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Lorenzo Magalotti
Lettere odorose

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  • LETTERE SU LE TERRE ODOROSE   ALLA MARCHESA OTTAVIA STROZZI
    • LETTERA TERZA   Firenze, 19 luglio 1695.
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LETTERA TERZA

 

Firenze, 19 luglio 1695.

 

L’altra volta promessi alla signora Marchesa d’esser breve, e non fui: questa non glielo prometto, e lo sarò. Vale un bel Bucchero d’India. Ma avverta che, se lo vinco, lo voglio, e sarò inesorabile. Né si creda che io abbia qualche gran vantaggio in questa scommessa, quasi io avessi la libertà di finire sempre che mi pare e mi piace, ricordandole che mi trovo al tavolino con due grandi attacchi: la sensualità di scrivere di quello che scrivo, e l’ambizione di scrivere a chi scrivo.

Io terminai il mio ministero della settimana passata con la cirimonia della tripla graduazione de’ Buccheri a ambrosia, e come commestibili, e come potabili, e come odorabili. Al caldo orribile che fa oggi, non tornerebbe male il ricrearsi con discorrere della seconda graduazione, ma si pervertirebbe troppo il buon ordine. Orsù facciamo così: diamo una mostra generale a tutti i Buccheri: non a tutti quelli che sono sotto l’armi, ma a tutti quelli che ho avuto l’onore d’aver sotto il mio comando, o che ho veduto sotto quello di padroni o d’amici. Presto, e male, già la scommessa è ita.

Secondo che, come ho già detto, a noi tutti i vasi di terre odorose sono Buccheri, e così ogni nuova vena di terre che si ritrovi, la quale abbia un po’ di grazia all’odorato, e se ne formino vasi, ecco subito una nazione di Buccheri di più. Io ho in una mia villa un mattonato di una camera, che per una mezz’ora dopo annaffiata è una cosa graziosa assai. Se quelli incambio de’ mattoni eran Buccheri, buon per loro, o meglio per me, che adesso potrei servire la signora Marchesa d’una compagnia franca di questa nuovi razza di dragoni.

I Buccheri di Sessa, benché non siano la più deliziosa cosa del mondo, pure, secondo che bagnati rendono un sito assai forte, il nome di Buccheri non si è lor potuto negare; e benché a Napoli abbiano preteso di annacquarglielo con l’aggiunta di villani, tuttavia Buccheri sono, e per Buccheri sono riconosciuti e rispettati,

Io era a questi giorni in casa del sig. abate Bassetti, e trattenendomi nella sua bella stanza delle antichità, datimi tra mano certi vasi etruschi di terra cotta, mi venne voglia di provare a metterci dell’acqua. Ve n’erano di quelli che non sapevano di niente, di quelli che sapevano di cattivo, e alcuni d’un coloretto isabella, che erano graziosi assai. Che dubbio? Buccheri, questi ancora, e forse di quelli ne’ quali dice Marziale che Porsena era così sontuoso.

Vi sono alcuni vasi che fabbricano in Sicilia d’una certa terra sull’andare del gesso, ma che tira un poco al cedrino, e sono per lo più sul taglio d’urnette con manichi, e anche senza, d’una fattura assai liscia, e solamente con certe ammaccature, e talvolta, ma di rado, con un poco di lavoro di stecco arabescato, e quasi tutti li ho veduti co’ loro coperchi. Di questi hanno opinione, o sia immaginazione, che l’acqua vi si conservi freschissima anche ne’ caldi maggiori: tanto, se non altro, in odio della gran vampa, che oggi è per l’aria, voglio che basti a noi per erigerli in Buccheri, in recognizione di questa loro o vera o immaginata benemerenza di conservar fresca l’acqua, benché non abbiano odore nessuno, e che non siano stati riconosciuti per Buccheri insino adesso, colpa dell’esser forse più antichi di quello che siano tra di noi le terre di Portogallo che prime abbiamo ricevute sotto questo nome. Il quale se in Portogallo si accomuna a ogni sorta di vaso, io voglio bene che tra di noi sostenga il più che si può, mantenendolo sempre tra terre nobili, ma non voglio già che divenga mercede del solo odore, tanto più che i privilegi hanno sempre ad ampliarsi: che però ogni terra che arrivi a distinguersi o per colore, o per finezza, o per leggerezza, o per altra qualità un poco rimarcabile, voglio che la gratifichiamo di questa fidalghìa. Cinque anni sono, che io era costì, mi abbattei a essere a riverire la signora contessa Laura Marescotti un giorno che da una dama portoghese le era stato fatto un gentilissimo regalo di diverse rarità paesane. Fra l’altre vi erano due orcioletti d’una terra di colore gridellino, assai simile nella superficie e nel lustro a quelle paste delle quali si lavorano i mosaici. Anche queste non avevano odor nessuno, e tutto il loro pregio consistendo nella proprietà di conservar fresca l’acqua, pure questo era bastato a farne considerare due soli, e assai picoli, per regalo degno d’una dama così grande per tanti titoli. A quanto più forte ragione non li stimeremo noi degni del nome di Buccheri?

E quel bel gesso bianco lattato di Malta, che chiamano terra di S. Paolo, e che, oltre all’avere un certo saporetto, che non è niente disgustoso, pizzica ancora un pochetto di contravveleno, che cosa gli manca egli, che abbiamo a non volergli lasciare il suo quarto per il Buccherismo de’ suoi vasi? Se non per altro per far certa finezza al nostro cavalier Del Bene, che la stimerà infinitamente, e forse per gratitudine potrebbe invogliarsi di guarire d’una sua indisposizione, che non può avere altro rimedio che la docilità dell’infermo. Egli è quell’uomo che ognuno vede e che i cortigiani, i soldati, i ministri, e infino i letterati di tutte le nazioni che l’hanno avuto alle mani (che cominciano a esser molte) ne vanno d’accordo. Ma, resti tra noi, gli rimane ancora un gran debole, del quale non lo veggo punto migliorare. Il poveretto non e ancora entrato nel buon gusto degli odori alla moda, e non ha tutta la stima de’ Buccheri che dovrebbe avere un suo pari. Noi altri spesso lo trattiamo di barbaro. Non che in verità lo stimiamo tale, ma per mortificarlo: è ben vero che egli non si mortifica gran cosa. La sua non è puramente barbarie, poiché, o sia avvedutamente, o per disgrazia, alle volte, anche in materia di profumeria, gli scappano delle cose giuste assai. Ell’è, direi io, una finezza di genio capace più tosto di costituirlo nel rango de’ bestemmiatori: Noi altri maestri non lo perdiamo di vista, e travagliamo tutti d’accordo alla sua reduzione, e non tenghiamo consiglio, né conferenza anche ristrettissima, che non gliela facciamo sapere, ed egli sempre che può c’interviene, e ne mostra gradimento, e almeno altrettanto gusto quanto egli ne a noi, perché in verità egli è come Madonna Laura:

 

Morte, bella parea nel suo bel volto.

 

Gli spropositi in bocca sua appaiono giudiziosi, e chi li ode vorrebbe più tosto aver detto quelli, che le belle cose di molti altri. Tant’è, io ci ho buon animo, e se la signora Marchesa gli manda con quest’ordinario il Diploma dell’aggregazione de’ vasi di terra di S. Paolo a’ Buccheri, e lo prega a commetterle a Malta pe’ suoi scarabattoli un paio di chiccherette di questo prezioso magistero (e si ricordi d’esprimersi in questi termini), quest’uomo rimane sul tiro e non basse polso; perché, oltre all’essere egli suscettibilissimo della compiacenza d’esercitare la generosità, con le dame non ha difesa.

Io giuoco che non ci voleva niente di manco della speranza della redenzione del sig. cavalier Del Bene per disporre la signora Marchesa a far grazia della nobiltà a tante generazioni di terre fin ora poco conosciute o poco considerate. Ma ella mi perdoni: la mia politica non è mal tagliata all’esigenza d’un nuovo principato, e principato della natura di questo, dove la conquistatrice va a trovare i sudditi con la spada alla mano, ma i sudditi hanno a venire a trovare la conquistatrice a sedere. Io in questo ammiro il consiglio e il coraggio della signora Marchesa, avendo ella saputo pensare a un modo d’acquistar sudditi, non sovvenuto, che io sappia, ad altri che al solo Cromwel; con questa differenza, che Cromwel non ardì di tentarlo, la signora Marchesa l’ha tentato, e l’è riuscito. Egli ebbe concetto di formarsi in un momento, senza muoversi da sedere da Whitehall, qualche milione di sudditi, e quelli ripartiti nelle viscere degli stati di tutti i principi e di tutte le repubbliche dell’universo, e tutto questo col semplicemente dichiararsi protettore dell’ebraismo in tutte le parti del mondo. La signora Marchesa senza muoversi da sedere dal suo gabinetto ha pensato, e l’è riuscito, l’istesso in riguardo a’ Buccheri, a segno che ella comincia a scarseggiare di colonie dove distribuirli. Ora, a volere che ne vengano di quelli che s’ha aver di grazia d’averli, torna conto l’estendere questa qualità a quelli che hanno aver di grazia d’esser avuti. Se noi ci metttiamo sul rigore di non voler riconoscer per Buccheri se non i vasi di terre odorose, con che titolo hanno a venir le terre rosse dell’Indie orientali per cuocervi il thè, che, quando marciano più alla leggiera, non sanno mettersi in più positivo equipaggio che di boccaglie, di coperchi e di catenelle d’oro? Con che titolo le crete del Giappone, così graziose che i vasi che se ne formano per conservarvi la foglia del medesimo thè, chi n’ha il modo, non la guarda a pagarli le trenta, le quaranta, e spesso fino alle cento mila pezze da otto l’uno, difendendosi i Giapponesi dallo strillo degl’Indiani, e degli altri Asiatici, con domandar loro quale sia pazzia maggiore, o il pagar cento mila pezze una pietruzza, che, dal luccicare in poi, sotto un pennacchino di quattro peli bianchi della coda d’un elefante, non è buona ad altro, e lo spenderle per servizio d’un’erba, che, conservata un po’ meglio o un po’ peggio, può dare o tôrre una ventina o una trentina d’anni di vita? Non rida, signora Marchesa, perché io voglio ben credere che delle cento, le novantacinque mila ve ne siano di malinconia, e che ve ne sarebbero anche tutte le cento, se il thè, che costoro ripongono in questi reliquiari, non fosse altro che di quello che noi paghiamo li dieci, o li sei ungheri la libbra in Amsterdam. Quel thè porfirogenito de’ Giapponesi, creda pure la signora Marchesa che non riconoscerebbe questo per suo fratello bastardo, tanto lo supera in vivacità di colore, in ricchezza di fragranza, e in incantesimo di sapore. Di questo in Europa non ne viene se non di strabalzo, e in questa corte non so che ci sia memoria essercesene veduto più di due once, che il contestabile di Castiglia donò sei anni sono in Madrid al sig. marchese Cosimo da Castiglione per il maggior di tutti i regali, dicendogli che non si formalizzasse del poco, poiché questo era la più sicura autentica della legittimità di quello ch’ei pretendeva di dargli. Il sig. Marchese ne regalò un’oncia al Serenissimo Granduca, e l’altra se la gode co’ suoi amici; e veramente, a quello che mi dicono, vengo in credere che la parola «incantesimo», della quale mi valsi dianzi, sia forse la sola che si avvicini a dir qualche cosa. Parrà che con questo thè io sia uscito del seminato. Non è vero; anche questo ha che fare coBuccheri, perché il contestabile ripartì queste due once in due de’ più perfetti che avesse, e in quelli lo mandò al Marchese, giudicando verisimilmente che un thè rallevato ne’ Buccheri del Giappone non potesse cascare meno da alto che a passare in due Buccheri da Guadalacara.

Oggi o domani che il discredito ogni giorno maggiore de’ medicamenti preziosi faccia venire voglia a’ Portoghesi di Goa o del Brasile di cominciare a rinvestire i bezoari e le loro pietre Gaspar Antonio in collane, in corone, in cavalieri em brinquinhos, perché, escluse dalle fonderie reali, passino con fortuna migliore legate in oro e gioiellate negli scarabattoli delle dame in figura di tazzette, di urnette, e simili arnesi, come mercè all’avvedimento de’ Polacchi è già sortito all’ugne delle Gran Bestie, con che titolo reclameremo noi cose su le quali, per un troppo stretto attaccamento all’odore, ci troveremo d’aver rinunziato anche a un miserabil dritto di bienséance? Chi fabbrica su l’amore, fabbrica sul fango, dice il nostro messer Niccolò in termini poco diversi. Chi fabbrica su l’odore, fabbrica sul vento, dirò io oggi alla signora Marchesa.

Io non dico già che questa monarchia si abbia a estendere insino alla China, incorporando ai Buccheri anche le porcellane. Questo almeno per adesso non si può, e non si deve. Non si può, perché le porcellane, oltre il non avere odore, non sono né anche terra; almeno di quella che s’intende e si chiama terra. Non si deve, perché la signora Marchesa non s’ha a mettere a un’impresa alla quale ogni re ci puolarrivare, e molti ci sono arrivati, e nella quale, per lo meno su i principii; bisognerebbe accomodarsi ad aver per rivale ogni miserabile ostessa olandese. La signora Marchesa non ha a imitare: ella ha a sostenersi in una qualità d’applicazioni che s’abbia a dire di lei l’istesso che in Francia dicevano della già madama: Tout le monde l’imite, et personne ne lui ressemble. E poi: le porcellane sono mercanzia, e come tale hanno prezzo, e questo basta per renderle indegne delle inclinazioni della signora Marchesa. Oh, mi si dirà, si vendono delle cose sacre. E bene? Per tutto questo le cose sacre non diventano mercanzia, e il prezzo che elle si vendono è misura dell’impietà di chi vende, non del giusto valore della cosa venduta.

Più starei in dubbio sopra certe altre terre, in oggi assai rare, poco conosciute, e quel poco sotto ogni altro nome che il loro. Sono certe terre di color verde sbiadato, liscissime e lucentissime, certo non inferiormente alle porcellane, e per lo più poco lavorate. Di queste se ne trovano per le ville negli armadi delle maioliche, e sono per lo più piccoli bacili e boccali, qualche piatto assai cupo, e simili arnesi all’antica, lasciati stare di mano in mano dove si trovano, più in un certo ossequio di chi ve le messe che di quello che elle si considerano, benché verisimilmente quei che ve le messero sapessero molto bene quello che elle erano. Queste in realtà sono egizie, che si cominciarono a fabbricare sotto l’imperio de’ Circassi, detti volgarmente Mammalucchi, e furono chiamate Baba Gauri, voce composta di Baba, che vuol dir «grande» e vuol anche dire «avo», e di Gauri, nome d’uno di quei principi, quello verisimilmente, siasi qualunque si voglia, sotto il quale ne fu ritrovata la fabbrica, e nome in ispecie dell’ultimo soldano, detto ancora Sciampiono, vinto da Selino secondo, imperator de’ Turchi, e che fu dal medesimo spogliato dell’Egitto sul principio del secolo passato. Il volgo lo chiama più correntemente Kamsau, ma quei primi che scrissero delle sue azioni pare che s’accordino a chiamarlo tutti Algauri, l’istesso che Gauri, salvo l’aggiunta dell’articolo; indizio assai manifesto che Gauri sia nome di famiglia, perché gli Arabi ai nomi personali non sono soliti d’apporre articolo. Queste terre sono anche in oggi per tutte quelle parti in stima non ordinaria, a segno che un piatto di tre palmi di diametro varrà benissimo le sue dieci pezze da otto. Come si stiano dentro, io non lo so: cioè se siano per tutta la loro grossezza del medesimo smalto, che apparisce di fuori come le porcellane, o se pure abbiano la loro anima di semplice terra incrostata di smalto. La ragione perché non ho potuto chiarirmene è perché quando me ne sono date alle mani di quelle che averei potuto spezzare non le conoscevo; e dopo che le ho conosciute non ne ho vedute altre che quelle del Granduca, che si conservano tra le porcellane, conosciute per quelle che elle sono.

Ma siasi quello che si pare: ben pensato e ripensato, risolvo che tutto quello che è vetriato e maiolicato per di dentro e per di fuora non si conti per Bucchero. Altrimenti con qual ragione non riconoscere per Buccheri tante stimatissime terre dell’Oriente, come di Turchia, di Persia, di Nicea, di Bitinia, non inferiori all’egizie se non per ragione della prodigiosa quantità, che per esserne le maestranze così in florido ne vanno fuori, potendosi elle chiamare in oggi le terre di Savona dell’Asia e di tutta la riviera dell’Affrica? E per non andare così lontano, che cosa manchi egli alle porcellane di Delft, alle nuove galantissime terre di Siena, introdotte e condotte oramai in tanta perfezione col favore autorevole del sig. marchese Chigi e degli altri signori suoi fratelli, che n’hanno tenuta la fabbrica in Siena, a Centinale e a S. Quirico, che cominciano a non aver più paura di quelle che corrono sotto nome di Raffaello, con l’aggiunta d’esser lumeggiate d’un oro e d’un argento, che, reggendo prima a fuoco, regge poi dopo a tutti quegli strapazzi dell’uso ai quali pare assai che reggano i colori. Senza parlare di quelle di Faenza, di Genova e di Savona e di tant’altre, insino a quelle di Monte Lupo inclusive? Voglio bene, se così pare alla signora Marchesa, che, con pace de’ Buccheri di Ponente, facciamo grazia dell’istesso titolo a due sorte di vasi di Levante. I primi son quelli stessi che di sopra ho chiamati damasceni, fabbricandosi in un villaggio vicino a Damasco, detto Haitha. Alle relazioni che ne tengo, se quelli di Bitinia sono le terre di Savona dell’Asia, questi verrebbero a essere i Buccheri della Maya, commendabili essi ancora per l’odore e pel sapore che esalano bagnati e che comunicano all’acqua che vi si mesce. Il colore è quasi l’istesso, anzi l’istesso appunto di quelli della Maya, e come quelli della Maya la grande abbondanza gli tiene in grandissimo prezzo. I secondi son quelli della Mecca. Questi ancora in tutti quei contorni hanno grande spaccio, e per il Cairo, dove sono in grandissima voga tra le persone di qualità, se ne fabbricano ogni anno degli smisurati. Il colore, almeno l’esterno, o naturale o artifiziale ch’ei sia, nel turchino; l’odore e il sapore, similissimo a quei di Portogallo, e per di più hanno questi ancora la prerogativa, o vera o immaginaria, di conservare freschissima l’acqua, che in un paese, dove non si riponeneve, né diaccio per la state, non è piccola raccomandazione. Per altro assai simile a quelli di Damasco, benché diversi nel nome, quelli, come di già ho detto, chiamandosi Foccar, questi Tabasciriat, numero del più del femminino Tabascirie, la cui radice è il numero del meno del masculino Tabascir, voce arabica nell’uso, e forse persiana nella sua origine. Chi sa che non siano quei medesimi che Ateneo celebra tanto per vasi di Copto, impastati, dice egli, di diversi aromi, e perciò stimatissimi per l’odore in tutta la Grecia?

Come, di Copto - mi pare di sentire rispondere a questo tasto il signor consorte e il sig. cognato - se questi vasi, che voi dite, sono della Mecca, e Copto era un porto della costa opposto all’Egitto? E poi come può mai la fragranza delle Tabasciriat esser naturale di quelle terre, se quelle che loda Ateneo si dicono impastate d’aromi?

Ma rispondo io: Qual sicurezza hanno questi miei signori che Ateneo non possa aver preso equivoco in credere e chiamare vasi di Copto quelli che per avventura erano della Mecca, cioè dell’Arabia Felice, dove, non sapendosi che i Greci abbiano mai avuto altra comunicazione che per via dell’Egitto, qual gran cosa sarebte che, secondo che gli Arabi portavano questi vasi in Copto, per di Copto i negozianti greci gli portassero e per di Copto corressero in Grecia? E i Greci medesimi perché non potevano credere artifiziale un odore puramente naturale? Quanti ci sono che credono naturale l’odore delle lame damaschine? Molto non avranno altri potuto credere artifiziale l’odore naturale d’una terra? Quanti ci sono che, astretti a confessare la soavità dei barri dell’Indie, sono eretici in non voler credere che non vi sia mescolanza o d’ambra, o di mustio, o di balsami, o almeno di bezoar, ingannati dall’opinione che il bezoar, come cosa tanto acclamata dalla più rozza medicina, abbia anco a saper di buono?

E poi che cosa era Copto, che vi si avesse a fabbricar vasi di tanto lusso? Forse per essere un porto famoso? Anche Amtserdam è un porto famoso, e non so che ancora vi si sia fabbricata una pastigliaso se ne fabbricassero in Cadice se non vi fossero monache, o in Lisbona, se non vi fossero e monache e corte. I porti più famosi sogliono esser emporii, non scuole o ingegnerie di delizie e di lussi. E in fatti (per non uscir delle fabbriche de’ vasi) le maestranze delle maioliche più nobili della nostra Italia, e dirò d’Europa, io le ritrovo in Savona, non in Genova, in Faenza, non in Venezia, in Siena, non in Livorno, in Delft, non in Amsterdam, in Talavera, non in Cartagena, in Vigo nella Corugna. L’istesso de’ Buccheri. In Portogallo i più grandi, più nobili e di miglior disegno, in Estremoz, non in Lisbona, o in Setubal. Insino nell’Indie: quei di Cile in Sant’Yago, non nella Concezione, quelli di Costa Ricca, in Nata, non nel Persico, quelli del Messico, o sia Nuova Galizia, in Guadalacara, non in Acapulco; e finalmente nella China le porcellane, almeno le più perfette, in Oveicheu, provincia remotissima dal mare e tutta circondata dai monti.

Ma, lasciato l’esser Copto un semplice porto, e chi erano gli abitanti, per averli noi a credere forniti di questo spirito di galanteria di mettersi a impastar la creta con liquori, con polveri o con gomme odorose? Egizi in vero, ma che Egizi? I più rozzi, i più salvatichi, i più remoti dalla residenza dei prefetti augustali romani, dove in groppa al politico e al militare avevano a rigirare, come sempre succede, il danaro pazzo, l’ozio, il lusso, gli amori, la delicatezza e la svogliatura. E poi Egizi quanto vi pare: si sa quello che finalmente sono gli abitanti di tutti i porti. Negozianti, paesani o stranieri, borghesia, artisti, e poc’altro. Se si trattasse d’Alessandria a tempo de’ Tolomei, delle Berenici, delle Arsinoi, delle Cleopatre purpuree. Ma in Copto, torno a dire, in Copto? E chi aveva a dare in si fatte ipocondrie? Oltre di che, e che aromi si sa egli mai che abbia avuto l’Egitto, onde possa credersi che la gran dovizia abbia in un certo modo tirato pecapelli la gente, per non sapere che se ne fare, a straziarli insino nelle botteghe dei pentolai? Da un poco di balsamo in poi, che al tempo dei Soldani si raccoglieva dalle piante d’un piccolo chiuso vicino al Cairo, in quella parte del suo territorio che si dice la Matarea, delle quali, da che Selino II fece quella visita graziosa al paese, non se ne sa più nuova; io per me non so che l’Egitto abbia mai avuto il suo forte in aromi.

Ma Ateneo, uomo d’un genio così delicato, così curioso, così esatto, volete voi che abbia ignorato la patria di questi vasi? Non l’abbia ignorata. Gli avrà chiamati come li chiamavano gli altri. Non chiamiamo noi arance di Portogallo quelle che sappiamo venire originalmente dalla China? E cera e zucchero di Venezia quelli che sappiamo venire l’una dalla Bosina, l’altro dal Brasile? Buccheri di Spagna quei che sappiamo fabbricarsi nel Cile? E quanto abbiamo noi durato a chiamare polvere del cardinal de Lugo la chinachina, tutto che sapessimo, così bene allora come lo sappiamo adesso, che ella veniva dal Messico?

Più difficile dell’antico nome greco è il render ragione del moderno arabo Tabascir. Per dire qualche cosa, Tabascir chiamano gli Arabi un liquore odoroso, che fa tra i nodi d’alcune canne dell’Indie orientali, il quale, rasciutto o rappreso, depone, e diventa una spezie di gesso bianco, detto dai medici spodio, cioè cenere minuta, forse perché lo vedono polvere e del colore della cenere. Guardavo se a sorte gli Arabi potessero aver chiamato Tabisciriat queste terre per ragione di qualche somiglianza che abbia il loro odore con quello del Tabascir. E di qui passavo più . Noi abbiamo in Ateneo un luogo di Epigene, o sia Antifane, tra l’altre paste da lavar le mani, si fa anche menzione di una terra odorosa, che alcuni usavano in questo ministero. Quale direbbe la signora Marchesa che fosse maggiore sproposito: il macinare i rottami d’un Bucchero di Portogallo per mangiarseli in pastiglie, o quelli d’un Bucchero della Mecca per lavarsene le mani?

Orsù io non aveva promesso d’esser breve, e pretendo d’esserlo stato. Io avevo promesso di dare una mostra generale a tutti i Buccheri, e non l’ho finita, Mi consolo che, se è vero che tutte le indignità abbiano il loro prezzo, molto più dovranno averlo le male creanze che a maggior delitto non vo’ che facciamo arrivare l’andare in otto giorni a parlare de’ Buccheri seriamente. Se la signora Marchesa ama di vedermi giustificato mi paghi con un Bucchero di tal perfezione, che possa dirsi degna occasione e degna scusa e mercede di questo piccolo mancamento, che, a considerarlo poi bene, si troverà esser più tosto una finezza fatta ai Buccheri, che vuol dire alla signora Marchesa. Il fatto sta che mi si meni buona la pretensione d’essere stato breve. Io spero che alla signora Marchesa non parrà di strano che io domandi un giudice, che, oltre a non esser parte, non sia né anche della scuola di quell’arrabbiato Laconico, che, datagli l’elezione o d’esser impiccato o di leggere una sola volta nel Guicciardini tutto il racconto della guerra di Pisa, si elesse il primo. Mi sovviene adesso un ripiego aggiustatissimo. Fermati nell’Isola de’ Fagiani tra il cardinale Mazzarino e don Luigi d’Haro tutti gli articoli più importanti della pace, s’impuntò così fieramente di qua e di sopra una miserabile dependenza della Cerdagna, che, ridotte le cose in istato di rottura, don Luigi cercò il disimpegno nella spedizione d’un corriere a Madrid, protestando di non potere e di non volere arbitrare. Tornò il corriere con la risposta che il Re per la sua parte comprometteva nel cardinal Mazzarino. Io comprometto in monsignore Strozzi. Staremo adesso a vedere.




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