viver potrá. Sapiate, signor mio, che l'infermitá vostra non è a morte, perciò che non è causata da fondamento fermo ma da sforzato e non aveduto accidente, il quale, sí come tostamente venne, cosí ancor prestamente si risolverá. Io, acciò che riabbiate la pristina sanitá, non voglio altro da voi eccetto la dieta, prendendo un poco di fior di cassia per rinfrescar il sangue. Il che fatto, in otto giorni resterete sano. Riavuta la sanitá, se voi vorrete lungo tempo conservarvi sano, osservarete questi tre precetti. Il primo, che voi teniate il capo ben asciutto. Il secondo, ch'abbiate i piedi caldi. Il terzo, che 'l cibo vostro sia da bestia. Le quai cose se voi porrete in essecuzione, lungo tempo camparete, e sano e gagliardo viverete. — I medici, inteso il bell'ordine dato da Gotfreddo al re cerca la norma del suo viver, si misero in tanto riso, che quasi si smascellavano da ridere; e voltatisi verso il re, dissero: — Questi sono i canoni, queste sono le regole di maestro Gotfreddo, questi sono gli suoi studi! Oh che bei rimedi, oh che buone provisioni da esser fatte a un tanto re! — e in tal maniera lo schernivano. Il re, vedendo le tante risa che i medici facevano, comandò che ognuno tacesse e dal ridere oramai cessasse, e che maestro Gotfreddo rendesse la ragione di tutto quello che avea proposto. — Signor mio, — disse Gotfreddo, — questi miei onorandissimi padri, molto esperti nell'arte della medicina, si maravigliano non poco dell'ordine da me dato cerca il viver vostro: ma se considerasseno con saldo giudicio le cause per le quali vengono l'infermitá a gli uomini, forse non si riderebbeno, ma attenti starebbeno ad ascoltare colui, che forse, con sua pace il dico, è piú savio e piú perito di loro. Non prendete adunque maraviglia, Sacra Corona, della proposta mia; ma abbiate per certo tutte l'infermitá che vengono agli uomini, nascere o da riscaldamenti, o da freddo preso, o da superfluitá d'umori cattivi. Imperciò che quando l'uomo si trova per la stanchezza o per lo gran calore sudato, debbe immantinenti asciugarsi, acciò che quella umiditá che è uscita fuori del corpo, piú dentro non ritorni e generi l'infermitá. Poi, l'uomo dee tenere i piedi caldi, acciò l'umiditá e freddura che rende la terra, non ascenda allo stomaco e dallo stomaco al capo, e generi dolor di capo, mala disposizione di stomaco e altri innumerabili mali. Il viver da bestia, è che l'uomo diè mangiare cibi appropriati alla complessione sua, sí come fanno gli animali irrazionali, i quali si nudriscono di cibi convenevoli alla natura loro. E piglio l'esempio dal bove e dal cavallo, ai quali se noi appresentiamo un cappone, un fasciano, una pernice o la carne di un buon vitello o di altro animale, certo non vorranno mangiarne, perché non è cibo appropriato alla natura loro. Ma se li porrete dinanzi il fieno e la biada, per cibo convenevole a sé, subito lo gusteranno. Ma date il cappone, il fasciano e la carne al cane over al gatto, subito li divoreranno, perché è cibo appropriato a loro; ma per contrario lascieranno il fieno e la biada, perché non li conviene per esser contrario alla natura loro. Voi adunque, signor mio, lasciarete i cibi che alla natura vostra non si convengono, e abbracciarete quelli che alla complessione vostra sono convenevoli; e cosí facendo, viverete sano e lungamente. — Piacque molto al re il consiglio datoli da Gotfreddo, e prestandoli fede, a quello s'attenne; e data licenzia agli altri medici, lo ritenne appo di sé, avendolo in molta riverenza per le sue degne virtú, e di povero lo fece ricco, sí come egli meritava: e solo rimasto alla cura del signore, felicemente visse. —




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