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Lorenzo Magalotti Lettere odorose IntraText CT - Lettura del testo |
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Sapevo che l’ingratitudine era ingegnosa, ma non credevo tanto. La signora Marchesa, che sa molto bene che io la riconosco per tutta italiana nell’accorgimento, per tutta spagnuola nella vivacità, per tutta francese nella galanteria, ha voluto farmi accorgere alle mie spese, che a tempo e luogo ella sa essere ancora alemanna nelle querele. Quando io m’aspettavo un superbissimo barro, legato in oro e forse con qualche piccolo diamanate su i manichi e intorno al piede, se non in pagamento della scommessa, almeno per mancia della cortesia d’essere stato così breve martedì passato, me ne sento chiedere una mezza dozzina per multa dell’attentato d’aver preteso di venderle per finezza la brevità quando si parla di Buccheri. Mi sa male d’averla a lodare dell’iniquità e ad applaudire l’uscita non meno per obbligante che per ingegnosa. Se un terremoto universale fracassasse tutti i Buccheri dell’universo mondo, con subissare in oltre tutte le vene della terra della quale si fabbricano, e che io sopravanzassi a questo eccidio per fare l’orazione funebre de’ defunti, vorrei per la maggiore delle loro prerogative fondarmi tutto sull’essere essi soli stati capaci di fare allontanare dalla generosità e dalla giustizia la signora marchesa Strozzi. Io vorrei in voi una sola cosa, scrisse una volta Monsieur de S. Evremont al Duca di Beuckingam, e ve la desidero di tutto cuore, stimandola per voi preferibile a tutta la scienza dei filosofi e a tutta la gloria dei conquistatori, l’avarizia. Se voi tornate una volta a Londra con pochi servitori e con di molti quattrini, sarete l’ammirazione di tutta l’Inghilterra. Io dalla signora Marchesa, come dotata d’un virtù troppo maggiore di quella del Duca, pretendo molto più. Un poco meno d’avarizia in materia di Buccheri. Se ella viene una volta a Firenze con tutto lo spaventoso equipaggio de’ suoi Buccheri, e ritorna a Roma con un solo di manco, ella sarà l’ammirazione, non dirò di tutta l’Italia, che questo lo è di già, ma di tutta la Spagna e di tutta l’America ancora. Andiamo ai Buccheri. Qui sarebbe tempo una volta d’uscir di baie, e di cominciare a entrare seriamente nella materia. Ma, come io scrissi a monsignore Strozzi questa quaresima, quando mi comandò di mettere insieme qualche notizia de’ Buccheri per dover servire a un trattatello, a una dissertazione, a una lettera, a tutto quello che io avessi voluto, questo è un assunto che, a chiunque ci si mette, stimo che tornerà sempre meglio il pigliarla su l’aria di segretario di gabinetto di dame, che d’istorico naturale; mentre, essendo queste lettere appannaggio più tosto d’una delicatezza un poco sensuale, che d’una curiosità un poco erudita, e come tale passando più spesso di madre in figliuole, che di padri in cadetti, ne viene in conseguenza che, chi ne possiede in maggior copia, se ne vale più per uso di delizia che per occupazione di studio. Di qui nasce che, per molto che la sottigliezza della curiosità del secolo presente abbia fatto vagare gli uomini di lettere intorno a tutto quello che di più pellegrino e di più galante si è nuovamente introdotto in Europa, dei Buccheri nessuno si è avvisato o ha creduto che vaglia la pena di scrivere. Il solo Martino Wogel, medico amburghese, spirito dei più delicati che io abbia conosciuto, e amicissimo mio, in una addizione che andava preparando all’Istoria Naturale di Ferrante Imperato, ebbe concetto di parlare di questi vasi, e nel tempo che io stetti malato in Amburgo di passaggio alla Corte di Svezia, il maggio del 1674, in un’ampia raccolta di cose naturali dell’Indie Orientali e Occidentali, mi fece vedere diversi rottami di Buccheri di varie sorte, su le quali egli andava facendo le sue osservazioni. Io col motivo di servire a Monsignore ho ora fatto far diligenza in Amburgo, per sapere dagli eredi di lui in che grado egli avesse lasciato quest’opera; e da una serie di titoli, che mi hanno mandato, cavata dagli assortimenti de’ suoi manoscritti, mi sono accorto che ell’era appresso a poco come l’avevo lasciata vent’anni sono. Di stampato, a non contare quell’otto righe a numero, che ne mette l’Aldrovando, non trovo e non so esserci altro che quel poco che ne dice il Padre Antonio de Vasconcellos della Compagnia di Gesù nella sua Descrizione del Regno di Portogallo; e secondo che ci fa l’istoria del regno e non quella de’ Buccheri, così se ne sbriga egli ancora in poco più di una facciata, ristringendosi a parlare solamente de’ naturali del paese. Vero è che quel poco che ei ne dice, lo dice a maraviglia, e con tanta grazia, e con tanta proprietà, con tanto lecco, che non è l’infima gloria de’ Buccheri il vedere quello che hanno potuto influire di scherzo e di gentilezza nel genio d’uno scrittore per altro gravissimo e religioso. E tanto che si direbbe che egli avesse scrupoleggiato sull’uso della propria galanteria, avendo parlato con tanta sobrietà d’un soggetto di sua natura così gentile che, nell’istesso tempo che gli metteva innanzi l’occasione di prevaricare, glie ne somministrava ancora la scusa. Perché, a dire ’l vero, pare che questo buon sacerdote abbia sdegnato di considerare i Buccheri in altro stato che in quello, dirò io, della loro innocenza, e prima che le delizie dell’Oriente e dell’Occidente trapassassero a corrompere negli animi de’ nipoti de’ conquistatori quella rozza onestà degli antichi Portoghesi. Di qui è che, tacendo il Padre de’ tanti abusi che la svogliatura della curiosa moderna sensualità ha trovato la via di fare della semplicità di queste terre, si è contentato di parlare unicamente dell’uso più naturale e più innocente del bervi l’acqua: delizia stata sempre, dice egli, così prediletta del genio della nazione, che Strabone la chiama divoratrice dell’acqua. Onde, soggiunge, non è da maravigliarsi se, essendo i Portoghesi così ghiotti di questa bevanda, siano ancora così vaghi di berla in vasi di terra, parendo loro in questa forma d’accostarsi quel più a succiarla in quella più illibata verginità in cui scaturisce dalla vena. Ora veda un poco la signora Marchesa che bel fare sarà il mio avendo a parlare seriamente d’una materia, si può dire, non ancora trattata da altri: che vuol dire che, per molto che il mio genio e la mia curiosità m’abbiano dato campo d’impararne qualche cosa di più d’un altro, può darsi il caso che mi succeda l’istesso che ad Alessandro Magno, quando, trattenendosi a discorrere con Apelle della pittura, mentre stava a vederlo dipingere nella sua bottega, si sentì dire dal maestro che per vita sua si chetasse, poiché quei ragazzi, che stavano macinando i colori dietro alle sue spalle, si facevano tanto di bocca d’alcune cose ch’ei diceva della professione. Voglio dire che, dopo aver io sciorinato magistralmente tutta la mia scienza buccheresca, può esser benissimo che una monaca, per non dire una conversa del monastero della Baronessa di Madrid, intendentissime sopra tutte l’altre di questi vasi e dell’arte di profumarli, se mai leggessero per disgrazia una di queste lettere, mi facessero le fischiate dietro. Ma siasi come si pare, per fare una finezza a una dama si può bene avventurare un piccolo désagrément da una monaca, che, oltre al poter essere essa ancora una dama, è sempre una religiosa. Io crederei che si potesse fare la prima divisione generale de’ Buccheri, propriamente detti o almeno considerati universalmente per Buccheri, in due classi: d’Europa e d’America. Vediamo prima di quelli d’Europa. Questi escono quasi di Portogallo e, per quanto si vogliano attendere le loro denominazioni, possono distinguersi in sei o sette spezie, le differenze di alcuni altri consistendo più nella diversa qualità del lavoro che in quella della materia. I primi, secondo l’ordine delle precedenze stabilite tra essi dal Padre Vasconcellos, sono quelli di Lisbona, oggi detti generalmente della Maya, da un artefice di questo nome: non del primo che osservò questa terra e che s’avvisò di formarne vasi, ma bensì del primo che ne migliorò la fabbrica, lavorandoli con un poco di buon gusto e con qualche galanteria, la quale si è poi andata e si va tuttavia raffinando. Se ne veggono con manichi, e senza. La loro proporzione per lo più è de’ vasi da bere: la figura, tonda, e con un poco di corpo: la tenuta (intendo sempre la più comune) di due libbre in circa: l’ornato, quando l’hanno, o qualche riga in giro, o un po’ di scannellattura o d’ammaccatura assai regolare; il colore, di mattone né del più rosso né del più bianco; un colore che tira al carnicino; e per assomigliarlo con maggior proprietà, quello della terra sigillata meno accesa: l’uso più corrente, l’istesso che di tutti gli altri, che è beverci acqua pura, essendo pretta barbarie in delicatezza il bere acque conce ne’ Buccheri, e sacrilegio il profanarli col vino. La maggior prerogativa di questa terra è l’odore soavissimo, che scopre bagnata. Odore di che? Odore di questa terra: non saprei come lo descrivere altrimenti. Quello dei barri d’India, per la sua ricchezza forse mi rincoro di poterlo adombrare un poco più intelligibilmente; ma questo è un alito così semplice, che non mi dà l’animo di rassomigliarlo ad altro che a sé medesimo. Commedia non è, tragedia non è: una bella cosa è, disse il Tasso del Pastor Fido, subito finitolo di leggere la prima volta. Di fiori non è, di spezie non è, d’aromi non è: una gentile, una soave cosa è, dirò io nel caso presente. Mi sovviene adesso una similitudine, la quale credo anche d’aver toccata in un’altra mia, ma più in digrosso, e non tornerà male lo sminuzzarla qui, potendo servire di fondamento all’intelligenza de’ diversi odori di tutte queste terre. Io considero adesso nella grande spasa de’ gomitoli e degl’ignommeri (per dirlo alla romana) delle sete che sono sul telaio, dove ricamano le damigelle della signora Marchesa, la scala de’ turchini. Se io volessi metter in testa a un cieco nato, che avesse recuperato la vista allora allora, la specie del perlato senza mostrarglielo, io non potrei dare aiuto più valido alla sua fantasia per farle infantare questo parto, che con mostrargli il turchino più cupo di quella scala, e poi dirgli: «Immaginatevi che questo colore vadia schiarendo via via, senza però mai perdere una certa languida somiglianza con se medesimo; e quando siete tanto innanzi, che vi paia che a chiarire un tantino più non sarebbe più quello, questo è il perlato». Per mettere in testa a uno, che non abbia mai sentito Buccheri, qualche specie dell’odore di questa o di quell’altra sorta di essi, considero ancora io come una scala dei diversi odori di tutte queste terre, se non che in cambio di servirmi dello scuro per dare ad intendere i chiari, mi servirò d’un chiaro, che si trova da per tutto, per dare ad intendere gli scuri. Per questo chiaro, che in questo caso vorrà dire il più semplice, io metterò innanzi quello tanto celebrato, e del quale parlai così a lungo nella mia seconda lettera, che cava dalla terra abbruciata e polverizzata dai soli della state una spruzzaglia d’acqua in sul tardi, quanto basti più tosto a inumidirla che a bagnarla, e resti subito. Con questo chiaro e con questo semplice sotto gli occhi, o, per dir meglio, sotto il naso, io dirò adesso al mio barbaro nato, ma che desidera d’ingalantominire:«Immaginatevi che la semplicità di quest’alito, e se volete di questo tanfetto grazioso, vada via via soavizzandosi, ma sempre su quell’aria d’odor di terra, e quando siete a un certo segno che, a soavizzare un tantino più, dal soave passerebbe al ricco, questo è il Bucchero della Maya, né solamente della Maya, ma appresso a poco si può dire di tutti gli altri di Portogallo, niuno de’ quali pare a me che esca della categoria del soave». Come s’entra nel ricco, siamo subito in quelli d’India, de’ quali dirò adesso, per non averlo a dire un’altra volta, che, per quanto cresca la loro ricchezza, non s’intende mai che si smarrisca nelle loro esalazioni qualche vestigio dell’esser terra; per modo che in tutto quello spartito di tanfo, di grazietta, di grazia, di soavità, di odore, di fragranza, di incognito indistinto, la terra sia il basso continuo, non esclusone l’istesso Bucchero di Natan; nel quale, per molto che il terreo si trovi aromatizzato, esaltato, volatilizzato, eterizzato, e, se piace alla signora Marchesa, divinizzato ancora, pure ei c’è sempre; quasi (diciamo questa ragazzata ancora) questo gran monarca de’ Buccheri affetti la superba umiltà di quel tiranno di Sicilia, che, tra le tazze d’oro e gioiellate delle sue bottiglierie, ci volle sempre una ciotola di terra cotta, lavorata nella bottega di suo padre, per ricordo non so se più a sé o agli altri (se pure non fu un mistico presagio della monarchia dei Buccheri) da quel mestiero egli fosse passato a quello di conquistatore dell’Affrica. Hanno poi questo di particolare, tra molti altri, questi Buccheri della Maya, che reggono al fuoco: che però si usano per profumo, tenendoli sui bracieri come i pomi e cazzolette d’argento, e sul lume dentro le profumiere co’ soliti ingredienti e acque d’odore a bollire, stimandosi la galanteria, come mi par d’aver detto in una delle mie precedenti, di ridurre a profumo la profumiera medesima; sentendosi assai distintamente in quel coro pieno degli odori, che vi bollono dentro, quell’eco, dirò così, della fragranza della terra. Vero è che a volerla distinguere bisogna mettere odori che abbiano un poco di discrezione, ricordandosi che finalmente non è altro che un poco d’alito di terra; onde bisogna che gli altri personaggi, che compariscono su questa scena, si contentino di reggere la parte più debole, perché possa farsi un poco d’onore essa ancora. La prima volta che io sentii questa sorta di profumiera fu a Brusselles, l’anno 1669, in occasione che passandovi io malato d’Amsterdam, per raggiugnere il Granduca in Parigi, donna Florenza de Ullhoa, una dama portoghese grandissima maestra d’odori, come figliuola d’una madre fatta nella vecchia scuola dell’infanta Isabella, mi regalò uno di questi Barri bello e preparato, per rendermi più delizioso il viaggio, con servirmene sull’osterie. Non v’era altro che un poco di polvere di pastiglie bianche da fuoco, tre o quattro garofani rotti, una striscetta di scorza di limone, mondato sottile quanto un velo, e otto o dieci pezzetti di Bucchero con tant’acqua di Cordova quanto bastava a coprire queste cose. Il coperchio era un semplice foglio di carta a doppio, traforato con un punteruolo. In fe’ buona che non si poteva sentire cosa più delicata, e tanto che questo è rimasto il mio profumo corrente e più favorito, non so se più per la gentilezza dell’odore o per quella della spesa. Quanto ci ho aggiunto per nobilitarlo è stato un cerchietto d’argento o di metallo dorato intorno alla bocca del barro con un coperchio traforato; e, per poterlo portare innanzi e indietro senza che le polveri escano da’ buchi del coperchio, ci metto una laminetta di piombo, che vi rimane fermata dall’incastro del coperchio medesimo. Un’altra sorta di profumiera a freddo cavava da questi barri la vecchia Marchesa di Castel Rodrigo, che piaceva assaissimo al gran genio tutelare degli odori, il Duca di Montalto, che fu poi Cardinale di Moncada. La ricetta è questa: Si pigliano parecchi rottami di Buccheri, o della Maya o d’India, e inzuppati bene bene in acqua naturale si rinvoltano in pelli d’ambra e, rasciutti che sono, si tornano di nuovo a inzuppare e rinvoltare, e si dura a far questo gioco insin tanto che siano ben conditi e imbevuti dell’odore dell’ambra. Preparati in questa forma, si mettono in un vaso della Maya, e si ricoprono d’acqua di Cordova, ma non tanto che vi restino affogati, convenendo che l’ultimo suolo, né tutto rimanga scoperto, né tutto peschi nell’acqua; perché così si sentirebbe l’odore dell’acqua e non quello della terra, che è quello che ha da galleggiare. Ben vede la delicatezza del gusto della signora Marchesa, che questo non è un profumo da chiesa, né da una sala d’un festino, e molto meno da inverno, essendoci di bisogno del veicolo dell’aria calda, la quale, a misura che va rasciugando la terra e l’acqua, se ne imbeva prima per sé, e poi ne regali gli spettatori. Ma per un gabinetto, e tenuto sopra un tavolino, dove si stia a scrivere ne’ giorni più caldi della state, mi creda la signora Marchesa che non si può sentire cosa né più graziosa, né più soave. Si fanno anche di questa terra bottiglie, urnette e altri vasi di maggior tenuta d’un Bucchero ordinario, per tenervi a profumare più bevute d’acqua a un tratto, col vantaggio di poterle turare. Io mi son valso di questi vasi l’inverno per cazzolette da acque semplici, come di triboli e di fior d’arancio (che dopo l’acqua di Cordova mi par che siano quelle che legano meglio l’odor dal barro), per tenerle a svaporare su le ceneri calde, abbandonando questi vasi dalla mattina alla sera alla discrezione d’un braciere, più sicura di quella d’un servitore che abbia a andare a ogni poco a rinfonder acqua sopra un pomo ordinario: che se rimane in asciutto, s’abbrucia la pasta, e ’l profumo d’un giorno va in malora in un momento. I barri che il Padre Vasconcellos mette in secondo luogo sono quelli di Montemor, il nuovo castello assai grosso della provincia d’Alentejo. La qualità della terra, il colore e l’odore quasi i medesimi di quelli di Lisbona, o della Maya: che però della Maya potrebbero chiamarsi ancora questi, se non quanto escono un poco di quella assoluta semplicità per ragione di certe pietruzze bianche, grosse come grani di miglio, le quali, impastate insieme con la terra, come s’impastano gli anici nella pasta de’ biscottini, vengono a restare, altre sepolte nella profondità, altre scoperte, ma però nell’istesso piano della superficie de’ vasi. Da questo mosaico rado e slegato, e di durezza maggiore della terra che lo tiene insieme, nasce una facilità maggiore di ripulire e di rifiorire questi vasi, smarrito che abbiano con l’uso frequente del maneggiarli il colore e l’odore, mentre nel passarli con la pomice queste pietruzze servono come di regolatori alla mano, acciocché affondando, dove più e dove meno, non ne restino alterati i contorni, e col portar via della vecchia superficie, scoprendosene di mano in mano dell’altre, i vasi sono sempre più belli e più odorosi che mai. Quelli d’Olivenza e di Sardoval non differiscono in altro da questi nell’essere d’una terra un po’ più materialetta, e all’istessa proporzione è ancora più grosso il loro mosaico. Questo svantaggio però non lascia di portare un vantaggio per un altro verso, mentre, a misura che la terra più zotica non s’accosta così bene e non sigilla così perfettamente con le superficie irregolari di quelle pietruzze, ne nasce che l’acqua, cacciandosi pe’ ripostigli di quella pasta artifizialmente spugnosa, oltre il difendersi meglio dal calore dell’ambiente, pesca più a fondo, e in conseguenza ricava più ricca e più vergine la fragranza della terra. Quelli d’Aveyro e del Pombar hanno il loro forte nel colore, che è un vermiglio naturale, simile a quello del belletto. Una volta in questi due luoghi v’erano le migliori maestranze: in oggi non saprei. Dell’odore non ne sento parlare né dal Padre Vasconcellos, né da altri. Se ne fanno ancora in Portogallo certi dei bianchi come gesso, ma di tanto poco odore che non invitano a bere e non se ne fa gran caso. Stimattissimi, all’incontro, sono quelli di Viseu, o d’un luogo (salvo il vero) del suo territorio, tra la Vouga e il Mondego. Questi sono d’un colore nero così morato, che, se la povertà dell’odore non facesse loro la spia, per poco si torrebbono in cambio da quelli di Natan, imitandoli per altro assai ragionevolmente in tutte l’altre cose. «E muta nome perché muta loco», dice Dante del vento, essendo finalmente una medesima aria che li fa tutti. L’istesso può dirsi di quei Buccheri, che in oggi chiamano d’Olandiglia, di Cambray, di paglia o d’erbe, i quali tutti, essendo della medesima terra, mutano di nome perché mutano di loco. Tutti questi nomi convengono in primo luogo a quelli di Lisbona, che, lavorati all’uso ordinario, si chiamano della Maya; l’unico requisito che hanno d’avere, per venire abilitati a questa denominazione alla moda, consistendo in un’estrema sottigliezza. E tutto il mistero è fondato in aver applicato loro per questa ragione i nomi delle due tele le più sottili che si conoscano in Ispagna e altrove ancora, che sono quella d’Olanda e quella di Cambray, che però i molto sottili si chiameranno d’Olanda (Olanda semplicemente chiamandosi in Ispagna non solamente la tela d’Olanda, ma ogni tela sottile), e i sottolissimi di Cambray; e così, a tradurre questi nomi litteralmente, costì in Roma si direbbe Buccheri d’Olandetta e di Cambraya, e qui in Firenze d’Olanda e di tela batista. Stante questo, ben vede la signora Marchesa che il dritto che pare che abbia così unicamente il distretto di Lisbona di poter fabbricare questa qualità di Buccheri, non è altro che quello che ha la Fiandra di poter fabbricare questa qualità di tela; questa un lino capace di filarsi, quella una creta capace di tirarsi a una estrema sottigliezza. E vaglia a dire il vero, è cosa maravigliosa il vedere come li hanno ridotti in oggi, arrivandosi a un segno che il cristallo e l’argento stesso ci perdono. S’abbatte ancora a concorrere in questa terra, oltre la finezza, la superiorità dell’odore, che contribuisce a che non le pianga addosso la fortuna di fare in oggi così gran figura. Così, tra per la finezza e per la fragranza, essendo questi vasi i più appetitosi per bere, ne segue che, penetrandoli l’acqua come un foglio sugante, servito che hanno due o tre volte, e spesso alla prima, o cascano a pezzi o perdono quel primo fiore che li rende così deliziosi. Questi medesimi barri, lavorati di dentro e di fuori, o da tutte due le parti, a uso (non so come meglio spiegarmi) di peli di can barbone, sono quelli che si chiamano erbe, o d’erbette o di paglia e m’imagino che chi li battezzò a questa foggia, si figurasse che dalla superficie liscia di questi vasi spunti come un musco, che rivesta o in tutto o in parte, o vero che, voltolati così molli sopra un mucchio di paglia trita, rimangano come impellicciati di quei tritumi. Il fatto si è che la maggior o minore proprietà dell’uno e dell’altro di questi nomi dipende dal capriccio dell’artefice, il menar loro per il dorso lo stecco più in una maniera che in un’altra, vedendosene in tutti i modi. È pur vero che la maggior parte mi pare che abbiano più del peloso che dell’erboso o muscoso, e meno che di nulla dell’impagliato: e se io avessi avuto a dare il mio voto nella destinazione di questi nomi di guerra, forse che per sostenere un certo decoro, più tosto che chiamarli in nessuno di questi modi, avrei opinato che dovessero chiamarsi criniti, se pure non mi fosse nato scruopolo di funestar l’idea di una cosa tanto amabile con un attributo così proprio delle comete. Da questa maniera di lavoro, che forse da principio non fu altro che capriccio, è poi nato l’acquisto eventuale della delizia. Questa si ricava principalmente da quei vasi che hanno la loro cavità lavorata a questa foggia; o almeno hanno nel fondo una nappa, o matassetta della medesima terra, così stracciata in fila, nelle quali insinuandosi l’acqua, dopo che nel bere si è sorbito quella che riempie la capacità della tazza, l’altra comincia a filare, o, per dir meglio, a stillare da tanti gemitii quante sono le sfrangiature della nappa suddetta, allungando così e ricrescendo con quello stento il gusto d’una nuova maniera di bere come per lambitivo: regalo non disprezzabile per dame e per malati, quando però si riducano a bere più per vizio che per sete. Siccome, o che il rustico di quest’ornato, con eccitar la specie d’una pila di fonte rivestita naturalmente di musco o di giunchi, ha fatto sovvenire, come dissi dianzi, il chiamar questi vasi d’erba, o che il nome d’erba, dato loro a caso, ha servito a farli considerare per tante pile di fonte a quel modo vestite, così è succeduto che gli artefici con un simil concetto si sono avvisati d’aggiungervi, così di dentro, come di fuori, un secondo ornato confacevole a questa idea, col formare, tra questo musco o tra questi giunchi, botte, ranocchietti, pesciolini, lucertole, biscie, e altri animali soliti a stare in luoghi paludosi, pensando più in questo caso a salvare il costume che a vezzeggiare l’immaginativa. Restano adesso i Buccheri d’Estremoz, ai quali il Padre Vasconcellos, forse prevedendo l’attacco che dovevano dar loro alla coda quelli dell’Indie, per far onore, ha dato la retroguardia. Io, senza pregiudicar loro il posto farò far alto per oggi a questa marcia per non affaticar di vantaggio la signora Marchesa, che riverisco intanto umilissimamente. |
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