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Lorenzo Magalotti Lettere odorose IntraText CT - Lettura del testo |
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Mi rallegro con la signora Marchesa. E viva. Questa può dirsi una vittoria veramente feconda, perché, oltre la reputazione dell’armi, si tira dietro la conquista d’uno stato. Una vittoria simile, a Reno, o tra Sambra e Mosa, farebbe un gran servizio alla politica imbarazzata, che senza un filo d’una forzosa necessità da una parte o dall’altra vuol durare delle fatiche a uscire de’ suoi laberinti. Ma vorrebbe essere così netta e così decisiva, come è stata questa tra Volturno e Sebeto. Capperi! Trecento Buccheri d’India, prigioni di guerra con la signora Marchesa a sedere nel suo gabinetto vagliono bene trecentomila Saracini disfatti tra Loire e Cher, con Carlo Martello alla testa delle sue truppe; intendo poi che dalla battaglia d’Arbella in qua non si sia veduto equipaggio così sontuoso come questo. Non solamente la generalità e gli uffiziali di prima piana, ma infino a de’ moschettieri, tutti coperti di filagrane di Spagna, d’argento e d’oro. Ora tant’è, come io scrissi al sig. Marchese, che egli è stato il primo a favorirmi dell’avviso di questo incontro per espresso, io vorrei cominciare a pensare ogni volta a mutar questo titolo di protettrice dei Buccheri in qualche cosa di più. Questi nomi, quanto son buoni da principio per affidare, per cansar odio, altrettanto riescono rovinosi da ultimo, quando il negozio è già fatto; perché quello che a suo tempo par moderazione, fuori di tempo s’interpreta per debolezza. Poco poco più che Cromwel fosse campato, l’avremmo veduto ribattezzarsi. Io non vorrei meno del titolo regio, essendo finalmente certo che a scartabellare l’istorie si troveranno dei re che hanno posseduto meno terre ne’ loro regni, che non ne possiede la signora Marchesa in quello di Cile e nella Nuova Spagna. O torniamo adesso un poco in Portogallo. I Buccheri rossi d’Estremoz, se si avesse aver riguardo alla figura che hanno fatto trenta o quarant’anni sono in Italia, meriterebbono il primo luogo; se a quella che fanno presentemente alla corte di Spagna, l’ultimo. Io li costituisco in un ordine più degno assai assai: e ciò per una certa venerazione che ho loro, come a’ primi stati conosciuti di qua da’ monti, e per una certa gratitudine, come a quelli che ci hanno aperto gli occhi a distinguere e condizionato il naso e il palato ad assaporare la grazia di queste terre, ammaestrando a poco a poco i gusti più delicati e alla moda a trovare il regalo, dove i più grossolani e all’antica, dopo tant’anni di scuola, non raffigurano altro, anche al dì d’oggi, che il materiale della creta. A dire il vero, certo che noi altri Italiani abbiamo fatto troppo onore a questi Buccheri, ricordandomi io essermene stato chiesto in Firenze trent’anni sono insino a una mezza piastra dell’uno; ma direi che anche i signori spagnuoli glie ne avessero fatto troppo poco. Gli uni e gli altri però siamo stati compatibili. Noi, perché, oltre al venirci di 400 leghe di lontano, non avevamo meglio; essi perché, oltre all’averli su la loro frontiera, avevano quelli dell’Indie. Di qui è che, quando il Granduca passò per Estremoz, il sig. marchese Corsini, il sig. marchese Guadagni, il sig. Paolo Falconieri, ed io, risoluti così su due piedi con somma generosità a fare un negozio di Buccheri, e lasciate sei doble in mano a non so chi del luogo, restammo sbalorditi, quando, al nostro arrivo in Amsterdam, di ritorno di Inghilterra, sentimmo da una lettera di mio fratello l’arrivo in Livorno della nave che aveva caricata in Lisbona la nostra mercanzia, e il riparto già da lui fatto in quarto de’ Buccheri, de’ quali ne toccavano non so se ventisette dozzine per uno di varie grandezze, oltre una grandissima cesta de’ rotti, che al nostro arrivo in Firenze furono spartiti con esattissima puntualità essi ancora, e fu su questi che facemmo il nostro guadagno maggiore, perché gl’intieri a poco a poco li abbiamo donati tutti, e de’ rotti ce ne siamo serviti a far polvere da denti, pastiglie da bocca, a condire cazzolette, cunziere, e dieci altre cose utilissime; ed io per di più mi servii d’una quantità de’ miei per istillare a tamburlano, e ne cavai un’acqua galantissima per fare all’improvviso acqua concia per bere. Questi Buccheri d’Estremoz sono come i cani moscati di Polonia e di Boemia, che quando nascono sono tutti bianchi, e poi a poco a poco buttan fuori le macchie nere o lionate. Così questi da principio son bianchi, e poi diventano rossi non di loro cortesia, ma di chi li fa, mettendoli prima di cuocere, anzi prima che finiscano di rasciugare, in infusione in un bagno di terra rossa, tantoche imbevano la tinta per tutta la grossezza. Questa funzione del bagno l’ho per economia, immaginandomi che la vena della terra rossa sia meno ricca di quella della bianca; ché, essendo altrimenti, potrebbono gettar la campana tutta d’un pezzo, con formarli a diritttura tutti della rossa. Non voglio già credere economia un’altra sottigliezza che veddi usare nel dar loro il bagno; che era di darglielo in due volte, servendosi di certi vassoi, o schifi, così bassi che, a quelli almeno che m’abbattei a vederli tuffare, il livello non dava più su che a mezzo: onde tinti, per esempio, dal mezzo in giù, per finirli di tingere ve li abboccavano da quell’altra parte. Secondo che io allora non aspiravo a consegnare all’immortalità il mio nome nella preziosa custodia d’un Bucchero, non fui curioso di domandare della ragione di questa bagnatura a stento. Adesso però che vi rifletto, mi vado immaginando che non sia tanto risparmio di terra quanto di fatica del colare la terra; perché questa, insinuandosi meglio nelle più minute disuguaglianze delle esterne superficie de’ vasi, li abiliti ad acquistare, unitamente col colore, liscezza e lustro. Quelli fatti espressamente per il servizio più usuale e più comodo del bere, sono appresso a poco come hanno a essere tutti i vasi da bere tra tutte le nazioni: lisci e lavorati; con manichi e senza, e tutti, pare a me, senza piede, posando sopra il loro fondo spianato quanto basta perché vi si reggano sicuri: in una parola, l’istesse grandezze, gli stessi ornati di quelli della Maya. Da questo servizio in fuora, non credo che siano al mondo, non dirò semplicemente barri, ma terre di qualsivoglia sorta, dove si veda maggiore varietà di cose, maggior differenza di grandezze, e maggior irregolarità e stravaganza di figure; perché qui, oltre le tazze, le ciotole e infine le chicchere da thè e da cioccolate, vi sono bacili, boccali, fontane, fruttiere, tondi, tondini, urnette, bottiglie, guastade, anforette di cento invenzioni. E poi guantiere, scrignetti, bauletti, cantimplore, tabacchiere, scatolini, scarpe, scarpini, pianelle, in una parola, tutti gli utensili d’una casa, quelli però che possono ordinarsi a uso di tenere e di conservar acque, e tutte queste medesime cose che, fabbricate nella debita proporzione servono per uso degli uomini, imitate e rifatte in piccolo piccolissimo, servono per balocco de’ bambini, in qualità delle suppellettili della bambola, o sia pupazza, alla romana. Solamente da pochi anni in qua veggo venire diversi animali di goffissimo disegno, come quelli di porcellana che vengono dalla China, e come quelli fatti, cred’io, per tenere sugli studioli, e son per lo più leoncini, cagnoli, pecorelle, uccelli di più sorte, toccati quasi tutti, o, per dir meglio, impastricciati di bianco e di turchino e toccati d’oro, che a me paiono una porcheria, levandosi con questo barbaro ornato tutto quello che ha di buono questa terra, che consiste in quella finezza, in quella liscezza e in quella vivacità di colore. Il sig. abate Régnier de Marais, quel povero cavalier francese ridotto all’infelicità di non rinvenirsi più né egli né gli altri qual sia la sua lingua naturale tra la greca, la latina, la francese, la spagnola e l’italiana, in una canzona che ha fatto in ossequio della signora Marchesa in lode de’ Buccheri in generale, descrive la gran varietà di questi, particolarmente d’Estremoz, nelle seguenti strofe:
Né in tante volle Quante addivien che questa Gentil terra figure e forme vesta. Ov’odor grato a ber le dame invita.
Per rispetto verso i Buccheri, ma molto più per buona creanza verso la signora Marchesa, io lascio di parlare d’un altro genere di vasi, che ho veduto di questa terra, e dei quali mi glorio e mi vergogno insieme d’averne tenuto uno al mio servizio, nel tempo che mi trattenni in Yelues su la frontiera di Portogallo, che fu due mezzi giorni e una notte, dove un mercante portoghese, chiamato Franco de Braz, stato molti anni o egli o suo padre, salvo il vero, in Livorno, prevenne l’alloggio per il Granduca nel Convento dei Padri Domenicani, mobilando non solamente il quarto per S. A., ma le camere destinate per la gente del suo seguito, tutte secondo la debita proporzione con una splendidissima galanteria. Mi dichiaro di tacere il fasto in questa lettera; ma non mi prometto già d’avere tanta moderazione da lasciar di registrarlo tra i fasti della mia casa, mettendo questo vaso a capo all’ingiù por timbre su l’arme, e forse nell’albero medesimo sopra il mio nome: che siccome ne sarà l’ultimo, così non tornerà se non bene il farlo vedere, in concorrenza de’ berrettoni consolari, condecorato del maggior lustro che questa pianta abbia avuto dopo che, sbarbata di sotto le rovine di Fiesola, fu trapiantata nella pianura tra Mugnone e Arno. «Ma perché non metto io il peso, e non fo gola a’ ghiotti della posterità?»: dice Seneca, parlando d’una sterminatissima triglia di scoglio, che fu veduta in Roma al tempo di Tiberio. «Una triglia di scoglio (séguita immediatamente) di quattro libbre e mezzo.» Perché non dirò anch’io, infin da adesso, che vaso; e non fo invidia a’ più appassionati amatori de’ Buccheri, viventi e avvenire? Un vaso da... Io lascio considerare a chi ha fiore di delicatezza che maraviglia, che gioia, che vanità e che confusione insieme fu la mia, quando, alzata quella prima cortina orizzontale di dommasco verde, frangiato d’oro, e successivamente il coperchio di quella degnissima custodia, apparve l’inaspettato tesoro di quella murrina occidentale.
I’ non morii e non rimasi vivo,
dirò con Dante: ma non già così fuor di me che non mi restasse tanto conoscimento da detestare quella sacrilega munificenza del de Braz, e da correre a far avvertite le mie camerate perché non precipitassero inavvedutamente a profanare in qualche modo la preziosità di quel vaso. Di qui credo che il signor Paolo Falconieri, così barbaro come egli è in tutto quello che è delizia anche innocente de’ sensi, spaventato niente meno di me di quell’indegno pericolo a cui l’inconsiderata finezza del de Braz aveva esposta la nobiltà di quella terra, per redimerla in qualche modo da quell’uso obbrobrioso, s’avvisasse di destinarla a un altro tanto più nobile, quanto si è il servire all’intelletto di scultori insigni nella figurazione d’eroi sacri e profani. Che però, giunto questo buon cavaliere in Estremoz con la pietà, che ancora l’accorava, dello spettacolo veduto in Yelues, considerata l’estrema sottigliezza a cui vedeva ridur quella creta; anche col grossolano avventato maneggio di quelli artefici e la docilità con cui ella riceveva piegature ancorché aspre e crude, così in fuori come in dentro, senza dare apprensione non che apparenza di screpolo; la giudicò incomparabile sopra ogni altra terra; avvegnaché raffinata da lunga macerazione, per formare modelli di figure particolarmente vestite di panni fini secondo la maniera greca, e, presane dalla cava una quantità della vergine, ne fece una cassa e la mandò a Roma, per farne poi al suo ritorno un accettissimo regalo al Bernino. Nel disegno di questi Buccheri d’Estremoz, senza stare a consultare il gusto greco e il romano, né il moderno più regolare, non c’è gran cosa. Osservo però che, tale quale egli è, universalmente piace. Bisogna considerarlo in genere di vasi per un nuovo ordine d’architettura, e considero adesso che un pedante sarebbe il più contento uomo del mondo se gli sovvenisse di chiamarlo ordine lusitano, per abbracciare col senso litterale d’una simile denominazione il paese dove si fanno, e con l’allusivo, lo scherzo, il capriccio, la bizzarria in che consiste tutto il forte di questi lavori. Il descriverli adesso tutti con la medesima esattezza con la quale Plinio descrive alcuni fiori, sarebbe un’opera un poco lunghetta, perché, descritto un giglio, sono descritti tutti, ma descritto un Bucchero, è descritto quello solo, potendosi dire in questo caso che tante sono le specie, quanti gl’individui. Che pero mi basterà il dire che il genio universale di queste manifatture consiste in uno o più corpi, che, a misura che i vasi vanno più in alto, vanno sempre diminuendo, come ne’ balaustri, e che la varia modanatura di questi corpi si rigira nell’indentro e nell’infuori, che vuol dire nell’ammaccature e in risalti, comprendendo in questa generalità anche le scannellature, che sono quello che vi è di più singolare. Alcuni se ne veggono ancora con certe rabescature, graffiate con lo stecco; siccome ancora certi piccoli incavi tondi, ovati e bislunghi, fatti così in pelle in pelle, come se su la superficie del vaso ancor fresco si fosse andato calcando via via una stampetta di ferro, come quelle de’ librai per calcare l’oro su le coperte de’ libri. Io rido da me da me, considerando che io parlo d’una manifattura viva e che fiorisce in Europa per via di conietture, come potrei parlare di quelle che si fanno nella China o nel Giappone, o d’una manifattura morta, come de’ vasi etruschi o di terra samia. Mi starebbe il dovere che questa mia lettera si mandasse a Estremoz per riscontro della verità, e che qualcheduno di quei pentolai me la facesse stampare tutta postillata con le sue critiche. Ma come s’ha egli a fare? Tirare innanzi e dire quello si sa, o che si crede, e lasciarci pensare alla signora Marchesa. Ve ne sono ancora de’ traforati, o in tutto o in parte, secondo gli usi. Trafori però assai semplici e andanti: e senza entrare in fogliami di gran maniera o altro che richiegga forza, o gusto di disegno; rosette, stelluzze, mostaccioletti e altre figure facili, come quelle che si fanno ne’ colli e sui pomi delle profumiere. Questi la state non fanno male sopra uno studiolo, sopr’un tavolino, pieno il corpo d’acqua, e nella parte traforata, o sia il collo o il coperchio, tutti commessi di gelsomini: ché, se bene questi non toccano l’acqua, in ogni modo la frescura sempre tanto quanto trapassa anche nella parte asciutta e n’avanza, per mantenerli freschi tutta la giornata. Ho anche veduto alla corte di Vienna delle dame portare di questi Buccheretti d’Estremoz attaccati al petto con un poco d’acqua, con quattro giunchiglie, o mughetti, o garofani in fresco, come le nobili Persiane vi portano una bussoletta d’oro smaltato, e talora gioiellata con dell’ambra grigia, che chiamano il pozzo dell’ambra; e sovvenendomi in specie della contessa di Harrach, mi do ad intendere che ella potesse averne portato la moda dalla Corte di Spagna, dov’era stata tant’anni, né solamente statavi, ma rallevata in palazzo da figlioletta al tempo dell’ambasciata del Conte di Lombergh, suo padre, e poi ritornatavi ambasciatrice col conte suo marito. Già mi pare d’aver detto a bastanza che l’istituto fondamentale di questi vasi è per uso del bere, a cagione della doppia delizia che vi si trova. La prima, quella fragranza e quel saporetto di terra che ne riceve l’acqua. La seconda, una certa burletta graziosa che questa terra inumidita fa alle labbra, appiccandosi loro gentilmente, senza che esse se ne accorgano prima che allo staccarsi. Che però chi n’è pratico, per moltiplicarsi questi baci scherzosi, in una stessa bevuta stacca più d’una volta la bocca dall’orlo del Bucchero; che quanto più è nuovo, tanto più è panioso e tegnente; e nel seguitar la mano che vuol allontanarlo dalla bocca, prima di lasciar la presa, si strascica dietro il labbro di sotto più d’un poco, e nel lasciarla fa uno scoppietto che pare il bacio dell’addio. Benché noi altri in Italia riserbiamo ordinariamente questo regalo alla state, in Portogallo l’usano tutto l’anno e, secondo quello che ho veduto e udito, mi pare che vi si consideri per un mezzo disordine, tanto in regola di sanità che di galanteria, il ber acqua in altre tazze che di queste terre; e la sera particolarmente a cominciare dal Duca di Cadaval insino al più miserabile fregateyro che viva sul Tago, guarda che uno se ne andasse a letto senza o seu pucaro de agua, considerato per il sigillo più prezioso non meno della giornata che della cena. Noi entrammo in Portogallo del mese di gennaio, e, con tutto questo, mi ricordo che quando talvolta, per istrettezza d’abitazione dove posava il Granduca, venivamo alloggiati in qualche casa particolare, benché non ci riducessimo al quartiere se non dopo cena, appena entrati in camera, eccoti il padrone di casa con un gran Bucchero d’acqua sopra una sottocoppa, come se si trattasse d’una bevanda di paradiso da non fidarsi alle mani di servitori. Il secondo uso di questi vasi suol essere per l’ornamento e per la delizia, tenendoli per le camere, su le tavole particolarmente di marmi, come gli altri vasi d’argento o di porcellana, benché questi qui in Italia non siano ancora così generalmente introdotti, come in Francia, in Inghilterra e in Olanda, considerandosi tra di noi le porcellane più per arnesi da gabinetti che da camere di parata. Vero è che non bisogna poi fare come fanno certi falsi delicati, che tengono i Buccheri in mostra tanto di state che d’inverno, e sempre aridi assetati, che, più tosto che ricreare nel tempo de’ caldi maggiori, mettono sete. Io non dico che s’abbiano a tenere sempre pieni d’acqua o bagnati, sapendo ancor io che non v’è delizia che con l’uso continuo non lasci d’esserlo: oltre di che, a lungo andare, bagna bagna, l’odore se ne va, e bisognerebbe rinnovarli ogni quattro giorni. Dico bene che bisognerebbe almeno mostrar di sapersene servire, usandone qualche volta a modo e a verso; il che consiste in farli empiere sul mezzogiorno, e poi su quelle diciannove ore, quando uno si desta, farli votare, annaffiando le stanze con quell’acqua medesima: ché, tra l’odore di questa e quello che dura a esalare dai vasi che rimangono benissimo bagnati insino alla sera, si fa un fondo prezioso a qualunque altro odore, o di cunzie odi fiori, che sia nelle medesime stanze; e questo si chiama sapersi servire de’ Buccheri da onest’uomo. A questo proposito non so se la signora Marchesa abbia mai udito parlare della famosa Boveda del Cardinal di Moncada. Era questa una spezie di sotterraneo, che egli aveva cavato nella sua casa di Madrid, espressamente con animo di fare un luogo da regalarvisi su l’ore abbruciate della state per sé e per gli amici. Con occasione di dir dei Buccheri non pare che sia tempo buttato il dire di tutta la mobiliatura di questo ritiro, che non ha niente, niente di paura del gabinetto d’una dama. Mura bianche, senz’altro ornamento che di specchi. Gran tavolini di marmo: sopra, vasi da fiori freschi, e i fiori di mano in mano tutti i più odorosi della stagione: sotto, più tosto bagni che catinelle di cunzie di più maniere di conce, e tutte sobresalientes. Nella facciata principale un grandissimo armadione nel muro, dalla volta al pavimento, con diversi palchetti. Uno tutto Buccheri di India, un altro della Maya, un altro d’Estremoz, e uno di porcellane, ma tutte scoperte e tutte piene d’aceti e di acque di fiori della maniera che sapeva fare il Cardinale. Alle finestre, cortine di tela d’Olanda: e sopra il letto una coperta di pelli d’ambra traforate, con fodera d’ermisino colorato, e non m’assicuro bene se le portiere ancora non fossero della medesima stoffa. Tra le due e le tre della sera, quando il Cardinale era per destarsi, Francisco, un suo aiutante di camera, rallevato da ragazzo per la profumeria, scendeva nella Boveda con due o tre siringoni d’argento alla mano; uno d’aceto, e gli altri d’acque alterate ricchissime; e lasciate pur fare a lui. Non solamente all’aria, ma ai fiori dei vasi, ai Buccheri (a quelli però di Portogallo solamente) e alle cortine delle finestre, come i barcaroli olandesi alle vele delle piccole barche, perché tengano meglio il vento, in somma una nebbia perpetua infinché non era fradicio ogni cosa: l’aceto poi solamente sul mattonato. Fatta questa funzione dell’asperges, s’apriva il gran tabernacolo, che, come mi disse il Marchese di Grana, che è quegli che mi fece tutto questo racconto, era veramente una gloria: e allora scendeva il Cardinale con quello o con quell’altro amico di genio, col quale voleva passare el buen rato in una liberissima conversazione, come può argomentarsi dalle prime parole che ei disse al Marchese la prima volta che ve l’introdusse, che dovett’essere la state del 68, ch’ei tornò a Madrid inviato dall’imperatore: Ea pués murmuremos aquí de todo el universo mundo. Insin qui ho scritto la vita e i miracoli de’ Buccheri d’Estremoz vivi; scriviamone adesso i miracoli dopo morte; e sia loro tutto il dispaccio di questo giorno, sicuri che, quello che si dice adesso un poco più diffusamente di questi, si riguadagnerà in parlare degli altri che rimangono giacché, mutatis mutandis, sono poi tutte le medesime cose. Il primo è quello che ho accennato di sopra dell’acqua che mi riuscì cavare dai cocci di quelli provveduti sul luogo, distillandoli con l’istesso misterio col quale si distillano i gelsomini. Questa viene chiarissima e tanto odorosa, che non solamente in bevanda, come dirò adesso adesso, ma anche sopra un fazzoletto si raffigura per quel che ell’è. Volendola più ricca, un bottoncino di mustio, legato sotto il beccuccio del tamburlano quando distilla, fa il servizio. Secondo: la concia delle pelli. In Brusselles l’anno 73, avendo io contratto amicizia con Francesco Mercader, quell’aiutante di camera e profumiere detto di sopra del Cardinal di Moncada, che serviva allora il Duca di Montalto, suo figliolo, che serviva il re in quell’esercito, feci alcune poche bagattelle, che avendole mandate al Granduca incontrarono gradimento. Per un par di guanti la ricetta sarà: barro fino d’Estremoz del più odoroso, una dramma: mustio fine, due: pestati insieme in mortaio di bronzo, si macinano su la pietra, impalpabili, con una dramma di zibetto, e tant’acqua di fior d’arancia quanto serva a mantener morbida la pasta. Questa si distende sui guanti da diritto, che impiegandovela verranno assai ricchi, e poi, rasciutti che sono, parecchi giorni di fiori secondo il gusto o la stagione; ma i fior d’arancio sono quelli che legan meglio con questo barro. Terzo: per condimento delle cunzie, tanto in pezzetti, quanto in polvere. Io non m’impegnerò a sostenere che in quel coro pieno dell’aceto e di tant’altre polveri s’arrivino a discernere i passaggi dell’odore del Bucchero, mettendo conto di molte volte in queste materie il camminare in pura fede. Dico bene che avendo anche il Bucchero il suo odore, è certo che dall’esserci o non esserci ha da fare qualche differenza, che non può essere se non in bene. Quarto: venendo adesso al potabile e al commestibile, ritorna in scena l’acqua detta di sopra. Una mezza cucchiarata di questa in una giara d’acqua fredda, preparata con lo zucchero farà un’acqua di Bucchero bianca assai gentile. La rossa liscia non si può fare, perché, essendo finalmente terra e, come tale, non riducendosi mai a fusione, dà subito in fondo, lasciando l’acqua più tosto velata del suo colore che profumata o condita del suo odore o sapore. A garapegnarla è un’altra cosa, mentre nel continuo rimaneggiare che si fa, quando l’acqua comincia a rappigliarsi perché venga unguento e non vetro pesto, quella polvere, che nell’acqua liscia darebbe in fondo, rimanendo presa tra il gelo, viene a colorirlo d’una tinta così gagliarda che non si distingue da un sorbetto di cannella e ben carico di colore. Anche in questa preparazione un tantino di mustio e d’infusione di fiori non fanno male. Quinto: le pastiglie da bocca. La dose del Cardinal di Moncada è questa: a sei once di zucchero fine, quattro dramme di barro e una di mustio. O vero a dieci once di zucchero, due dramme di barro e un denaro e mezzo d’ambra. Sesto: fravole, latti, saporetti, panlavati, capponi di galera, bianchi mangiari, in una parola tutti i servizi freddi di credenza di questa natura, ne’ quali tutti, o puro o alterato con altri odori, e sempre con la conveniente dose d’un poco di giudizio e di discrezione, si può esser certo d’andare a far bene a colpo sicuro. Con questo, che per tutte queste cose il barro sia non solamente ben pesto e passato per setaccio fine, ma di più benissimo macinato su la pietra, perché, come arriva a sentirsi sgretolare sotto il dente, diventa subito una cosa odiosissima e che fa raccapricciare. Ma a chi non piace il Bucchero? A chi non piace il Bucchero, suo danno. O lo lasci stare, o trovi modo che gli piaccia, e a questo ancora ci s’arriva. Ma non bisogna andarsene dietro all’immaginazione. Bisogna disfarsi de’ pregiudizi d’un naturale o ruvido o sprezzante, provando e riprovando, studiando e ristudiando tanto che s’arrivi a scoprire quel tesoro nascosto di regalo che ci ritrovano alla bella prima certi gusti privilegiati della natura. Quante altre cose da principio non piacciono, anzi fanno positivamente nausea, e poi da ultimo fanno gola? Il caffè, il thè, l’istesso cioccolate. Ecci egli Italiano che assaggi la prima volta la birra e non la sputi? E l’ela, la cocchela, il mede, il sidro, e tant’altre bevande inglesi, e l’huggard, specie anch’essa di birra, così detta da un villaggio dove si fa nel Liegese, che ha il privilegio d’imbriacare solamente dalle ginocchia in giù, e il mom di Bronsvick, che Mylord S. Alban, l’uomo il più delicato d’Inghilterra, antepone ai vini più delicati di Toscana, e l’aloxa di Spagna, per non parlar de’ vini di Neckar, di Mosella e di Reno, de’ quali dica il sig. marchese Strozzi quello che gliene parve la prima volta, e che bocche non ci fece. Mi piacciono veramente certi gusti regolari: fare lo schizzinoso a mettersi in bocca un pezzetto di Bucchero, e poi avventarsi a una cresentina, stata a ricevere in una leccarda la pioggia d’oro delle budella d’una beccaccia con tutta la spezieria che vi sta riposta, o, per assaporarla più vergine, masticarla cruda in un’ostrica. Vorrei che mi si dicesse qual privilegio abbiano gli escrementi di queste bestiacce, che Dio sa di quello che si nutriscano (che della beccaccia si sa pur troppo), per rendersi così deliziosi a chi ci fa poi le querele a un poco di bolo polverizzato. Opinione, opinione d’opinioni, e ogni cosa opinione; fuori che l’esser io tra’ servitori della signora Marchesa il più ossequioso di tutti. |
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