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Lorenzo Magalotti Lettere odorose IntraText CT - Lettura del testo |
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LETTERA PRIMA
Orsù, s’obbedisca la signora Marchesa mia signora col mettersi a scrivere d’una cosa della quale non si ha tanto capitale da ‘discorrerne altrimenti che per svogliatura: Non le parrà già di strano se, non avendo ella avuto riguardo a sacrificare la mia riputazione più tosto alla delicatezza del suo odorato che alla curiosità del suo spirito, ancor, io non ho riguardo a sacrificare la tranquillità della sua ambizione al genio del mio risentimento. Questo, per una dama parrà un linguaggio nuovo, strano, inaudito. Egli è bene: ma io non sono più quello. Gli anni, le avventure, la lunga solitudine mi hanno fatto dimenticare non l’essenziale del rispetto, ma ben certe condescendenze di supererogazione, che formano il vero carattere di servitore di dame. Dico, del servitore applaudito: ché servitore puramente si può essere, ed io mi pregio d’esserlo al pari d’ogni altro, e superiormente a molti, anche senza nessuna di queste cose. Torno a dire con impertinenza d’Autore, giacché tale la signora Marchesa vuole che io sia a mio dispetto, che la mia obbedienza ha da costarle cara. Ella vuole che io scriva de’ Buccheri. Non è così? Bisognerà dunque che io scriva tutto quello che io so de’ Buccheri. Oh Dio, signora Marchesa, io non potrò farle la mia corte. Non le par egli che, dovendo io trattare magistralmente de’ Buccheri, volesse la buona creanza, non che la gentilezza e la galanteria, che io m’introducessi col fare un gran complimento co’ suoi? Certo, secondo tutte le buone regole, io non solamente dovrei fare in questo luogo un’onorata menzione di quella famosa raccolta, simile alla quale io non ho veduto in tutta l’Europa non barbara, ma, pigliando infino adesso le mie misure per fare stampare quest’Opera massima, dovrei intanto pensare al frontespizio. E questo, secondo me non dovrebbe essere altro che una veduta del suo gabinetto con la prospettiva di tutti quei beati scarabattoli, che, di sotto i loro immensi cristalli, espongono alla pubblica venerazione quel superbo, prezioso, venerabile americano vasellamento, che, quasi fosse poco l’aver messo in terra le murrine, le porcellane e i cristalli, ha per infino fatto ammutolire i pagodi, che, dopo la famosa imbasciata di Siam, saliti e mantenuti in prezzo di gioie dalle vendeuses du Palais, così di carta pesta come sono, avevano cominciato a riscuotere le adorazioni e a rendere gli oracoli della moda ne’ gabinetti delle dame di Parigi. E fosse che queste nuove deità non erano possenti, e che elle non ci erano venute con la mano alzata, e col braccio disteso. E che altro che una delle influenze e, per poco ebbi a dire, delle benedizioni, venute con questa nuova religione alla nostra Europa si può dire che sia stato quell’aver noi veduto, nello spazio di pochissimi anni, riformato in così gran parte e in tante cose quel genio all’antica del disegno e dell’architetture greca e romana, con introdurre nell’opere de’ drappi, nel taglio, negli arredi, e infin ne’ nomi del vestire, nelle novità dei mobili, nella forma, nell’ornato de’ ventagli e delle tabacchiere un nuovo sistema di cose, sto per dire, una nuova categoria di creature? Erbe, fiori, piante, uccelli, animali conosciuti, architetture, statue, urne, figure umane co’ muscoli all’antica, guarda che si arrischino più a comparire ne’ meglio intesi equipaggi della galanteria. Già tutto è capanne, tutto è barchette, tutto è reti, gabbie e pappagalli; tutto è palanchini, tutto è ombrelli, tutto è befane e fantasime saltanti, e con sì strani divincolamenti di vita che io ne disgrado le bisce. In somma già tutto è Gange, tutto è Siam, tutto è Succher, tutto è Cinningsin, tutto rabeschi, tutto vernici, e noi in tutto e per tutto ci andiamo formando a occhiate sul vero e perfettissimo gusto indiano. Ma viva la signora Marchesa mill’anni: su altro gusto si forma chi ha la fortuna d’esser ammesso una volta sola alle più intime comunicazioni de’ suoi tesori; quando, alzate le cataratte di quei cristalli, si dà l’andare alla colta di quelle invisibili emanazioni di paradiso terrestre, che, stagnando talora i mesi e i mesi in quelle preziose conserve, si rovesciano con una caduta sì rovinosa sopra il povero spettatore, che, tra il rapido del corso e l’insostenibile della fragranza, l’anima con tutte le sue potenze se ne va a gambe levate con la corrente, e la ragione sbigottita, in tanto che si fa cuore per ispuntar quel filo, la porta via, dopo avere annaspato un pezzo, dà il tuffo ella ancora e si perde. Ma di che perdite, signora Marchesa! Perdite che in loro agguaglio io ne disgrado le conquiste de’ trionfatori del mondo. Queste corrompono la ragione, quelle propriamente l’imbalsamano: mercè che, risoluta la mente nel bagno di quel piacere, viene a dare come in un ratto, nel quale, separata totalmente da’ sensi, si ricuoce, per così dire, nella purità della propria essenza, e ripurgata dai pregiudizi d’ogni disarmonica impressione, contratta per contagio delle facoltà inferiori, non c’è caso che la torni mai più a ricevere sconcerto in quell’ordine perfettissimo di proporzione, col quale per principio di sua natura è simetrizzata. E così, ridotto a segno il capriccio arbitrario dei sensi dalle forze di quella tripla allianza di aromatico, di nobile e di gentile, che insinuandosi per l’odorato si fa sentire a tutta la massa del senso comune, non c’è più chi possa sedurre in checché sia né l’anima, né lo spirito, né la ragione. Con questo discorso mi par di vedere la signora Marchesa tutta rassicurata: anzi pienamente persuasa che tutte quelle reverenti minaccie che mi son dato l’onore di far da principio, non so se più a’ suoi Buccheri o a lei, non sono state altro che un falso allarme per tenerla un pochetto all’erta e non lasciarla così presto addormentare all’ombra tuttavia mal sicura della prima gloria delle sue conquiste, parendole forse che, dopo aver io vantato tanto gli effetti, ci sia poco modo da attaccar la cagione. E pure, signora Marchesa, e pure; basta, io indugio il più che io posso; e se ella così comanda, per servir lei in persona de’ suoi Buccheri, mi rifarò da capo a lodarli, celebrarli, esaltarli, particolarmente dopo quello che me ne disse l’anno passato il sig. marchese Cosimo Riccardi al suo ritorno di Roma, e molto più dopo quello che mi ha fatto grazia di scrivermene ella medesima nella sua de’ 25 del caduto, dove me gli conta non più a compagnie, come si faceva quattr’anni sono, ma a reggimenti e battaglioni intieri, denominandomeli dalle nazioni: il vermiglio di Cile, il cangiante di Guadalacara, il negro reale di Natan, e così via via, nazione per nazione, di tutti gli altri, senza contare il grande spedale degl’invalidi, di dove pur talora si cavano delle reclute non disprezzabili per il real servizio del naso e per quello del palato ancora. Tutta questa grandezza, tutta questa potenza è certo che si potrebbe descrivere in modo da far apparire le armate di Dario tante orde di Tartari del Budziak; ma e poi? A non voler tradire la gloria dei sudditi, una volta s’ha a dare a bere questo calice alla conquistatrice. Dice un proverbio turchesco che la miglior salsa per mangiare una cosa schifa e nauseosa è l’ingoiarla presto. Vuole la signora Marchesa che io le serva questo piatto alla turchesca? Sono arrivati dall’Indie due Buccheri giganti, in corpo a ciascheduno de’ quali starebbono comodamente in quartiere di rinfresco tutti i suoi battaglioni. Non le diss’io che questa mia opera non poteva finir bene? A me ne scoppia il cuore. E mi creda la signora Marchesa, che se questi animalacci si ritrovassero alloggiati in ogni altro luogo che dove sono, io vorrei vedere se mi riuscisse di rompermi la testa con essi; ma ora come ora mi conviene sacrificare al rispetto il brio e la galanteria. Anzi per maggior mia mortificazione mi è convenuto anco il passare qualche finezza in ordine al preparar loro un quartiere di maggior comodo e di maggior regalo. Basta, questo non guasta e non rimedia. L’unico partito che io veggo per la signora Marchesa è il negoziare speditamente in Ispagna la restituzione de’ suoi prigioni di Cadice a qualsivoglia prezzo; e quando il signor Marchese suo dovesse offerire la leva d’un terzo per Catalogna, io l’avrei per molto bene impiegato. È vero che noi non sappiamo ancora quello che costoro si siano; ma finalmente sappiamo che essi ancora siano indiani, mostacci proibiti, e d’una statura straordinaria: bisognerà bene che siano da poco, se in quattro non ci sanno fare star due: Orsù, galanteria da banda, che adesso mi metto in autore da vero. Per camminare con buon ordine, mi farò dal nome di Buccheri; ma per la gloria della nazione cominceremo male e tanto male che, se io non fossi in impegno di scrivere per la verità, forse mi lascerei andare a far loro qualcheduno di quei servizi che i poeti e anche gl’istorici non hanno scrupoleggiato in fare alle nazioni, dopo che già sono diventate grandi, facendole venire da principi illustri, e talvolta ancora più che umani. E la tentazione piglierebbe in me tanto maggior piede, quanto più ci mescolerebbe della mia vanità, alla quale non parrebbe vero d’avere una volta avuto riscontro di potere spacciare un po’ di residuo di tintura, che ancora ritrovo da ventisei anni in qua, di lingue orientali, senza aver mai trovato un cane che me ne domandi in dono. Per esempio chi discorresse così: Ognuno sa di quel grandioso alloggio che la regina di Cipro fece fare in parte così remota da’ suoi stati d’Europa a Vasco de Gama, quel gran generale di Portogallo, nel suo ritorno dalla famosa spedizione dell’Indie orientali, quando, fatto avvertito del mal giuoco che il Semori disegnava di fare alle sue navi, fatto vela dalla baia di Calicut per il Capo di Buona Speranza, trovò in un’isola posta nella vastità dell’Oceano indico il più sontuoso trattamento che si legga mai fatto ad uomo di questo mondo. Per non mettermi qui a copiare tutto quello che così individualmente ne scrive Luigi Camoens nel IX del suo Lusiadas, mi fermo semplicemente a considerare che quanto possiamo immaginare di ricco, di raro e di delizioso in tutto l’Oriente, tanto possiamo ancora persuaderci che comparisse su quella tavola, dove quella principessa, destinata a faire les honneurs de la maison royalle, trattò il generale con tutti gli uffiziali della Flotta portoghese. Que’ soli sgabelli di cristallo mi fanno vedere quel che poteva essere la credenza e la bottiglieria: e secondo che non è verisimile che di Nicosia si trasportasse in Asia tutto quello che poteva bisognare per un alloggio di questa sorta, mi do ad intendere che per la strettissima confidenza che allora passava tra quella gran regina tutti, si può dire, i potentati dell’universo, e per l’infinito bisogno che tutti ebbero sempre di lei, mi do ad intendere, dico, che si facesse di molto capitale delle guardarobe de’ vicini, e specialmente di quella del Mogol, onde è assai verisimile che, oltre la sua piatteria d’oro, vi saranno state tutte le sue terre più preziose, tanto forestiere, come turchesche, persiane, arabe, damascene, egizie, quanto naturali de’ suoi propri regni e provincie. Ora tra queste io trovo il regno di Bukar, con la città metropoli dell’istesso nome posta sul fiume Indo: e trovando in Portogallo la voce pucaro (dalla quale indubitatamente la castigliana bucaro e l’italiana bucchero) per nome d’un vaso di terra d’odore, anderei fantasticando se per avventura il regno potesse aver che fare col vaso; in questo modo cioe: che Bukar fosse una voce composta di due dizioni: Bu kar, e che volesse dire: «di», o, «dell’odore»: per modo che Bukar, regno o provincia, venisse a significare l’istesso che significherebbe in inglese Scent Land, cioè «terra d’odore»: supposta questa denominazione, non avrei niente per improprio il crederla derivata dal trovarsi in quel paese molte vene di terre e di boli odoriferi, come vediamo trovarsene in diverse parti non meno d’Oriente che d’Occidente, e che di queste, in una corte di tanta ricchezza e di tanto lusso come quella del Mogol, si fosse introdotto il formarne diversi vasi di regalo per ber acqua e per altri ministeri deliziosi. Il fatto sta in vedere come Bukar possa voler dire «di odore»: e qui di questo se ne potrebbe addurre due piccole congruenze, una assai positiva e l’altra per via forse di non affatto disprezzabile coniettura. Io, signora Marchesa, entro qui in un pelago fastidiosissimo, che per necessità ha a far mareggiare me che ci navigo, e lei che sta a vedere. Ma che s’ha a fare? Io sono autore: e per non ammetter breccia nel mio carattere, m’è indispensabile l’accomodarmi a veder soffrire una dama per mio conto. Un ambasciatore regio, dopo essere stato accompagnato infino alla porta di sala come ministro, può tornare a servir la dama fino in camera come cavaliere, non è dubbio; ma l’etichette degli autori sono più formali di quelle de’ ministri, anzi di quelle degli stessi dragoni. Ha ella inteso con le lettere di Torino della settimana passata con quanta galanteria Monsieur de Tassay abbia rimandato da Pinarolo al Marchese di Leganes i suoi prigioni? Noi altri autori queste cose non le possiamo fare. Tutto l’arbitrio che io posso pigliarmi in favore della signora Marchesa è il protestarmi di non credere che ella sia mai per leggere nessuna di queste seccaggini, e in questo son certo di non farle il minimo torto, parendomi che una dama che si dilettasse di etimologie non meritasse maggiore stima di quella che Arrigo IV faceva d’un principe del suo tempo che si dilettava di controversia, onde parlandone non lo chiamava altrimenti che Maistre Jacque, Maistre Jean, Maistre Pierre, o come altrimenti quegli si chiamasse, che adesso non mi sovviene. Questi sono diletti da Precieuses, da Femmes savantes, non da dame: ora diamoci dentro. Bu in due modi può significare «di» o «degli»; o come corruzione di du arabo (il che non sarebbe impossibile, trovandosi altri esempi di questa variazione della d nella b, senza portar variazione dal primo significato) o come voce arabicobarbara, o siroarabica che vogliamo dire, nella qual lingua bu significa indubitatamente l’articolo del genitivo. Bu calb «del cane»: nome d’una moneta, che avrebbe a dirsi «del leone» per esservi improntato un leone; ma la gran maniera del conio, facendolo pigliare a tutti per un cane, fa che generalmente dal cane venga denominata. Bu zaharah, «del fiore»: così chiamano la volpe dalla pannocchia bianca della coda, che considerano per simile a un fiore. Bu fraivech, «della pelliccia»: per antonomasia così chiamano la castagna: quasi Tamrah, bu fraivech, «frutta della pelliccia», ecc. Né dà fastidio in ordine al passaggio di questa voce nell’Indie la gran lontananza dell’Arabia, o d’altro qualsisia paese, di dove ella si possa essere spiccata: il commercio essendo un vento abile a trasportare di peso lingue intere, non che semplici voci, in parti più remote assai che non è l’Arabia dall’Indie; testimonio, se non altro, le innumerabili che ne sono volate d’Ungheria in Finlandia, e di Castiglia e di Portogallo in Lituania e nell’Indie Orientali e Occidentali. L’imbroglio sta nel Kar, il quale è certo che in nessuna delle lingue orientali a noi note vuol dire «odore». Venderla per voce indiana non me ne dà il cuore, ché ci avrei di coscienza. Piuttosto a chi la volesse accettare per tale, mi sentirei di farne un regalo, accompagnata da questa considerazione che Ceiro in portoghese vuol dire «odore», ma si scrive Cheiro. Chi sa che da principio non fosse Ker, che l’i di mezzo e l’o finale non fossero aggiunti dal genio di questa lingua quanto mal vaga di finire le sue voci in desinenze tronche e aspre, altrettanto vaga d’armonizzarle a forza di dittonghi, e più d’ogn’altro con l’ei, a segno tale che le desinenze castigliane in ero, in portoghese sono per lo più in eiro. Niente meno, vago è il portoghese del suono delle nostre c, e sci, spesso mutando nella c non solamente la k, ma la p, la f e la ll de’ Castigliani: e per infino tutto quello che il Castigliano aspira con la j, la g e la x, il Portoghese lo bagna o nella sci comune, o nella j, o nella g de’ Francesi. Tanto si direbbe che questa lingua si trovasse sempre assetata, e che non perdesse opportunità di portarsi a combaciare col palato per umettarsi. Ora che gran cosa che di Kar, o Ker, che è l’istesso (le vocali nelle lingue orientali, almeno nelle note a noi, facendo così poca figura che né pur si scrivono, lasciandosi, per così dire, al lettore l’arbitrio di porle a suo modo), che gran cosa, dico, che di Ker a poco a poco venisse Cheiro? Qui mi cade ancora una giudiziosa osservazione di Monsieur de la Piguettière, un galantissimo spirito francese, che io ebbi fortuna di conoscere alla Corte d Svezia in casa del Marchese di Feuguières, ambasciatore di Francia, che aveva in lui tutta la sua confidenza, e che ora da più anni assiste a quella medesima Corte per gli affari del suo re. Quando voi trovate, diceva egli, in una lingua una parola che non ci abbia tutto il parentado, abbiatela per forestiera sicuro. Per esempio nella nostra amour, aimer, amis, amitié, aimable, aimablement, non vedete voi che c’è tutta la sua famiglia sino in terza generazione? Al contrario, Blefarb: maledetto chi lo conosce: andategli dietro, ritroverete i suoi in Alemagna; Bley «piombo», Farb «colore». Monsieur qu’avez-vous: vous êtes si blefarb? Voi avete un viso piombato. Darebb’egli il cuore alla signora Marchesa, di procurarni di Portogallo o d’Algarve qualche nuova de’ parenti di Cheiro e di Cheirar? Non solamente in tutta l’agnazione, ma né in tutta la cognazione della lingua portoghese v’è esempio che l’odore si chiami né con questo nome, né con altro che lo rassomigli. Il greco Odmè; il latino Odor; il castigliano Olor, e Olor anche il portoghese, il che merita riflessione; l’italiano Odore, il francese Odeur, Senteur; dove abbiamo a cercarla? Nel Brettone, o nel Sucone antico Concludiamo, secondo le regole di Monsieur de la Piguettière, che Cheiro se non è moro, è mulatto: e poiché noi ritroviamo nell’Indie, in questo regno di Bukar, il nome d’uno dei suoi genitori: poiché abbiano tante congruenze del passaggio di quest’istesso nome in Portogallo, e soprattutto poiché abbiamo l’istesso motivo per crederlo che aveva il canonico del Corno per credere alcune nuove poco credute dagli altri: «Questa nuova mi la credo perché la me piace»; questa etimologia io la credo perché mi torna bene per la gloria de’ Buccheri: concludiamo, dico, che Cheiro venga da Kar, e che volendo Cheiro dire «odore», Kar voglia dire l’istesso. Dunque Bukar «regno o terra d’odore»; e Bukar «vaso», l’istesso che in Francia Fayence e in Ispagna Talavera per «maiolica», cioè accomunato al vaso medesimo il nome del luogo dove si fabbrica. Così anche noi diciamo «terre di Savona» le maioliche che si fabbricano a Savona, e forse già in qualche luogo si chiamano «Savone» a dirittura. E per quanto a qualcheduno, troppo rigoroso inquisitore della fede di Camoens, indiziato appresso certi cervelli stitichi d’alcune opinioni assai su l’aria di quelle di Turpino, non piacesse il passaggio de’ Buccheri in Europa col ritorno degli Argonauti portoghesi, l’accetti almeno con le spoglie dei primi conquistatori dell’istessa nazione; che i nostri Buccheri non perderanno niente in aver fatto il viaggio dal porto di Surat alla Barra di Lisbona in conversazione di quelle mostruose gioie, che, mandate via via da quei primi vicerè dell’Indie, fecero la loro prima comparsa in Occidente su quella famosa sella, delle cui reliquie ambiscono ancora al dì d’oggi di potersi ornare tutte le donne reali d’Europa. Del resto mi si diano condotti una volta questi vasi alla Corte di Portogallo, s’intende poi subito come vi si siano naturalizzati. La grande stima, in che s’ebbero quelli venuti dall’Indie, fece diventar subito la moda l’odore della terra; e secondo che ogni terra bagnata accenna poco o assai la fragranza del Bucchero, è verisimile che si cominciassero a fare varie esperienze di quali terre rendessero alito più soave, tanto che, ritrovatesene alcune, quelle restarono elette, e, per così dire, inaugurate alla maestà di tanto lavoro. Ma avvertite, diranno, che pucaro in portoghese non vuol dire altro, se non che ogni vaso più vile di terra. Rispondo presto, e male: che quando questo fosse vorrebbe dire la grandezza del genio della nazione, che in tutto ricerca il fasto e la magnificenza. Basta sentir raccontare al più miserabile pescatore di Alfama, che è la feccia della plebe di Lisbona, la sua cena, che spesso s’accozza col suo desinare. Uma sopa de vacca com o seu coentrisinho, e uma sardinha do Rio assada, com o seu boccado de doce, e um pucaro de agua do Chofariz: rica cousa, regalada cousa! Par egli alla signora Marchesa che la regina dell’Austro si potesse esprimere con maggior sensualità d’una sua merenda, o quella d’Egitto con maggior boria di quella sua bevuta? E pure tutto l’apparecchio si riduce a una pappa con quattro foglie fresche di curiandolo, una sardella su la gratella, un boccone di marmellata, e una tirata d’acqua. Chi potesse vedere, appena si cominciò a susurrare per Lisbona di questi prelibatissimi pasti del regno di Bukar, i quali sì come facevano tutto il diletto e il regalo delle persone reali, così dovevano essere la materia di tutti i discorsi de’ cortigiani e della nobiltà, che ogni fregaterio dovette cominciare a graduare a’ Buccheri tutto l’equipaggio della sua cucina. Ma io dico che non è anche vero che Pucaro in portoghese significhi ogni vaso più vile di terra. Pucaro, mascolino, è propriamente nome generico d’orcio: almeno per tale lo spiega il Padre Antonio Pereyra nel suo Vocabolario latino, portoghese e castigliano. E solamente Pucara, femminino, si usurpa per «pentola», chiamata, forse anche più correntemente, Panela, e Panelinha il «pentolino»: il che mi è più tosto indizio di stravoltura ironica di Pucaro mascolino a una significazione non sua e indegna di sé; così anche noi chiameremo talora per maniera di disprezzo «corallese» una qualità di coralli di colore languido e dilavato, che tanto è dire quanto indegni del nome di corallo, perché il femminino, che tra gli uomini influisce sempre tanta stima e muove tanto rispetto tra le cose inanimate quando impropriamente si trasportano dal mascolino, cavandole, per così dire, di nome, si riduce a un semplice avvilitivo. Che direste voi, se per disgrazia si trovasse che Cheiro in significato d’«odore» era in Portogallo prima delle conquiste dei Portoghesi? Direi quello che diceva il Cardinal de Retz quando, dopo aver raccontato alcuna di quelle avventure delle quali egli fu così gran parte in quei tempi burrascosi del partito della Fronda, qualcheduno ammirava la sua intrepidità. «Questi sono balli, che chi ci vuole entrare non bisogna che abbia paura né d’un pugnale, né d’un bicchiere di veleno.» L’etimologie sono balli, che chi ci vuol entrare non bisogna che abbia paura d’un anacronismo o due. Ma io dico di più, che quand’anche la voce Cheiro, in significato d’«odore», fosse più antica delle conquiste de’ Portoghesi, io per sostenere che Kar in qualche lingua o in qualche dialetto dell’Indie possa dirsi «odore», non ho né anche bisogno di saltare il fosso dell’anacronismo; Kar potendo essere una arrovesciatura di Rejach che soppressa la j, secondo che dopo la e fanno ordinariamente gli Ebrei, e più i Siri, si riduce a Reach, voce che nella Sacra Scrittura si trova alcune volte in significato d’«odore». Dico alcune poche volte perché, secondo che nella Scrittura la più frequente occasione di nominar l’odore è nel discorrere de’ sacrifizi, nel qual caso pare che ami meglio servirsi della voce Zecher, il povero Reach ci può avere poco luogo. Pure ne addurrò due o tre esempi notabilissimi anche per la bizzarria dell’espressione. Il primo è nel Genesi quando che Isac dalla gran fragranza delle vesti finisce d’assicurarsi d’abbracciare Giacob, e non altrimenti Esaù: «Reheh reach beni chereach: Vedi l’odore del mio figliuolo come l’odore d’un campo». Il secondo in Giob «Mercach maim iafriach: Dall’odore dell’acque germinerà»; e il terzo è in Daniele: «Vereach nur la nghadat behon: E l’odore del fuoco non era in loro»: parla de’ tre Fanciulli all’uscir della fornace. Bisogna però che io confessi che di questa arrovesciatura, o sia trasposizione di lettere di Reach in Kar, non ne posso addurre alcun esempio. Posso bene addurne d’altri vocaboli, che da rovescio ritengono gl’istessi significati che hanno da dritto. Il Bustorfio considera Bal caldeo insieme e arabico, per Leb ebraico arrovesciato, e l’uno e l’altro vuol dir «cuore». Il Vossio l’ae e l’et de’ Latini dal xj e dal tè de’ Greci; dall’ar parimente greco, il ra: l’una e l’altra particelle espletive, e finalmente forse il siriano Mor, che vale «signore, principe», non è altro che un’arrovesciatura dell’ebraico Ram, «grande, eccelso». Ma quando anche Kar non potesse sostenersi in senso di «odore», che importa? Io ho un altro segreto facile per fare che Bukar o Buckar uo lo voglia dire per un’altra strada, componendolo di Bu persiano, che vuol dire «odore», e di Charah turchesco, che vuol dire «spiaggia»: e così Bucharah, «spiaggia d’odore», che nel suo contratto verrebbe naturalissimamente a essere Buchar. E appunto questo nome di «spiaggia» si direbbe che tornasse dipinto a un paese di confino, il qual confino si abbatte di più a esser un fiume, e un fiume come il fiume Indo: e in questo significato verrebbe a corrispondere a capello alla voce inglese di mia invenzione, che addussi dianzi per ragione d’esempio di Scentland, «terra d’odore». Qui «spiaggia», che è l’istesso: col vantaggio di cavarla più tosto da una voce persiana, e vicina, anzi confinante al regno di Bukar, che da una siroarabica così lontana. Io non voglio dare orecchio a un’altra derivazione, che mi passa adesso per la mente, composta questa ancora di Bu persiano, e poi di Keresc ebraico, che vuol dire «vaso di terra cotta», con che ogni tantino di storpiatura o di mutilazione ci ridurrebbe questo vocabolo al nostro bisogno senza averlo a far passare per il regno di Bukar. Ma avendo io ottenuta per questi vasi con tanto negoziato la nobiltà indiana, non voglio far loro questo pregiudizio: oltre di che mi pare più vantaggioso ai Buccheri il lasciar loro un quarto di turco che permutarglielo in un quarto d’ebreo. Ora dica la signora Marchesa, se in ordine a rialzare i Buccheri a forza di nome si poteva far più che derivarglielo dall’odore. Ma non sia mai vero che alle mie mani abbiano a rendersi commendabili i Buccheri a forza d’immaginazione. Ne’ Romani (dice un delicatissimo scrittore francese, che vive ancora) c’è tanto di vero da ammirare, che è un far loro torto il mettersi a volerli rialzare con le favole. Lo spogliarli d’ogni vano ornamento è un abbellirli. Ne’ Buccheri, dirò io, c’è tanto di grande, che è un far loro torto il mettersi a volerli rialzare a forza di congetture. Venghiamo al buono. Bucchero, italiano, indubitatamente da Pucaro portoghese; siccome ancora Bucaro castigliano, vocabolo che ho imparato solamente da pochi giorni in qua dal Tesoro della Lingua castigliana del Covarrubias, dove leggo: Bucaro cierto género de tierra colorada, que traen de Portugal. Del resto né in Spagna, né fuori di Spagna da nessuno Spagnolo ho mai inteso chiamar questi vasi altrimenti che col nome generico di barros «terre», barros de la Maya, barros de Chile, e così sempre, se non quando, alle volte, per una certa maniera di disprezzo o di fasto, cascos o «cocci». Fermato il Portogallo per casa soliarega del ramo italiano e castigliano de’ Buccheri, siccome ancora di tutti gli altri che si vanno propagando in Francia, in Inghilterra, e dovunque regna il buon gusto negli odori, il regalo e la galanteria nel vivere; resta adesso a vedere di dove vengo l’istesso ramo portoghese. Io ho modo di farlo venire chiaro, liscio e naturale così bene d’Oriente come d’Occidente. Proporrò l’una e l’altra genealogia, e la signora Marchesa si degnerà d’accettare quella che più le piace. Pucaro. Forse una di quelle tante voci lasciate in Ispagna dagli Arabi, appresso i quali Focchar è quell’istesso vaso di terra che i Latini chiamano Testa; e Focchar chiamano ancora al dì d’oggi i Damasceni alcuni vasi d’una loro creta particolare. Così nel Salmo 2, dove il testo latino legge: «Gli spezzerai come vaso del formatore di creta»; l’arabico legge: «Gli spezzerai come vasi Alfocchar». Il siriaco si vale dell’istesso vocabolo, ma con diversa inflessione: «Gli dispergerai come vasi Pachoro», cioè testacci di creta; e il Parafraste caldeo: «Come vasi Pechar gli spezzerai». Alla voce arabica corrisponde l’ebraica Cheres, dalla radice Charaso, la quale tra i diversi significati vale ancora «colpire, formare, fingere» dei Latini. Né è da fare il minimo reparo che l’Arabo pronunzi per f quello che il Portoghese pronunzia per p, essendo frequentissimi nelle lingue orientali così fatti scambietti tra le lettere del medesimo organo, che tali sono la f e la p, valutate l’una e l’altra per labiali. Nè sarebbe giusto che i vocaboli fossero più privilegiati di tutte le altre cose, che, mutando paese, mutano d’accidenti, se non di sostanza. Vediamo quanto poco è dalla Castiglia al Portogallo, e pure in così breve viaggio hablar diventa falar; hermoso, formoso; horno, forno: e da Firenze a Pisa soldato, sordato; sua altezza, sua artezza, e tante innumerabili altre in questi e in tutti gli altri paesi. Per vedere la derivazione d’Occidente basta aprire il Glossario di Du Fresne alla voce Bacca, «vaso da tener acqua», da cui Baccale: di qui Boccale, e Baucolion de’ Greci. Noi da Bacca e da Bachia, «boccia». Da Bacchinus, «bacino, bacile». Da Bicharium, Picherium, «bicchiere, pecchero, pucaro». In tanta generazione, della quale credo di averne soppresso i due terzi, a me non dà il cuore di mettermi a riordinare la serie degli avi: anzi né pure di raffigurare il padre, sapendo io benissimo che succede ne’ vocaboli come negli uomini, che spesso il figliuolo ritrae più dall’avo che dal padre, e talora più da un zio, e da un zio del medesimo padre. Riprova del passaggio, dirò, incognito che fanno di corpo in corpo alcune particelle molto misteriose, le quali aspettano la terza e la quarta trasmigrazione avanti di deporre l’incognitura e spiegare il loro carattere sul mostaccio d’un pronipote. Contingenza, e sia detto di passaggio, che renderebbe desiderabile, sommamente opportuno per la quiete di molti e per ovviare a molti giudizi, che nelle case si conservassero religiosamente i ritratti di tutti gli ascendenti, per avere in certi casi dubbi, nella moltiplicità di tacite arie diverse di mostacci, un sicuro capitale di mallevadoria della legittimità de’ parti, dell’innocenza delle madri, e nell’istesso tempo una riprova generale e irrefragabile della virtù di tutte le donne del mondo, spesso calunniata per l’aria un poco esotica d’un figliolo, che talora, chi potesse vedere, sarà tutto l’àbavo del padre o il trìtavo dell’avo. E ritornando ai Buccheri: vegga adesso la signora Marchesa di queste due discendenze, quale più le soddisfaccia. L’orientale è più liscia, ma più umile. L’occidentale, a esser vero il sentimento d’Alberto Accarigi, citato e seguitato in questo particolare da Du Fresne, sarebbe più fastosa, perché il ceppo di quest’albero sarebbe una deità, pretendendo l’Accarigi di derivare tutti questi ascendenti da Bacchar e Baccarium, vaso dedicato, consacrato al servizio, al ministero di Bacco. Con che i nostri Buccheri verrebbono a essere anche più illustri de’ loro antenati; mentre, dove quelli avrebbono servito alla superstizione e all’ubbriachezza, questi, purificati nella verginità dell’acque alla quale sono unicamente e religiosamente dedicati, è certo che servono attualmente con loro gloria e con profitto degli altri alla sobrietà, alla salute e alla gentilezza. Io non voglio far qui il panegirico de’ Buccheri, perché il tacere qualche parte delle loro prerogative sarebbe un tradir loro, e il dirle tutte sarebbe un mancare di finezza con la signora Marchesa, la quale, siccome non potrebbe non accorgersi che in questo fatto si renderebbe giustizia al suo discernimento, e non ossequio alla sua qualità, così non potrebbe difendersi dall’arrossire. Mi permetterà solamente che io dica che, se non per ragione, almeno per una connivenza, della quale non si è veduto esempio in Roma se non dopo che la signora Marchesa s’è dichiarata per queste creature, in oggi che elle si veggono radunate, per così dire, dai quattro venti con una tanto ansiosa, sollecitudine, e raccolte e sollevate dalla sua mano autorevole di dovunque se ne trovino disperse e rinvolte nell’abiezione, per collocarle tra le suppellettili più preziose de’ suoi gabinetti, non si sentono più di quei bestemmiatori, che tante volte m’hanno fatto inorridire. «Tant’è, diceva prima quello, io non ci trovo questi miracoli: io non ci trovo altro che l’odore della terra bagnata.» Quell’altro: «Quando io voglio sentire il Bucchero, metto un tegame nuovo in fusione e mi soddisfo». Di grazia, non appestiamo questi fogli profumati così riccamente da dritto e da rovescio col nome de’ Buccheri, con metterci adesso a parlare di questi ciechi. Basti a noi l’aver conosciuto questo tesoro, e l’aver cooperato a farlo conoscere a tutti quelli che non avevano una disperata naturale incompatibilità con la gentilezza: io con l’aver durato da venticinque anni in qua a proclamare all’Italia quello che già di tanto tempo riverivano le Spagne, e che più di fresco avevano riconosciuto la Francia, l’Inghilterra, e, mansuefatta dalla mano di due imperatrici spagnuole, l’istessa Alemagna; la signora Marchesa coll’averlo esposto all’ammirazione, all’applauso, all’invidia di Roma, perché le altre membra dell’universo non potessero più ignorare o disprezzare impunemente quello che avesse una volta riconosciuto e venerato la testa. E per quanto qualche scrupoloso morale, astretto a confessare l’eccellenza de Buccheri in ordine al piacere, pretendesse di condannarne l’indifferenza in ordine alla virtù; e per quanto la sua poca pratica degl’interni non gli lasciasse raffigurare quello che voglia dire una gran dama italiana, ridotta a costituire tutte le sue delizie nel conversare con quattro vasi di terra, si soddisfaccia in vedere di quale ineffabilità di misteri un gabinetto di Buccheri della duchessa d’Alva servisse di geroglifico a una gran santa spagnuola. Qui, signora Marchesa, noi siamo a parecchi fogli, e per molto che si sia detto del nome de’ Buccheri, mercè le gran limosine di buoni amici versati nelle lingue orientali, de’ Buccheri fin’ora non s’è detto nulla. Io non so da quello che si venga: da qualche tempo in qua non trovo più la via di mettermi a far niente altrimenti che all’impazzata; e con questo genio non è mai possibile il sostenersi in autore. Si contenterebb’ella che, in cambio di un’opera regolare, io la serva di qualche lettera? Perché, veda signora Marchesa, qui credo che ci sia poco il modo di fare altrimenti. Io so che ella non pretende che io mi serva de’ Buccheri per un pretesto a farle l’istoria naturale di tutte le terre delle quali si sono servite a far vasi tutte le nazioni conosciute. Se ella avesse avuto questa curiosità, non avrebbe avuto di bisogno di lasciare il cognato per il servitore: e l’aver voluto questo, e non quello, vuol dire che ella ha conosciuto di volere una cosa nella quale c’era da farsi poco onore. La fabbrica de’ Buccheri è in mano di certe nazioni che, per quanto li stimino degni del godimento de’ loro sensi, non li stimano degni dell’applicazione delle loro menti; testimonio, l’essere i poverelli ridotti ad aspettar da me la sorte che rimanga qualche memoria di esser passati per questo mondo essi ancora. Che però vuol essere una forma di scrivere che ricopra il più che sia possibile la scarsità della materia, e il poco capitale dello scrittore. «E noi facciamoci un coccodrillo che pianga sopra un uomo morto»: mi rispose il sig. Paolo Falconieri, una volta che io mi lamentavo che non mi sovvenisse un pensiero per una fontana, adattato quanto avrei voluto a scusare la povertà d’un’acqua che ho in una mia villa. Il sig. Paolo faceva grazia di minchionare al suo solito: ma al suo solito ancora delicatissimamente, e con sommo giudizio, perché quell’acqua, che, anche a farne un piccolo velo, è miserabile, ridotta a lacrime, diventerebbe un fiume. Orsù, m pare di vedere che la signora Marchesa, come discretissima, si appaghi di queste lettere, Ne sarà dunque servita, e con maggior brevità di questa volta, nella quale, essendosi avuto a sostenere insino da ultimo la qualità d’autore, non si è potuto avere tutta la condescendenza dovuta alla qualità di dama; e riverisco la signora Marchesa umilissimamente. |
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