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Lorenzo Magalotti
Lettere odorose

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  • LETTERE SU LE TERRE ODOROSE   ALLA MARCHESA OTTAVIA STROZZI
    • LETTERA SECONDA   Firenze, 12 luglio 1695.
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LETTERA SECONDA

 

Firenze, 12 luglio 1695.

 

Tant’è, bisogna dire che l’obbedienza sia diventata una rara mercanzia, poiché ai padroni par tanto la bella cosa il trovarla ne’ servitori, che, per ogni poco che riesca loro l’appurare di questo capitale, non si saziano di lodarli, di celebrarli; e poco manca che non se ne constituiscano debitori. Veramente, se si considera per durissima la condizione dell’avere a servire e ringraziare, bisognerà riconoscere per felicissima quella di chi, servendo male, è ringraziato così bene, come è riuscito a me con la signora marchesa Strozzi. Per la mia ambizione non si poteva desiderar di più; ma per il mio onore non si può negare che non fosse tornato meglio l’aver moderato un poco l’espressione di questo gradimento, perché così apparisce che sia giunta nuova la mia prontezza nell’obbedire, e che questa si conduca in trionfo più tosto come un bottino fatto sopra il nemico, che come un dovere pagato di buon cuore dal servitore. Ora basta: io ho trattato così male la signora Marchesa con un lettera di otto fogli, che posso ben contentarmi che ella mi tratti un po’ manco bene con un ringraziamento di due facciate. M’immagino adesso che ella se ne aspetti uno, almeno d’altrettante per il benignissimo indulto di potere scrivere la Vita de’ Buccheri per via di lettere: s’inganna, perché questa grazia pretendo di riconoscerla dall’indiscrezione della mia precedente, la quale, senza che io ci abbia pensato, verrà ad avermi fatto l’istesso giuoco che fece a Fouquet, grand’intendente delle finanze, l’aver cominciato a assediare il cardinal Mazzarino con fasci così spaventosi di conti, di mandati e d’altre scritture d’infiniti generi, che presto lo guarì dal catarro che gli era venuto in testa di voler che passassero sotto i suoi occhi tutti i negozi dependenti da quella carica. Ora facciamo così: tutto pari e non creda la signora Marchesa di metterci niente del suo. Perché sa ella? Se nella passata v’erano quattro o cinque fogli d’etimologie, a questi, a voler scrivere metodicamente, e secondo l’arte, ne avrebbono a marciare in groppa almeno dodici di citazioni di luoghi d’autori, registrando prima tutti quelli dove a Plinio, a Seneca, ad Ateneo e a tanti poeti è scappato il nominare o terre, o vasi, o tazze, o bicchieri, o caraffe: e poi a uno a uno andar arzigogolando il modo di tirare ogni cosa a dritto o a rovescio a’ Buccheri. Né c’entra il dire che io questa cosa non la potrò fare perché non mi trovo in contanti questo capitale d’erudizione. Bagattelle. Sì, quaranta o cinquant’anni sono non l’avrei potuto fare, ché chi voleva di questi assortimenti bisognava che se li mettesse insieme a forza di spalle, ma in oggi che ogni mestiero ha la sua poliantèa, da sé, che ci vuol egli? La signora Marchesa ha pur vicino a quella camera incantata dove ella dorme di questi tempi una libreria delle più cavallerescamente assortite che forse siano intorno alle Stimmate a qualche centinaio di passi per ogni verso. In una di quelle tante ore, che ci si deliziano il sig. consorte o il signor cognato, c’entri un poco, e si faccia mostrare tanta macchina di partitori, d’assortitori, in una parola, di scrittori di cose d’altri, e mi sappia poi dire se ci voleva la vita d’un uomo a mettere insieme da empire un quinterno di carta di citazioni greche e latine, in prosa e in versi, con la sola avvertenza d’alterarne un poco l’ordine per non poter esser subito conosciuto d’aver copiato: e dopo fatta questa sparata, cominciare a ritornarci su a cosa per cosa, e a forza di congruenze lambiccate mettersi a sostenere che ogni ciotola di terra sia stata o bucchero presente, o figura di bucchero avvenire. No no: io voglio che discorriamo de’ Buccheri del giorno d’oggi, non di quelli del tempo antico: degli Spagnuoli, non de’ Cantabri; de Portoghesi, non de’ Lusitani; degl’Indiani scoperti dal Colombo, non di quelli soggiogati da Bacco. E perché né la mia superbia, col non voler copiare, né la mia ignoranza, col non aver che dare, né la mia discrezione, col non volere ammoinare, abbiano a pregiudicare ai Buccheri quel lustro che potrebbero ricevere dall’antichità e dall’erudizione, dirà in pochissime parole, che, per quello che riguarda l’antichità, l’odore de’ Buccheri è il più antico di tutti gli altri odori, non solamente degli artifiziali, ma de’ naturali ancora, non esclusone quelli dell’erbe e de’ fiori stessi, essendo così antico come la terra, secondo che la terra medesima è un gran Bucchero essa ancora, per tale forse raffigurata anche da Omero quando considerò il cielo adattatole intorno così perfettamente come una custodia di questo gioiello; e senza dubbio se Omero avesse scritto al tempo d’oggi si sarebbe avvisato di chiamare il cielo lo scarabattolo di questo Bucchero.

Come Bucchero dunque essendo la terra stata creata gemella col cielo in quella assoluta perfettissima siccità elementare, nella quale ella non è mai più stata, né sarà, insino a che ella non si riduca a quella calcinazione universale, ch’ella è per ricevere dall’ultimo fuoco desolatore; consideriamo, per vita della signora Marchesa, quelle vergini zolle tutte piene di vita, tutte pretto seme di quelle innumerabili spezie di cose che ne avevano a uscire, tutte turgide di spirito formatore, che sopito aspettava dall’effusione del primo umore la risoluzione di quel prezioso magistero per dar subito fuori in erbe, in fiori, in pomi, in gomme, in balsami, in aromi. Consideriamo adesso questa medesima terra, tutta irrorata da que’ primi sudori dell’aria, e successivamente bagnata da quell’acque verginali de’ fonti e de’ fiumi: e dica a noi l’esperienza di quello che diviene l’aria d’una camera per un bucchero nero inzuppato di acqua, e agli altri la ragione, quello che potè mai divenire l’atmosfera terrestre ingombrata da que’ nuvoli d’esalazioni e d’aliti invisibili ma fortissimi, che, appastati su quelle glebe, se ne sciolsero in quel primo universale spegnimento di questa calce ricchissima e misteriosa. Che fragranza, che gloria, che paradiso in terra e in aria. Il più che noi possiamo fare è sollevarci come per gradi su per le poche spezie che abbiamo in testa d’odori di quest’andare, ascendendo, per così dire, di soavità in soavità da quel primo regalo che ci fa la terra riarsa dal sollione come per allegrezza di vedersi promossa a fango dalle prime acque d’agosto, infino a quelle mirabili evaporazioni che l’aria ambiente spreme dalla sostanza di quel bucchero nero imbevuto d’acqua, che ho detto di sopra.

Ma come siamo qui abbiamo finito: per tutto il di più convenendoci lavorare con la fantasia; perché quello che fu allora siccome ninno lo sentì, così niuno potè lasciarcelo scritto. E per verità era giusto che quel primo vergine e non piu reparabile incenso, con cui la terra riconobbe in quella mattina della sua nascita il suo Creatore, rimanesse ineffabile, non che ignoto alle creature. E mi pare anche troppo, che in questo stato di corruttela universale del mondo, in qualche ripostiglio del più remoto Occidente rimanga tuttavia intatta qualche piccola vena di quella felicissima terra primigenia (che altro non dobbiamo credere che sia la pasta dei nostri buccheri, più, o meno dilavata o spremuta) nella quale, più tosto la mente con l’immaginare, che l’odore col sentire, arrivi a libare qualche reliquia degli aliti che regnarono nell’aria in quel primo brevissimo stato dell’innocenza degli elementi.

Servito alla gloria de’ Buccheri per il capo dell’antichità, serviamole adesso per quello dell’erudizione. E per assicurarci di non regiudicare a nessuno di quei tre caratteri: di superbo, che non vuol copiare, d’ignorante, che non ha che dare, e di discreto, che non vuole ammoinare, contentiamoci di portare una decisione sola sola di Plinio, che n’ha in corpo un’altra di Cicerone: ma decisione tanto magistrale che chiude la bocca a tutti i barbari bestemmiatori. Io non dubito che monsignore Strozzi non l’abbia fatta leggere in fonte alla signora Marchesa, e che ella non l’abbia imparata alla mente; e piaccia pure a Dio che ella non la reciti ogni giorno genuflessa avanti i suoi scarabattoli per devozione. Ma io voglio inserirla qui in ogni modo per far incontrar grazia maggiore a questa lettera. Il testo dice così:

«Diciamo qualche cosa anche in grazia del lusso. Cicerone, il quale non si può dire che non abbia saputo di tutto, dice asseverantemente che le conce dove prevale il sito della terra sono più soavi di quelle dove prevale il croco. Notate che lo chiama sito, non odore. Che se poi mi si domanda quale sia quest’odore della terra, che si considera per sì delizioso, io ne porterò due saggi. Il primo, quello che spesso rimane sul tramontar del sole in que’ contorni di dove è sparito l’arcobaleno. Il secondo, quello che esce dalla terra molle dopo che è stato un pezzo senza piovere; poiché allora manda fuori quel suo alito divino di che è stata impregnata dal sole, e a questo non c’è soavità che si possa agguagliare: tunc emittit illum suum alitum divinum, cui comparari suavitas nulla possit.»

Io so che Vittorio Brodeau, sul fondamento di non so che codici antichi di Cicerone, pretende che in questo luogo s’abbia a leggere cera e non terra, e gli par di trionfare con alcune ragioni che ei n’adduce più da dottore fatto all’ombra che da letterato cortigiano, stato aiutante e segretario di camera d’un re di Francia e d’una regina di Navarra. Che odore è egli, dice tra gli altri, quest’odore della terra? Il poveretto non aveva veduto Buccheri, e però lasciamolo cantare.

E ritornando a quell’alito divino, al quale non ci è soavità che si possa agguagliare, e pigliandolo indubitatamente per detto della terra e non della cera, concludiamo che questo è un gran dire perché qui non si tratta di nientemeno che di divinità ed inagguagliabilità: e poi in bocca di chi? Una di queste caricature in Teofrasto, in Plutarco, nel nipote di Plinio medesimo, e in ogni altro spirito un po’ delicato, mi farebbe pochissimo caso; ne’ cortigiani, poi, come per esempio in un Petronio, manco che manco. Appresso i delicati questi nomi Indie, Cina, Giappone, Brasile, Perù, sostenuti dalla rarità, dal valore, dalla difficoltà d’aver la cosa col voto consultivo dell’ozio, della curiosità, della svogliatura e della immaginazione sono in possesso di far conferire per breve la qualità di miracoloso a che che sia. I delicati e cortigiani insieme, dopo essersi di loro mera cortesia fatti una legge d’ogni gusto buono o cattivo del padrone, pretendono di farla ricevere colla spada alla mano da tutti gli altri, coonestata la tirannide col nome di moda. Ma in un Cicerone, nel vecchio Plinio, espressioni di questa sorta! Plinio, di sua natura tutto curioso e delicatezza, ciò non può negarsi; ma irruvidito e imbacchettonito a segno dalla filosofia da ridursi a far gala d’inveire eternamente contro il lusso e le morbidezze, che vuol dire contro i dettami più ingenui del senso e dell’ambizione e contro le connivenze più amabili della religione d’allora. Cicerone, un grand’uomo di stato, ma che di sotto l’abito consolare si lascia scappare affettatamente in più d’un luogo la giornea di maestro di scuola? Suol dirsi che quando parla il pazzo è segno che ha udito parlare il savio. In certe materie di delicatezza, quando parlano i severi è segno che hanno udito parlare i lubrici, e che, mentre si trovano tutti d’accordo, la cosa è già passata in giudicato. E bisogna ben dire che sia così, poiché Marziale, degnissimo in questo luogo di citarsi tanto per lubrico che per poeta, volendo esprimere la soavità di non so qual fragranza di otto odori diversi, ai quali l’uno dopo l’altro intende di paragonarla verisimilmente, con intenzione di crescer sempre, in settimo luogo mette la terra di state, spruzzata leggermente da una pioggerella minuta.

Per motivare adesso qualche cosa anche su la prima parte di questa decisione di Plinio, benché, come ognun vede, senza aver di bisogno d’una lezione di diottrica, qui ci sia di molto equivoco e credo ancora di molta immaginazione, direi tuttavia che ci potesse essere anche qualche cosa di vero; non per ragione dell’arcobaleno, ma di quello che fa l’arcobaleno, che è il sole, il quale, venendosi a scoprire dopo le pioggie, particolarmente di primavera e di state, può facilitare il sollevarsi dal terreno, a quel mo’ bagnato, una maniera di caligine rugiadosa che diffonda meglio per l’aria e renda, se non altro, più comodi a odorarsi quegli aliti de’ quali è rimasto profumato quell’umido dal commercio avuto con la terra. E forse Teognide non vuol dir altro, quando nel suo Idillio su la nascita d’Apollo disse che, subito che egli apparve, la vasta terra gli arrise con una fragranza d’ambrosia, riscontro anche questo della grande grandissima stima che fecero sempre le nazioni più delicate di quest’odore.

Ma, alto all’erudizione: la quale confido che la signora Marchesa non si lamenterà che sia stata né troppa, né oziosa, essendomi riuscito con un semplice testo di convincere questo po’ di bagatella: che l’odore della terra è stato reputato dalla maggior nazione del mondo per cosa divina, e in conseguenza sopra ogni paragone. Ora l’odore della terra è l’odore del Bucchero: l’acqua non avendo più che fare con esso di quello che s’abbia che fare il fuoco con l’odore d’una pastiglia. Il caldo scioglie quello ch’egli trova, buono o cattivo che sia, e l’istesso fa l’umido; e così come il belgioi, la mirra, l’incenso, il balsamo bianco sono paste da fuoco, così ancora le diverse terre de’ Buccheri sono paste da acqua. Quelli sono profumi da inverno, questi da state; quelli esasperano l’aria, questi la soavizzano; quelli invasano il capo, questi confortano il cuore; e quelli insomma si sconsigliano ai sani, questi si prescrivono a gl’infermi; e infino per quello che risguarda il genio degli uni e degli altri, quelli danno il loro odore per forza, spirandolo anche da ultimo con lasciar andare tutto quello che hanno d’acuto e di odioso, questi lo danno per amore, mantenendolo sempre l’istesso infino che ce n’è alito.

A questo proposito io non dubito che la signora Marchesa non abbia fatto dieci volte riflessione a quello che a me sovviene solamente adesso di poter dire in avvantaggio. Di che diremo? Diciamo della grandezza d’animo di questo benedetto odore. Io considero che da tutto quello che si mette sul fuoco, o di buono o di cattivo, esce qualche cosa. Dalla sola terra, mentre sia pura e asciutta bene, niente affatto, e in barba delle rodomontate di questo elemento divoratore è come se ella non vi si fosse messa. Spruzzatela con un po’ d’acqua, o che ella non esce a niente, o che vi regala di qualche cosa di buono.

Di più. Abbruciato o bollito che avete sul talco una pastiglia da fuoco, rasciugato che è quel po’ d’umido crasso del belgioi, dello zibetto, dell’ambra, è negozio finito. Delle pastiglie da acqua non è così. Un Bucchero è una profumiera perpetua a freddo: quante volte la mettete sull’acqua, tante vi si fa sentire in tutta la ricchezza di quelle sue evaporazioni purissime elementari; e se pure a lunghissimo andare, a forza di replicate immersioni, una volta finalmente comincia a perdere, ha questo vantaggio, sopra tutti i profumi da fuoco, che non muta mai, riducendosi dal divino all’insensibile senza passare né per il cattivo, né per il manco buono.

Ecco subito la signora Marchesa in collera perché io ho detto che quante volte un Bucchero si mette in acqua, tante caccia fuori il suo odore, giusto come se io fossi della Nuova Zembla, e non sapessi che vi sono de’ Buccheri. Lo so benissimo: e perché lo so benissimo, però ho detto innanzi che un Bucchero è una profumiera a freddo: sotto la quale definizione ho inteso d’abbracciare gli uni e gli altri, sapendo che la signora Marchesa non è peripatetica, e che non mi riconverrà con dire che i Buccheri, che si fanno sentire a semplice bagno d’aria, non possono dirsi profumiere a freddo, perché l’aria, secondo Aristotile, è calda e umida; e poi la convenienza della mia definizione agli uni e agli altri si sostiene per un altro verso: perché, trovandosi fra le varie spezie de’ Buccheri anche le profumiere a caldo, che tali sono realmente quelli che reggono a fuoco, non c’è più da confondersi sul dubbio se quelli che, per la ricchezza d’un effluvio perenne si fanno sentire asciutti, si comprendano o no tra le profumiere a freddo.

Ma lasciando queste seccaggini, si contenti la signora Marchesa che io l’inviti a fare con esso meco una piccola meditazione sopra un punto che ho toccato di sopra troppo di passaggio: che di tutti gli odori, quello solamente della terra o del Bucchero, che è l’istesso, resiste alla superbia del fuoco, e fa grazia alla modestia dell’acqua e dell’aria. Questa, non è dubbio, è una circostanza che non fa essere quest’odore né più né meno perfetto; ma lo fa ben essere d’una natura più nobile, e forse in sé stesso più misterioso. E per verità questo è un odore molto diverso da tutti gli altri, essendo, si può dire, l’unico odore semplice che abbiamo a questo mondo. E che sia il vero, egli è odore di un elemento, e d’un elemento che è il solo ad avere odore. Questa è una cosa facilissima a sovvenire, ma credo bene che ella sovvenga a pochissimi; e di fatto ella non è sovvenuta a me se non dopo che l’impegno di rendere ossequio al genio della signora Marchesa m’ha fatto studiare più attentamente le perfezioni, diciamo, di questa sua dama.

Dell’acqua già passa in giudicato che la più perfetta è quella che non sa di niente, non meno all’odorato che al gusto; tanto bisogna dire che sia di necessità che subito che ella sa di qualche cosa, sia di cattivo. Dell’aria io non saprei figurarmi come si possa intendere che puramente aria come aria abbia a sapere né di bene, né di male. Del fuoco poi me ne rimetto a chi ha miglior naso di me. Ora, questa terra, sola di tutti gli elementi a odorare, a mio credere, vuol dir qualche cosa, e quando non volesse dir altro, vorrà sempre dir questo: che nella terra, per parlare alla platonica, abbiamo il saggio dell’odore il meno diramato dall’uno nel diverso, cioè a dire, il più puro, il più vergine, il più elementare, il meno allontanato da quella assoluta semplicità che ei ritiene nella sua idea. Perché poi il Signor Iddio abbia voluto consegnare questo saggio più tosto alla terra, più materiale, il più pesante, il più oscuro, il più pigro, che all’acqua il più fertile, che all’aria il più vitale, che al fuoco il più forte, il più attivo, il più bello di tutti gli elementi, questo, se così pare alla signora Marchesa, non voglio che lo ricerchiamo, contenti di chiudere la nostra meditazione con recitare in una reverente subordinazion della curiosità del nostro spirito all’incomprensibilità della divina sapienzaquel devoto epifonema del nostro messer Franceso:

 

Tanto sovr’ogni stato

Umiltade esaltar sempre gli piacque.

 

Una parola sola in termini generali intorno all’odore de’ Buccheri, per andare alla parata di tutte le freddure e di tutte sofisticherie con le quali se ne potessero venire i Barbari o i pedanti.

Quando io dico odore di Bucchero, torno a dire, io dico odore di terra, un po’ più o un po’ meno semplice, un po’ più o un po’ meno stonato. La bagnatura è come la nebbia, che lascia il tempo che ella trova: così questa scopre, non altera l’odore, né vi aggiugne niente del suo: e se si vuol vedere, basta mettersi in bocca un pezzetto di quei Buccheri che non odorano se non bagnati; si sente subito l’odore che tira loro fuori l’umido, senza che possa dirsi che ciò sia effetto della saliva perché una semplice acciaccata di denti a secco non serve a inzupparlo. Perché poi l’acqua, la quale per sua grazia suole dilettarsi di guastare o almeno d’allungare tutti gli altri odori, qui si getti al buono, e conservi e restituisca con sì buona legge quello che le vien fidato, questa è filosofia: stracciona, visionaria, che non ha a pretendere di passare dalla polvere e dall’untume ad appestare l’aria de’ gabinetti, e mettersi a sedere in conversazione di dame per empier loro il capo delle sue immaginazioni. A noi basti di sapere che vi sono alcune terre che hanno di bisogno d’un caustico che faccia una valida revulsione del loro odore alle parti esterne, e che questo caustico per loro è l’acqua: Altre poi sono vene indeficienti d’esalazioni soavissime, preziose, vitali, dirò anche ineffabili, perché in verità non si saprebbe a qual altra fragranza, o naturale o composta, uno se le potesse paragonare: un incognito indistinto, lambiccato dall’assoluta semplicità d’una pura sostanza elementare, uno spirito, un’essenza, un esempio, un’idea affatto nuova, originale, che per intenderla e raffigurarla pur quella che ell’è, bisogna aver l’anima a fior di pelle, poiché altrimenti ogni poco che questi aliti, per ritrovarla, abbiano a immergersi nella materia, succede loro l’intesso che succede a un finissimo intaglio in gioia, che, avendosi a improntare in una cera, o in una terra zotica, questa non ne ricaccia la metà, e quel poco che ve ne rimane è un tal piastriccico che non vi rinvenite se sia la testa d’un uomo o d’un cavalla. Considerazione di da vera, e che avrebbe a far uscire il morbino a certi spiriti crassi, e che a brutto riparo potrebbero benissimo far da corpo, ai quali se per buona creanza presentate talora a odorare un Bucchero perfettissimo d’India, li vedete, dopo dieci affettatissime convulsioni d’occhi e di bocca, stringersi nelle spalle e rimettervelo in mano con un ghignetto, guardando nell’istesso tempo con la coda dell’occhio se v’è nessuno della conversazione che li secondi, procurando così de mettre de son côté les rieurs.

Diciamo dunque che di queste due sorti di Buccheri, dico di quelli che non si sentono se non bagnati e di quelli che si fanno sentire anche asciutti: i primi verranno a essere come il balsamo bianco, il belgioi, la quinquina e altre spezie di gomme odorose, che fredde sanno di poco o nulla, onde per sentire quel che sono ci vuole il fuoco; i secondi saranno come l’ambra grigia, che, fredda o calda, è sempre una gran cosa: così questi, asciutti, vi confortano con la soavità; bagnati, vi confortano e vi sbalordiscono insieme con la ricchezza. Quanto a quelli poi che si adoprano l’inverno sui bracieri, questo non è per averne l’odore a forza di fuoco, al quale si rendono inesorabili, ma acciocché servano di corpo di profumiere odorose, onde il ricco e troppo grave delle paste, che ordinariamente vi si mettono a bollire, nel passare per l’acqua che serve loro di bagno, vengono a legarsi con quei gentilissimi aliti, che in virtù dell’antica alleanza l’acqua cava anche in questo stato dalla terra sotto la buona fede. Ma per questa volta non c’interniamo tanto nel particolare: la state è lunga, e bisogna che il ricreo di discorrer de’ Buccheri ci cavi del sollione.

Per non finir così presto, e riavvezzar male la signora Marchesa dopo averla morigerata così bene quattro sono con una lettera di quattro fogli, la quale mi accorgo dalla sua replica che ella ha avuto la flemma di legger tutta, io mi contento di fare un sacrifizio a’ Buccheri, mostrando adesso la mia volubilità in recedere dall’impegno preso con tanto brio in questa medesima lettera di voler essere parchissimo nell’erudizione; e in conseguenza sottopormi a che mi possa dirsi que jay voulu taster de la pédanterie autant que Jean Bandin chez Moliere voulut taster de la noblesse.

Se monsignore Strozzi nostro avesse tanta passione peBuccheri quanta n’abbiamo noi, e quanta egli medesimo ne ha per le pietre, son certo che ei non avrebbe passato por mayor un luogo di Luciano nel Trattato della Dea di Siria, se pure quella scrittura è di Luciano, che a più d’un indizio non lo pare. Il testo greco dice così: «Vi si sente (parla di quel Tempio così famoso, che è il tema di quest’operetta), vi si sente l’istesso odore di ambrosia che si dice sentirsi nelle parti d’Arabia; e all’entrarvi, che tu fai nel venir di lontano, ti senti avventare un alito molto buono, del quale non perdi mai più le specie, essendo questo d’una natura che i panni, preso che l’hanno una volta, non lo lasciano così per fretta». Qui l’Autore dice chiaro che è odore d’ambrosia: tutto dunque consiste in vedere quest’odore d’ambrosia che cosa sia. Già la signora Marchesa s’avvede che io ho preso animo su la spiegazione data di sopra al luogo di Plinio e all’altro di Teognide, e che adesso vo fantasticando per ridurre a odore di Bucchero questo ancora. Per verità io non pretendo tanto, e lascio che l’ambrosia sia non solamente quello che ella era, giacché da un pezzo in qua non se ne fa più, ma tutto quello ancora che i critici hanno voluto che ella sia stata. Credo bene che, a lasciar d’assaporare in questo giudizio le ragioni dell’ambrosia e ad aver solamente in considerazione quelle d’un semplice odore delle qualità descritte, forse pochi altri che quello della terra si troveranno avere i requisiti per potersi presumere essere stati quelli. Vediamolo presto.

Vi si sente l’istesso odore che si dice sentirsi nelle parti d’Arabia. Qui noi abbiamo odore nel Tempio, e abbiamo odore in Arabia, e non. sapendo niente né di questo, né di quello, sappiamo solamente che l’uno e l’altro è l’istesso; che vuol dire che, ritrovatone uno, son ritrovati tutti e due. Il modo più facile per disciogliere questo problema crederò che sia quello che praticano talvolta i geometri, deducendo la verità del loro asserto dalla dimostrata impossibilità del suo contrario. E pertanto arzigogoliamo, prima un poco attorno all’odore del Tempio, esaminando e via via escludendo tutte quelle nature d’odori che non si adattano alle particolarità espresse nel testo.

«Vi si sente all’entrarvi... che tu fai nel venire di lontano, ti senti avventare un alito...» modi di parlare l’uno e l’altro denotanti perpetuità; e che ad ogn’ora, in ogni tempo e in ogni stagione, questo tale odore vi si senta sempre. Non saranno dunque né fiori, né incensi, né altro qualunque simil genere di cosa che vi s’introduca, vi si offerisca e vi si abbruci in occasione de’ sacrifizi quotidiani, e molto meno ancora nelle maggiori solennità dell’anno.

Se qui si trattasse del gabinetto della signora Marchesa, o anche d’una camera di parata d’una principessa con buone muraglie, buona soffitta, buone vetriate, buone portiere e buone bussole, arazzi, residenza, strato, lumi, di molti fiati, aria sempre anzi tiepida che temperata, andrei d’accordo che, per poco odore che vi si facesse a qualsivoglia ora del giorno, vi si avesse a sentire per tutte le altre: testimonio quello che si dura a sentire ancora in tutti gli appartamenti dove ha abitato la Gran Duchessa madre, di gloriosa memoria. Ma che in un vaso, non voglio che diciamo come quello della chiesa di S. Pietro, mi contento come quello della Rotonda, l’odore che vi si fa stamani, con tenere oggi tutte le porte aperte e con un continuo flusso e reflusso di gente, abbia a ritrovarvisi domattina, e d’una tempera da avventarsi a chi v’entra e da dare una concia così ricca e così stabile agli abiti de’ pellegrini, che abbiano a conservarla dopo tornati alle case loro per lunghissimo tempo, a questo ci ho un tantino di difficoltà, perché odori di questa sorta non me ne sono mai dati alle mani, e pure in questo genere di cognizioni non credo d’essere de’ più addietro. E poi, dato ancora che questi suffomigi quotidiani vi durassero da un giorno all’altro, che assolutamente non possibile, ci erano dieci luoghi più proprii in tutta questa narrativa per far menzione d’una singolarità illativa del gran concorso degli adoratori, del gran numero de’ sacrifizi e della massima venerazione in che questo Tempio era tenuto da tutte le nazioni d’Oriente, senza stame a fare un capitoletto a parte, fuori del suo luogo, il quale sarebbe stato più verso il fine, dove si descrivono i sacrifizi, le feste e le supplicazioni più celebri di tutto l’anno.

Lucerne, lampade o altri lumi accesi in olii, in balsami, in bitumi o in altre paste odorose, di questi, in primo luogo, il testo non ne parla: in secondo, se ciò fosse, non potrebbe mai dirsi che fosse l’istesso odore che si sente all’aria aperta in Arabia; terzo, a considerare questa illuminazione odorosa nella forma che potrebb’essere praticabile in una gran chiesa, credo, anzi ho per indubitato, che sarebbe assai più il cattivo odore che il buono.

Profumiere perpetue, distribuite in diverse parti del Tempio, manco che manco. L’una perché sarebbe stata cosa da dirsi, e non si dice; l’altra perché nella maniera che si dice di quest’odore, si vede che era una cosa ferma, fissa, e che essi medesimi, almeno l’universale, non si rinvenivano di quello che si fosse: ché se l’avessero saputo l’avrebbero detto, vedendosi dal modo misterioso del dirlo che era considerato come una cosa forse più che naturale.

Qui, signora Marchesa, ci cominciamo a trovare stretti bene, e anco restandoci poco in che dare. Questa, come ho detto, era una cosa fissa e, come si può dedurre, non avvertita almeno così subito da tutti per la sede o per la miniera di quest’odore. Le pareti e le statue non pare che potessero essere: quelle, tutte coperte da alto al basso di lamine d’oro; queste, o d’oro o di bronzo. Io non gliele voglio far cascare da alto. Se non era il pavimento, il quale fosse una spezie di smalto simile a certi lastrichi, che si veggono nelle stanze terrene di qualche fabbrica antica così [posti?] in Roma, o come fanno a Napoli, e più nobilmente e galantemente ancora a Venezia, e che questo lastrico non fosse impastato di qualche terra odorosa d’Arabia, io per me non so più dove mi dar di capo.

Né mi fastidio l’antichità; e il dover essere di già svanito ogni odore, che da principio vi potesse essere stato. Prima, perché questo pavimento non era un tappeto di pelle di capretto nostrale, che non si beve la concia e che, andata via quella prima superficie, la pelle non sa più di niente. Era forse della natura d’un caproncino di Spagna, e grosso bene, il quale si beve l’ambra come una spugna, e infino che ce n’è straccio è sempre il medesimo. In secondo luogo, a questo pavimento si attaccavano ogn’anno due gran vescicatori abili a fare una gran revulsione dell’odore alle parti esterne. Terzo, [che] c’era un buco, per il quale era tradizione, secondo la più antica opinione sulla fondazione di questo tempio, che la terra a tempo di Deucalione, creduto, secondo la più antica opinione, il fondatore di questo tempio, avesse riassorbite l’acque del diluvio; e in memoria di questo avvenimento si faceva, con un concorso di popolo infinito da tutte le provincie di qua e di dall’Eufrate, due volte l’anno questa cerimonia. Si partivano la mattina dal tempio, seguitando una statua incognita, portata su le spalle de’ sacerdoti, dietro la quale se n’andavano tutti come processionalmente al mare, dove, pieno ciascheduno un vaso, e quello, pare a me, sigillato da un sacerdote, ritornavano al tempio, e quivi avevano tutti a votare in quel buco tutta quell’acqua che potevano, e beato a chi più ne poteva portare. Io non credo che occorra mettere in considerazione alla signora Marchesa che folla, che urtoni, che sventrate, che bel volar di mezzine per aria, che sfracassamento di cocci, e soprattutto che miserabil proporzione doveva aver l’acqua che aveva l’onore di andar giù per il mistico acquaio a quella che si versava per il tempio, di dove mi do ad intendere che da ultimo si riducessero a uscire in barchetta. Quanto vogliamo noi dire che potesse durare a sentirsi il tanfo, o sia la fragranza d’un guazzo di questa sorta, imbevuto da un lastrico e in un luogo chiuso? Chi mi dicesse che quello d’una solennità aspettava quello dell’altra non mi farebbe punto maravigliare. Intanto osservo che tra i segni d’una continua presenza di qualche cosa di divino in questo tempio si mette questo: che le statue vi sudavano. Se poi elle sudassero per modo d’estroversione o d’introversione, di questo me ne rimetto.

Che poi questo tanfo odoroso fosse d’una natura così attaccaticcia, che s’appiccasse per aria, e che si conservasse su gli abiti, anni e anni, questa è la caricatura, e non va creduta. Poter del mondo! Se fosse stata l’asperges del Piovano Arlotto data con essenza d’ambra o di rose! Mi rincoro che a quel tempo l’essenze non si cavavano, e che l’ambra non era conosciuta. Ma che più bella riprova della sballatura di questa? Questo era l’istesso odore che si sentiva in diverse parti d’Arabia; non è così? Dunque aveva a conciare gli abiti degli Arabi come conciava quelli de’ Siri e di tutti que’ popoli che venivano in pellegrinaggio a questo santuario. E pure per un solo misero luogo in Siria, dove succedeva questa maraviglia, s’è trovato uno che l’ha scritto; e di campagne, e di paesi intieri, dove aveva a succedere in Arabia, non s’è trovato un cane che vi abbia fatto menzione.

Questi panni profumati d’odor di terra mi fanno sovvenire della fragranza d’alcuni altri vestimenti paragonati da chi la sentì all’odore d’un campo allora allora benedetto da Dio. Di qual benedizione? Di quella che quest’uomo istesso dichiarò un momento dopo per la benedizione la più propria per i campi, nell’atto di benedire chi aveva indosso que’ medesimi panni. «Ti dia Iddio delle rugiade del cielo e della grassezza della terraVerisimilmente egli non invocava né la rugiada, né ’l grasso su la persona di quello che ei benediceva: l’invocava sopra i suoi campi. Ecco dunque fatto da lui medesimo il comento a quello che aveva detto poco dianzi, e dichiarato che la fragranza di quel vestimento era simile all’odore che manda fuori un campo visitato da una bella rugiada. Grazie a Dio, io non sono così sciocco né così irriverente verso l’istoria che allego, che io pretenda inferire da questa considerazione che il padrone di que’ panni dovesse tenere nella sua cassa de’ Buccheri, come ne tenghiamo noi ne’ nostri studioli; la signora Marchesa per profumare le cuffie e i nastri, io un po’ di tabacco di Siviglia e un po’ di fogli di carta da scrivere. Non crederò già né sproposito, né irriverenza il motivare se a sorte la fragranza di que’ panni si paragonasse a quella del terreno molle, non perché veramente sapessero di questo odore, ma per rialzare quello qualunque si avessero i panni, con dichiararlo simile a un odore, che tra gente di campagna non è punto contro costume il supporre che potesse essere acclamato per il più gentile, il più delizioso, il più nobile di tutti gli altri. Così nell’egloghe introduciamo i pastori a vantare il latte, non il cioccolatte, le castagne secche, non i pistacchi confetti, l’odore del timo e della nipitella, non quello dell’ambra e del calambucco.

Veramente se qui si parlasse d’un giardino sarebbe sofisticheria l’intender d’altro odore che di fiori, de’ quali non sarebbe niente inverisimile, se quel tale si dilettasse di spicciolarne sopra i suoi vestiti. Ma dice «campo»: e i campi, in quanto semplici campi, toltone il tempo nel quale i frutti sono in fiore, e anche a certe ore particolari e a certi riscontri sanno di poco assai. E che qui non s’avessero in considerazione i fiori, lo convince evidentemente quello aggiunto di «pieno», che si al campo, il quale non può mai meno propriamente dirsi pieno che al tempo de’ fiori.

Io, se questa considerazione dell’odore della terra bagnata per il più gentile, il più delizioso, il più nobile di tutti gli odori nell’estimativa di gente di campagna incontrasse gradimento, mi farei forse ardito a passare più innanzi, motivando, se potesse parere non del tutto fuori di proposito il dubitare, se a sorte questo medesimo odore, anzi pur quello di vasi di terra cotta, bagnati, tra gente, non pur di campagna, ma di deserti, avesse una volta meritato d’esser avuto in considerazione per l’uso anche dei più legittimi sacrifizi; giacché nell’Autore della sopra mentovata Istoria si trova che, in alcune oblazioni d’uccelli, quell’uccello che aveva a restar sacrificato si dovesse sacrificare dentro un vaso di terra cotta posato sopra un’acqua viva.

Così succede: molti muoiono poltroni nella prima fazione, che, a esser loro andata bene, non che bravi, sarebbero diventati temerari. Il non essermi andata male affatto in ridurre a Buccheri due o tre luoghi d’autori, mi ha fatto pigliar tanto animo che ora torrei a ridurre a Buccheri tutta l’ambrosia degli Dei, né mi starei punto a confondere nell’appurare se l’ambrosia era cibo o bevanda, o semplice odore, sotto tutti i quali predicati pare che se ne trovino degli esempi. Il Bucchero è tutt’e tre queste cose. Il Bucchero si mangia; il Bucchero, se non si beve, vi si beve: ma si beve ancora, come vedremo. Se poi il Bucchero sia odore, me ne rimetto a chi ha naso.

Avvertite, mi dirà qualche superstizioso grecista, secondo l’etimologia che abbiamo dell’ambrosia, o vogliate quella che ne porta Eustasio sopra il primo dell’Iliade, seguitata dal Vossio, o quella dell’Etimologico Magno: è certo che l’ambrosia era una cosa che non poteva esser cibo degli uomini, e posta onninamente fuori d’ogni commercio degli uomini.

Rispondo: Era, ma da dugentanni in qua non è più; la scoperta dell’America avendo accomunato agli uomini quello che infino allora era stato bandito per la bocca e per l’odorato degli Dei.

Se io non avessi paura di celebrare una ottava troppo solenne della lettera della settimana passata, vorrei adesso far qui un’infilzata di vari luoghi di poeti e d’autori, tanto greci che latini, dove si parla dell’ambrosia, e risolverli tutti per via di Buccheri: ma ci vuol discrezione, e meglio è tardi che mai.




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