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Lorenzo Magalotti
Lettere odorose

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  • LETTERE SU LE TERRE ODOROSE   ALLA MARCHESA OTTAVIA STROZZI
    • LETTERA SESTA   Lonchio, 23 agosto 1695.
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LETTERA SESTA

 

Lonchio, 23 agosto 1695.

 

Buon pane, buoni vini, buone frutte, buona aria, questi, diceva il Granduca Ferdinando, sono i tesori delle nostre zone temperate. L’argento, l’oro, le perle e l’altre gioie, queste sono toccate alla torrida.    

Diciamo, signora Marchesa, anche noi: lo scherzoso, il grazioso, il gentile, il salubre, il ricreativo, queste sono le prerogative delle terre della nostra Europa. Il nobile, il ricco, l’aromatico, il maestoso, l’indistinto, il vitale, il mirabile, questi sono toccati a quelle d’America.

Diciamo ancora in termini più stretti: che tra le miniere dell’odore corre l’istessa proporzione che tra quelle dell’oro.

Quelle di Spagna, nel grado almeno che sono in oggi, non so che diano altr’oro che alcune poche pagliuole, che le pioggie dilavano da qualche montagna e che la povera gente va a trascerre tra la rena de’ torrenti dopo passate le piene, che si fa conto ne cavino assai miseramente quello che basta per pagar loro la giornata. Quelle dell’Indie ognuno lo sa, e non occorre dirlo.

Più tosto occorre dire che odore sia questo delle terre dell’Indie Occidentali: non per insegnarlo alla signora Marchesa, che l’ha sempre così presente alla immaginativa che lo sente anche dove ci non è: ma per farla giudice, se mi riesca di corrispondere all’impegno che presi con le passate: che mi sarei rincorato di rappresentarlo in modo da eccitarne qualche specie anche in quelli che non l’avessero mai sentito.

Quando ciò mi sortisca, io non sarò per questo un grand’uomo; essendo sempre più facile il trovar che dire sopra i ricchi che sopra i poveri; la ricchezza, o sia la potenza, essendo subito un gran capitale di lode, e influendo non so come in far parlare con accerto chi ci si mette.

Le terre odorose d’America, e per conseguenza i Buccheri che se ne formano, convengono con quelli d’Europa in questo, che, battendo tutta la loro differenza dal più al meno, tutti però in generale cadono sotto l’istessa categoria di fragranza; onde resta solamente a vedere del costitutivo di questa fragranza.

Di tanti che in Italia, in Francia e in Ispagna si sono dati l’onore di rendere ossequio al genio della signora Marchesa, in comporre in lode de’ Buccheri d’India, ella vedrà dalla raccolta delle poesie che le mando stasera in un piccolo libro, già consegnato in una scatola all’ordinario di Genova, che per quel che risguarda il rappresentare al vivo il genio, diciamo così, della loro fragranza, il sig. abate Anton Maria Salvini è stato, se non più accorto, almeno più fortunato certamente degli altri, avendola dipinta in un solo verso di un sonetto con tre colpi veramente da maestro:

 

Che di gentile austeritade avvampa.

 

So che la signora Marchesa lo noterà subito, e son sicuro che sarà dalla mia.

Gentile: questo dice tutto il soave. Austeritade: questo dice il nobile, il ricco, e nello stesso tempo l’aromatico, che per natura si tira dietro il balsamico e il vitale. Avvampa: poter del mondo, questo termine in un odore a freddo, che cosa non vuol egli mai dire? Vuol dire la forza, la gagliardia, l’attività, l’avventarsi. Vuole infino dire la terribilità, attributo consecutivo alla maestà e alla maraviglia. E finalmente il complesso di tutt’e tre queste parole insieme mette evidentemente davanti all’immaginativa l’indistinto. Dopo questo comento, io, quanto a me, confesso che non ne so più; onde se mi sarò fatto onore, me lo sarò fatto con la roba d’altri.

E che sia il vero, quando io per dire qualche cosa di mio volessi adesso aggiugnere che degli odori conosciuti in Europa niuno s’accosta più ai Buccheri d’alcune vernici della China e del Giappone, quelle particolarmente che venivano quaranta o cinquanta anni sono.

Per tutto questo non direi niente che il sig, abate Salvini non l’abbia detto in queste tre parole. Perché: e che cosa è egli mai, per vita della signora Marchesa, l’odore di queste vernici? Un misto d’odori di diverse gomme ricche e aromatiche, risolute in qualche spirito gagliardo, analogo a quello del quale ci serviamo noi per fondere il belgioi, e altri ingredienti su quest’andare per contraffar quest’istesse vernici, che è lo spirito del vino. È vero che le nostre non sanno di quel che sanno, o, per dir meglio, che sapevano l’indiane, delle quali io ne ho ancora due studioli dove, tenuto casualmente l’anno passato alcuni vasetti scoperti di manteca di gelsomini, questa tra i fiori e la vernice prese un odore così potente, così bizzarro e così confortativo che, fiutata al buio, si sarebbe presa in cambio da un Bucchero nero. Ma chi sa quello che mettono nelle loro vernici gl’Indiani? A Venezia, dove in oggi se ne lavora assai bene, benché non abbiano che fare con quelle che fanno a Londra, a confronto delle quali le indiane hanno delle brighe a difendersi, o si voglia per il morato, o per la lucentezza, o per la maestria d’incastrarvi quelle scagliole di conchiglie d’India, o per la doratura, o per la perfettissima imitazione dello storpiato disegno indiano, certa cosa è che a Venezia, dico, hanno cominciato a metterci del mustio. Cominciamoci anche noi a cacciar dell’ambra grigia, e ad arricchire l’acqua arzente, dove s’hanno a fondere le gomme e i balsami, con ricche infusioni di limature d’aloè, di calambucco e d’altri legni preziosi: ecco subito una ricetta di vernice da smaccare le frangipane, le nèrole e tutte le conce più sontuose. Certa cosa è che a conietturare la fragranza d’una concia di vernice di questa fatta sul piede di quella de’ miei studioli, ci avvicineremo assai assai al vero odore d’un perfettissimo Bucchero nero.

Mi favorisca adesso la signora Marchesa. Se noi daremo questa vernice, per ora immaginaria, a uno scatolino di calambucco vero e legittimo, di a qualche giorno non verrà egli come a feltrarsi per di sotto in su per quella sottilissima vetrina nera, tutta impastata di profumi, la fragranza del calambucco, e non si scoprirà ella col tempo, tanto che si raffiguri, serviamoci di questa strampalatissima allegoria, per il gravicembalo regolatore di tutta quell’orchestra odorosa? E se in cambio di darla a uno scatolino di calambucco, la daremo ad un altro scatolino tornito d’una creta, la quale anche asciutta mandi fuori perennemente un effluvio simile a quello che manda fuori il terreno ricotto dal sole e poi spento con una spruzzaglia di acqua, col tempo questo effluvio terreo non si farà egli strada per quell’incrostatura al pari dell’alito oleaginoso del calambucco, raffazzonandosi esso ancora di tutte le gale di quella vernice, con rimanere però egli sempre il padrone di tutta quella festa? Ora facciamo conto che quella concia di vernice che noi daremo allo scatolino di creta, la natura, gran maestra d’odori, la dia di sua invenzione e di sua cortesia alla creta, della quale è formato lo scatolino medesimo, e avremo ritrovato la ricetta della concia, che vuol dire il costitutivo della fragranza di tutte le terre odorose d’America.

A chi si lasciasse infilzare dalle ciarle, potrebbe facilmente parere che io avessi detto qualche cosa di più del sig. abate Salvini. Ma la signora Marchesa, che non ha di bisogno di tanti comenti, s’avvede benissimo che con tutta questa diceria io non ho detto niente di più di quello che ho detto di sopra in quella prima glosa interlineare breve breve, e che siccome in quelle quindici o venti parole non feci altro che spiegare le tre del signor abate, così adesso in queste quattro o cinquecento non ho fatt’altro che spiegare quelle quindici o venti, onde questa non è altrimenti una spiegazione dell’odore de’ Buccheri d’India, ma semplicemente una più diffusa dilucidazione di quel primo strettissimo comento fatto alle tre parole del sig. abate:

 

Che di gentile austeritade avvampa.

 

Il mettersi adesso a pretender d’indovinare quali possano essere gl’ingredienti de’ quali si serve la natura profumiera per conciar queste terre, sarebbe un volerne troppo. Non perché ancora non mi desse l’animo di dir qualche cosa da appagare, ma perché, dopo averne appagato gli altri, so che non appagherei me medesimo, e molto meno la signora Marchesa; perché, quantunque in genere di conce, a forza d’un lungo braccheggiare col naso, mi sia riuscito a’ miei giorni il ritrovar di gran cose, tuttavia quest’istessa esperienza, che mi ha facilitato lo scoprire moltissimi ingredienti d’un composto tenuto dall’inventore in gran mistero, m’ha anche insegnato esser talora facilissimo il pigliare de’ granchi grossi assai; e ciò per li strani giuochi di mano che fanno bene spesso gli odori semplici, quando vengono a mescolarsi con altri.

Per esempio: ce ne saranno di quelli che, mescolati con dieci cose, sono sempre quelli. Mescolati con una sola di quelle medesime dieci, e talvolta fuori di quelle medesime dieci, non lo sono più. Talvolta quella che li trasfigura rimane nel suo essere riconoscibilissima, benché migliorata, e talvolta si trasfigura essa ancora, risultando dalla reciproca metamorfosi di tutt’e due una terza nuova creatura, alle volte riconoscibile e alle volte non riconoscibile, né indovinabile, anzi assolutamente ineffabile.

Ecco. Io una volta messi a stillare a caso in campana di piombo de’ fior d’arancio tutto fiore e mezzi appassiti, come quelli che li avevo fatti raccorre di sotto gli aranci d’un mio boschetto che avevo qui in Firenze. A questi ci aggiunsi non so che pugnetti di foglie di fior d’arancio, secche all’ombra l’anno innanzi, e piú, alcune poche scorze secche di cedrato. Signora Marchesa, io ne cavai un’acqua, che, abbruciata su la paletta, faceva un fragranza mista di fior d’arancio e di giacinti; ma il giacinto vi si sentiva così spiccato e così gagliardo, che, a entrare in quella camera al buio, si sarebbe detto che vi fossero i giacinti a fasci. Andate adesso che uno, sul fondamento di dire: «A costui è riuscito il cavare quest’acqua dai giacinti, mi ci voglio provar ancor io», cominciasse a arzigogolare in distillar giacinti, che bello spasso sarebbe il suo!

Per non uscire dei giacinti, io ho avuto un paio di forbicette di Francia, che a smoccolare una lucerna con esse e nettarle ben bene, a odorarle a quel mo’ calde, si sentiva il giacinto così naturale che non si poteva desiderare di vantaggio. Come diamin trovaste voi questa ricetta? Il bisogno di smoccolare, e il non avere sul tavolino lo smoccolatoio, mi fece ricorrere allo stuccio di tasca per la più corta. Che privilegio s’avesse quel ferro o quella tempera, io non lo so; so bene che non fu mia immaginazione, perché queste specie inaspettate non si eccitano, e queste bugie sciocche non s’inventano.

Da dodici a quattordici anni in qua, che ho graduato a ritiro un magazzino da grasce vicino alla mia villa di Belmonte, in quella casa non ci s’è sentito mai niente; solamente l’autunno passato, in due camere, dove abito l’inverno, cominciò a sentirsi uno spirito di vainiglia così vivo, particolarmente quando è stato chiuso un pezzo, e sull’ore calde, che ognuno che c’entri non s’immaginerà mai altro se non che io ci abbia una cassetta di vainiglia per fare il cioccolate: mi si dirà che se non ce n’è adesso, ce ne saranno state in altri tempi: sì, ce ne sono state, perché in quelle camere ci si è preso il cioccolate di molte volte, e sempre che ci ho villeggiato ne avrò avuto qualche libbra in un armadio, che è in uno stanzino dietro alla camera dove dormo: ma lo spirito che ci si sente adesso è di vainiglia schietta, non è di cioccolate, e questo è l’imbroglio. È vero che in quell’appartamento ci si è fatto di molto odore: ma che odore? Polvere di radice di rose, di palo d’aquila, lagrime di ginepro, anime, e qualche volta, ma di rarissimo, un barro della Maya con quattro pastiglie tenute a bollire in un po’ d’acqua di fiori; e quasi del continuo un vaso di cunzia, che, come odore poco da inverno, il più del tempo si tien coperto.

Ora, che lavoro si possa esser fatto di questi odori dall’inverno dell’anno di , o più tosto da tant’anni, che poco o assai ho abitato in queste camere: che impastamenti aerei, che allianze, che matrimoni invisibili possano esser seguiti tra questi fumi, tra queste esalazioni, non esclusone quelle che possono considerarsi uscite da due vecchie soffitte d’abeto, dagli usci e dall’imposte delle finestre di castagno, dai telai di noce, dalle mestiche delle tele, dai colori delle pitture, dalle fascine e dalle legna che vi si sono abbruciate e, per non lasciare indietro niente, dal fumo delle minestre che vi si sono mangiate, onde abbia avuto a nascerne questo figliuolo così assolutamente irriconoscibile per di nessuno del parentado; io per me non lo so, e non me lo so dare ad intendere. Se pure non si volesse dire che queste conce venturine fossero come quelle piante che si veggono germogliare in alcuni luoghi, dove si sa di certo che nessuno ce ne può aver portato il seme. Che vuol dire che quel seme v’era, Iddio sa da quanto tempo innanzi, e che per venire a merito ha avuto bisogno di tutta quella lambiccata preparazione che ha potuto ricevere dalle varie successive disposizioni del terreno, e di quella fortuita temperie che è corsa nell’aria quell’anno che è finalmente scoppiato in vermena. Io non intendo già per questo che in quelle camere vi fosse racchiuso qualche alito vero e legittimo di vainiglia; perché io, che so appresso a poco chi può aver abitato quella casa da che venne in Europa la prima vainiglia, scommetterei non che la casa, la possessione, che nessuno ce n’ha mai portata. Qui intendo solamente per seme di questo nuovo odore tutto quel complesso d’esalazioni, dal quale, dopo una lunga gravidanza, può esser uscita questa nuova inaspettata creatura. Quante innumerabili generazioni d’agrumi semplici sono passate di madre in figlia, prima che nascesse quella famosa pianta su la quale apparve poche decine d’anni sono in Toscana il pomo ermafrodito, intarsiato di limone, di cedrato e d’arancio, chiamato volgarmente «bizzarria»? Molto non potrà nascere dalle varie accidentali preparazioni di diversi odori un odor semplice, se dalle varie accidentali digestioni d’un sugo semplice ha potuto nascere un pomo composto?

L’ambra, non solamente mescolata con questo o con quello ingrediente, ma anche sola, dall’esser data semplicemente in un modo o in un altro, che differenza non fa ella? Quando io ebbi l’onore d’andare a servire il Granduca a Vienna sul principio del ’75, che l’Imperatrice Claudia era gravida per la prima volta, mi fu dato per ricordo che io mi guardassi come dal fuoco dal portar mai odore addosso, particolarmente dell’ambra, perché questa, tanto all’Imperatrice quanto alla Serenissima Archiduchessa sua madre, era mortale, e tale veramente era stata infino allora; che però avessi cura che non seguisse qualche pazza scena, onde l’inviato del Granduca avesse avuto a andare sulle gazzette per autore d’un mal parto. Io so che non contravvenni mai al ricordo; ma so ancora che in capo a pochi mesi, nel tempo appunto che l’Imperatrice era in parto, inteso la Maestà Sua, una sera, da certe dame, che io le avevo regalate di pastiglie di Bucchero, se ne fece dare, e assaggiatele, le piacquero tanto che la mattina me ne fece chiedere dall’Arciduchessa, che n’aveva, pare a me, assaggiate essa ancora. Io, udito il fatto, ebbi a cascar morto, e fu tale la mia turbazione che la Serenissima indovinatasi quello che era: «Dite il vero, mi disse, c’era dell’ambra». «Serenissima sì, risposi, e di molta.» Ella non volle farci l’astuta, come avrebbe fatto qualchedun’altra con dire: «Me n’ero ben mezzo accorta», ma mi confessò ingenuamente che né meno per ombra; benché ci avesse osservato una certa ricchezza da più che da semplice barro e zucchero. «Ma aspettate, mi disse, voglio dirlo all’Imperatrice.» Glielo disse, e l’Imperatrice le confermò l’ordine: io obbedii, ella ne mangiò a tutto pasto impunemente, e, fattosi animo, mi mandò un par di guanti perché dessi loro la medesima concia. Io gliela detti: l’Imperatrice li portò con grandissima soddisfazione. E così, diasi gloria al Bucchero, con la mediazione armata della sua misteriosa domatrice fragranza, fu conclusa in poche settimane la famosa pace di Vienna tra un’Imperatrice e un’Arciduchessa da una parte e l’Ambra dall’altra.

Io non so se costì in Roma sia stata ancora proclamata la pace di Parigi, conclusa medesimamente tra l’Ambra e le dame di quella Corte. Non può essere che la signora Marchesa non sia informata della dichiarazione di guerra che fu fatta a questa potenza quindici o vent’anni sono con la cessazione d’ogni commercio in tutto quel regno a cagione di certo attentato del quale la poveretta fu più tosto indiziata (per non dire calunniata) che convinta. Per non entrare adesso in una discussione odiosa, basti alla signora Marchesa di sapere come saranno adesso tre anni che il sig. baron Ricasoli, inviato straordinario del Granduca a quella Corte, mi commesse delle pastiglie di cedrato con gelsomini. Io gliele mandai e, smaltite con un applauso grande sotto l’aura del cedrato, venne di a poco la seconda commissione. Io stetti religiosamente negli ordini: solamente in un piccolo involto a parte ne mandai alcune dozzine con l’aggiunta d’un poco d’ambra, avvisando con la dovuta ingenuità l’amico del contrabbando. Il sig. Barone col suo zelo per il miglior servizio delle dame, e voglio anche credere con qualche cortese riflesso di giovare all’ambra, per far grazia a me tanto parziale d’essa, andò spargendo questi semi di riconciliazione con tanto avvedimento e con sì buono successo che la terza commissione, che venne l’anno passato, fu di metter l’ambra in tutte, e così è stata parimente quest’anno la quarta. Pochi mesi sono me ne venne un’altra da monsieur Magalotti; ed avendola io spedita col sig. marchese cavalier Salviati, successore del sig. baron Ricasoli, hanno avuto il loro spaccio così sollecito che già Magalotti me ne chiede cinque altre libbre, e adesso si sta attualmente dando i fiori allo zucchero. E veda la signora Marchesa che figura fa in oggi l’ambra in quella Corte, che l’anno passato fu spedito in tutta diligenza dalla Corte di Francia a quella d’Inghilterra in S. Germano un uffiziale delle guardie del Re da due dame. Dame, che potevano spedire un uffiziale delle guardie del Re per mandar a chiedere ad un’altra dama una pastiglia. Secondo che per buona fortuna appunto pochi giorni avanti erano arrivate le reclute al signor Barone, potè la dama rispondere e rispedire il corriere di da contento.

Resta adesso la pace di Roma: la più difficile, a mio credere, e la più facile di tutte l’altre. La più difficile per quel contraggenio, o naturale o artifiziale che hanno o fanno gala d’avere tutte codeste dame coll’ambra. La più facile perché potrà esser maneggiata dalla signora Marchesa, che, non avendo di bisogno di rendersi considerabile a forza d’inimicizie grandi, risguarda questa regina degli odori con altri riflessi, e passa con essa un’ottima intelligenza. Io voglio sperare che ella non lascerà d’approfittarsi d’un mezzo, che io mi piglio la libertà di somministrarle, per introdursi utilmente in questa pratica; che se bene è bagattella, pur non bisogna disprezzarla, essendo il solito di far fare le prime aperture di simili negoziati da certi piccoli emissari che non diano negli occhi: un mercatante, un religioso, talvolta una dama: abbiamo pure esempi assai freschi di tutte queste strade praticate utilmente tanto per la pace che per la guerra. A non far complimenti, giacché io in questo fatto non ci ho parte nessuna, io son certo che allo svoltar del libro delle poesie, che le mando oggi, la signora Marchesa s’accorgerà subito che la pelle della coperta è conciata col Bucchero d’India. Non so già se ci riconoscerà altro: e per non far complimenti, per la seconda volta giocherei di no, come non ce la riconobbi io medesimo; quando il sig. cavalier d’Ambra mi ha fatto il favore di conciarmela, me la fece vedere già condotta, e come non ce l’hanno riconosciuta né il sig. Filippo Martelli né il prior Rucellai, al quale è riuscito l’arrivare a far figura tra gli odoristi, come riesce a certi il condursi a far figura in Corte a pura forza di dir male del padrone. Ora io dico alla signora Marchesa, che c’è dell’ambra, e non così poca, e che di più la pelle, dopo conciata, ha avuto più di venti giorni di gelsomini da ritto e da rovescio. Osservi; e se trova, come io dico, quest’ambra e questi fiori tutti assorbiti, ma non però annichilati, anzi trasfusi con tutta la loro gagliardia e con tutta la loro soavità nella fragranza del Bucchero, senza lasciarsi raffigurare per altro che per uno spirito, un fiore, una quintessenza del medesimo Bucchero, stringa i panni addosso a codeste dame, e obbligatele a confessare l’irragionevolezza della loro animosità contro l’ambra, le faccia sottoscrivere sur le champ una pace così vantaggiosa alle potenze in guerra, così gloriosa alla mediatrice e anche così onorevole ai Buccheri, che con questa e con quella di Vienna non avranno da invidiare al cedrato la conclusione di quella di Parigi.

E veramente è cosa strana dell’odore di queste terre, che si caccia sotto senza redenzione tuttiquanti gli altri. Io lo provo tutto’l giorno col polviglio. Abbiasi questo in corpo, ambra, mustio, fiori, tutto quello che si vuole: tre o quattro giorni che io lo tenga in un Bucchero d’India ben coperto, è negozio finito: non si distingue altro che Bucchero. Bucchero istoriato, questo bensì, perché l’ambra e i fiori ci stanno sempre per loro, essendoci sempre da un polviglio puro a un polviglio alterato la differenza che è dal giorno alla notte, ma finalmente sempre Bucchero. Famosissimo, in proposito di questi prestigi degli odori, è un equivoco che prese il signor Filippo Martelli, due anni sono, una sera di questi tempi in casa mia, a conto di cert’acqua, che era stata spruzzata per le camere, pigliandola per tutt’altra da quella che ella era. Sopra di che fu levato uno strillo terribile contro di tutti noi altri satrapi della professione, a segno che io mi veddi in obbligo di scrivere una diffusa apologia in due lettere al sig. cavalier d’Ambra, dove m’ingegnai di provare, credo assai concludentemente, che errori simili sono anzi il vero distintivo de’ maestri grandi. L’istoria è lunga, e non vale la pena di tediarne la signora Marchesa. Le basti di sapere che un’acqua di fior d’arancio svanita, ma che tuttavia a odorarla nella boccia si riconosceva benissimo per fior d’arancio, spruzzata in aria, fu presa per di fior di ginestra non solamente la prima sera, ma la seconda ancora.

A che proposito, dirà la signora Marchesa, tutto questo episodio delle trasmutazioni degli odori? A proposito di giustificare quello che ho detto di sopra: che a mettersi a pretendere d’indovinare gl’ingredienti de’ quali si serve la natura per dar la concia alle terre d’America, sarebbe un volerne troppo, e che quando mi riuscisse il dir cosa che appagasse gli altri, per la pratica che ho di questi giuochi di mano, non appagherei me medesimo.

Mi appago bene di questo: che quanti generi di odori e di profumi mi sono capitati alle mani di questo benedetto Nuovo Mondo, tutti li trovo parenti, non dico d’un’istessa famiglia, ma bensì d’un istesso sangue. Noi vediamo pure in alcune case, anche in rami spartiti da centinaia d’anni, conservarsi costantemente tra le persone alcuni caratteri redicoli, tanto ne’ mostacci che negli animi, i quali, a dispetto di quanto scomponimento possa aver messo nell’orditura delle complessioni la diversità de’ sangui, delle donne, dei cibi, delle bevande, degli esercizi, de’ climi, pure si rendono leggibilissimi a ognuno che intenda un poco il linguaggio che parla la natura in quelle case. Quegli di statura alta, quegli altri di bassa, quegli la fronte spaziosa, quegli il labbro grosso. Alcuni di gran talenti e alcuni di pochi; altri superbi, altri miseri; altri spenditori; e infino spartirsi in alcune case il retaggio; ne’ maschi del coraggio, nelle femmine della disinvoltura. L’istesso ho osservato io, e fattolo osservare anche ad altri non così facili a lasciarsi sedurre da una mia immaginazione, in questi generi d’odori dell’America. Questo più povero, quello più ricco, questo più grave, quello più gentile: benissimo tutto; ma sotto queste differenze io ci raffiguro sempre una cosa, che è la medesima in tutti: un poco più, un poco meno, ma sottosopra ell’è quella. Che cosa è ella? Non saprei accostarmici meglio che chiamandola un aromatico morbido e, per lo più, alterato. Studiamoci un poco sopra.

Balsamo nero liquido, balsamo bianco in lacrima, anime, quinquina, tanto quella che cola esternamente dalle scorze, che quella che fa in quelle mandorlette che in Ispagna chiamano pepitas; sandali odorosi di più sorte, legno violetto di Brasile, che sa di viola mammola; ciaccherenda, zidra, aloè bianco, palo d’aquila, che non ha altro nemico della sua stima che l’essercene troppo, e il valere in conseguenza poco; caccao, vainiglia, in somma olii, gomme, legni, erbe, mandorle, baccelletti, tutto conviene in quella qualità d’aromatico, di medicinale, ma aromatico benigno, amabile, tutto gentilezza: medicinale galante, delizioso, tutto conforto.

Osserviamo qualche coppia d’odori dell’una e dell’altra India, de’ più simboli fra di loro, e sia la prima l’incenso e l’anime; o pure il copal, che è quasi l’istesso. Rage, gomme così simbole che, ad abbruciarne in due stanze separate, chi non ha una gran pratica dell’anime, non ci conoscerà differenza. Abbruciate un po’ d’incenso: voi ci raffigurerete subito quella soavità che l’ha fatto e che lo mantiene degno degli altari. Ma una soavità arcigna, severa, che non s’accosta punto e che né meno con la lunga pratica vi scopre un po’ di vena d’affabile, non che d’amabile. L’istesso che l’organo tra gli strumenti: che però l’uno e l’altro dedicato singolarmente, anzi unicamente al culto divino; forse come d’una soavità più austera, meno allettatrice del senso e meno distrattiva dalla mente. Una maestosa soavità, da poter servire di geroglifico, l’una all’odorato, l’altra all’udito di quella sovrana maestà che si pregia d’unire la forza alla soavità, arrivando vigorosamente e disponendo soavemente ogni cosa. Volete voi vedere che cosa è l’incenso? Osservate che gli Ebrei, quello che s’aveva ad abbruciare fuori, dirò così, del consorzio degli uomini, lo soavizzavano, rimpastandolo con diversi ingredienti, che questo era propriamente il timiama, profumo riservato unicamente a Dio nel più riposto penetrale del Tabernacolo. L’anime, tanto simile da principio all’incenso, svaporato un poco quel primo effluvio che forse offende più col pieno che con l’acuto, diventa a poco a poco un’altra cosa, quasi affatto; dico quasi, perché vi mantiene sempre viva una specie dell’incenso: questo è vero, ma un incenso rifiorito di dieci altre coserelle tutte graziose: fiori, è troppo, ma erbe, certo: timo, dittamo, assenzo, roba tutta aromatica, ma aromatica benissimo morigerata. Basta vederlo. L’incenso, vedete, tutti i suoi grani stentati, ruvidi, scabrosi, d’un colore abbruciato, che vi si vede lo stento del fluire e la fretta del ristecchirsi; falta d’umido, e mercè di secco. L’anime, al contrario, tutto grume candide, lisce, trasparenti, e tutto spalmato infino per di fuora d’un certo odore oleaginoso; e messo sul fuoco infino che ce n’è minuzzolo, bolle sempre, che vuol dire che tutta la sua sostanza non è altro che un grasso quagliato, senza alcuna lega di quel terreo che abbonda tanto nell’incenso e nel belgioi, che per bello, chiaro e mandorlato che ei sia, n’ha sempre in corpo la sua dose, la quale, se finito che ha di bollire, come segue dopo consumato tutto il grasso, non si leva di sul fuoco, produce quel pessimo effetto che gli Spagnuoli chiamano esturar, che vuol dire dar fuori quel sito acutissimo di filiggine che infetta o appesta quanto aveva fatto di buono innanzi. Che però da chi intende, per non avere a stare con la suggezione di gettar via il carbone dove s’è abbruciata la pastiglia, e per non avere a fuggir di camera con la pastigliera, usano oggi in Spagna le pastigliere col loro fornelletto, sotto una padella a uso di catinelletta, da poter coprir la pastiglia d’acqua pura o d’odore, per assicurarla con quel poco di bagno dall’abbruciarsi la feccia. Certo, se mi si domandi adesso quale sia maggior odore, il belgioi o l’anime, risponderò subito che non v’è comparazione. Altra ricchezza, altra nobiltà quella del belgioi; dico del perfetto, intendendo sempre, tanto di qua che di , fiore di roba. Basta dire che quello che nell’anime è armonia d’erbe, nel belgioi è di fiori. Con tutto ciò, o sia la grazia della novità, o l’ipocondria della sanità, presentemente (per abbruciar tanto) l’anime gliela fa vedere. Anzi mi par d’aver in capo d’aver inteso dire in Madrid, che dove prima il Re per tutto l’inverno manteneva a pastiglie non so se se i consigli o altri uffizi pubblici, in oggi ci aveva fatto questo guadagno che non volevano altro che anime.

Vediamo d’un’altra coppia, ma più di passaggio, ché in questa stagione, come non sono Buccheri, tutti gli altri odori affannano anche a discorrerne. Pigliamo la cannella e la vainiglia, spezie tutti e due: la più soave d’Oriente e la più soave d’Occidente. Qui ci va poco discorso: basta pigliarne una da una mano, e una da un’altra, fiutare, e mettere in bocca. Quella bacia, non è dubbio, ma baciato che ella ha, porta via il pezzo codenti. Questa bacia ella ancora, ma dopo baciato vi vezzeggia con la morbidezza delle labbra. La cannella sa di cannella, e finisce . La vainiglia sa di vainiglia, e poi di due o tre altre cose, che non so che cosa siano. Arrivo a distinguere una cosa, che mi si a riconoscere per il fondo di quell’odore; ma su quel fondo ci trovo del ricamo, che non so dire se sia seta, oro o argento; perché quest’altre vene d’odori, separate dal corpo della vainiglia, a questo mondo non si sentono. «Oh come distinguete voi queste tante cose?» Io non lo so: so che le distinguo così bene, come distinguo, in una camera al buio, quando canta una voce sola e quando un duetto, ancorché il duetto sia di due soprani, e che l’uno e l’altro cantino di mano in mano le medesime note, per modo che quelle due voci corrano parejas. E che queste non siano immaginazioni di noi altri odoristi visionari, e che ci voglia la dimostrazione fisica di questa verità, eccola.

Io farò un sorbetto, o di limoni o d’arance di Portogallo, e lo spartirò in due sorbettiere. Una l’altererò con della cannella, un’altra con della vainiglia, e ne darò bere a dieci, che tutti sappiano così bene che cosa è vainiglia, come sanno che cosa è cannella, e che ancor fuori del cioccolate l’usino a capo all’anno quanto la cannella, e più della cannella medesima, nelle salse, ne’ latti, ne’ panlavati, nelle gelatine, insomma sia la loro droga favorita. La cannella credo che non mi si controverta che ognuno la riconoscerà per aria. Per la vainiglia, io piglierò dieci scudi a renderne tante doble quanti saranno di que’ dieci bevitori che la riconosceranno, e anche voglio dar loro un tempo discreto da studiarla. So di certo che farò un bel negozio; e la ragione non è altra, se non quella che ho detto: che la cannella è un odor solo, e la vainiglia son più d’uno, e secondo che queste voci non si sentono mai sole, però non è così facile il riconoscere chi siano i musici del duetto, come di quello che canta solo.

Andiamo a’ legni: ma no, ancora un’altra parola della cannella, ma d’una cannella doma. Poche sere sono, il Granduca mi fece grazia di farmi vedere della cannella d’America: e sono le primizie d’una vasta coltivazione, che i Portoghesi hanno fatta nel Brasile di questa spezie, portatone le piante dai residui delle loro conquiste d’Oriente, e la coltivazione ha provato così bene, che in trent’anni già comincia a impinguare il loro traffico d’un nuovo genere di mercanzia. Al colore si può dire che ella sia cannella, cannellissima. Al sapore, il dolce è tutto quello che ha da essere, ma il piccante patisce una gran tara. La medesima appresso a poco che patisce la malvasia di Candia, che fa sulle nostre colline di Castello, della quale il Redi nel suo gran ditirambo:

 

Ma se fia mai che da cidonio scoglio

Tolti i superbi e nobili rampolli

Ringentiliscan sui toscani colli,

Depor vedransi il naturale orgoglio,

E qui, dove il ber s’apprezza,

Pregio avran di gentilezza.

 

Non vede la signora Marchesa, come anche qui si castiga il fumo e si perdona al dolce? Tanto bisogna dire che il genio d’Occidente resista ai superbi e favorisca gli umili.

Adesso ai legni: calambucchi, aloè, grandissime cose, maravigliose, non è dubbio, e ai quali i legni occidentali non possono paragonarsi. Ma se quelli sono prìncipi che si rendono formidabili con l’arti della guerra, questi altri si rendono amabili con l’arte della pace. Negli odori d’Oriente la natura dipigne di colpo con colori asciutti, e li lascia rammozzolati su la tela. In quelli d’Occidente minia sul raso, con coloretti cavati dai fiori.

A proposito di fiori, osservi la signora Marchesa quel legno violetto di Brasile. Se la natura in Oriente avesse voluto o per dir meglio saputo dar nella galanteria d’alterare un legno durissimo coll’odore d’un fiore, secondo il suo modo di fare in quel clima, avrebbe forse dato nel tuberoso, nel giglio, nel fior di spigo, o in qualche altro diavolo di questa arrabbiatissima gerarchia. In Occidente ha saputo farlo, e facendolo ha dato nella viola mammola. Una fragranza, che, se non ha interamente l’aromatico, ha però quel medicinale galante, delizioso, confortativo, che alterna così regolarmente con l’aromatico morbido.

E questo genio della natura di lavorare in Occidente cofiori su l’aromatico, o con fragranze analoghe a quelle dei fiori, si riconosce molto universalmente. Per venire alle corte, quel balsamo bianco in lacrima e quella quinquina sono di gran cose. Se l’incenso, lo storace, la mirra sono impastate di filiggini di spezierie, queste sono impastate d’aliti di fiori freschi, che in tanto non si raffigurano a uno a uno, in quanto la perfetta mistione li riduce a quell’incognito indistinto che non ritorna più distinguibile, né anche per via di quest’ultimo discioglimento che riceve dal fuoco. Ma che siano fiori, oltre quello che ne apparisce a ognuno che abbia un poco di pratica, a me apparisce da una esperienza che ho fatta a caso, d’un balsamo bianco, o vogliamo chiamarlo quinquina artifiziale.

L’anno passato mi fu mandato a donare da Livorno certo belgioi veramente prezioso. Questo fu del mese di febbraio, che io ero in Pisa, e venutomi voglia di provare a profumare artifizialmente un profumo naturale, pestato questo belgioi, e passatolo per setaccio finissimo, gli detti le viole mammole, che appunto erano in perfezione. Lo prese a maraviglia, e, portatolo a Firenze, seguitai con tutti i fiori che vengono insino al settembre. Giacinti turchini e bianchi, giunchiglie, muschi greci, mughetti, rose damaschine, fior d’aranci, gelsomini salvatici, del gimè e di Catalogna, finché durarono a esser buoni, poi alcuni pochi giorni di tuberosi, e da ultimo caracoles, finché ce ne furono. Mi permetta la signora Marchesa che io le dica d’una cosa, che non ci ho altro merito che il capriccio venutomi di sua cortesia di provarla, che, a giudizio di quanti l’hanno veduto, non si è sentito la simile. Tra questo belgioi, odorato così nella scatola, e il balsamo bianco, non dico in massa, né polverizzato, ma bollito sul talco con tutte le cirimonie, non c’era altra differenza, che nell’essere incomparabilmente più soave e più ricco il mio. Bollito, non aveva tanta forza quanto il balsamo, ma più ricco e più soave assai. In polvere, era affatto irriconoscibile per odori di fiori: bollito, benché quella perfetta mistione non desse campo d’assicurarsene, pure, a dir qualche cosa, non si sarebbe detto altro che fiori. E quello che mi parve mirabile fu che, a misura che moltiplicavano i fiori, la polvere, di bianca lattata che era da principio, andava pigliando un coloretto simile a quello del balsamo bianco polverizzato, se non che da ultimo dal gialletto dette in un vermiglio su l’andare del Bucchero d’Estremoz, allungato con lo zucchero per farne pastiglie. Quest’anno l’ho fatto, anzi lo sto facendo, ma non vuol riuscirmi a un pezzo come l’anno passato: colpa in parte del belgioi, che non è di quella perfezione, e parte de’ fiori della primavera, che sono stati snervati dalle pioggie, e particolarmente i fiori d’arancio, che ho avuto il più delle volte a tenerli a rasciugare sopra una tavola insino a mezzogiorno. Ma strana cosa! finire oggi di dare i giacinti, mettere il naso in quella scatola e metterlo sopra una catinella di giacinti è tutt’uno. Do per la prima volta le giunchiglie. Domattina, addio giacinti, non se ne distingue più fumo, e l’istesso scherzo fanno alle giunchiglie i muschi greci, e così di mano in mano tutti i fiori fanno a farsela l’uno all’altro infino all’ultimo, che per un poco passeggia il campo per suo, ma finalmente egli ancora rimane assorbito, e trasfigurato in quella nuova irriconoscibile idea.

Da tutte queste ciarle mi pare che restino assai ben chiarite due cose. La prima: che il genio della natura nelle sue profumerie d’Occidente nell’aromatico; ma un aromatico morbido, e per lo più alterato. La seconda: che tutto quello che potesse dirsi per via di conietture degl’ingredienti, che ella adopra in queste sue conce, non sia da appagare persone un poco pratiche degli scherzi che fanno gli odori, che risultano dai composti, nascendo alle volte di quelli che non sono niente meno creature de’ nasi, che gli odori degli occhi.

M’arrischierei bene a dire, secondo i lumi d’una filosofia facile facile, e però non indegna di lasciarsi vedere così di passaggio in un gabinetto: che se bene stracciona sempre al suo solito, pure in questo caso può convenirle quel titolo di gueuse parfumée, che fu dato alla Provenza in occasione di scusare davanti al Re la tenuità di non so qual gratuito sussidio presentatogli a nome di quella provincia. Mi arrisicherei, dico, a dire che il corpo di tutti gli odori naturali, tanto dell’Indie Orientali che dell’Occidentali sia l’aromatico. L’Orientale esaltato e inviperito dal secco; l’Occidentale allungato e rammorbito dall’umido. Per intenderne la ragione, basta guardar la carta. L’Asia e l’America, due gran continenti, ma con questa differenza: l’uno attaccato all’Europa e all’Affrica (non dovendosi contare in questo caso le separazioni di due piccoli canali, il Mar Rosso e il Seno Persico) e semplicemente fiancheggiato da due mari, uno de’ quali sempre diacciato e così freddo che i venti poco umido ne possono levare per regalarne la terra. L’altro, una gran penisola, se pure arriva a esserlo, e suddiviso in due altre penisole, l’America Settentrionale e l’America Australe, circondate per ogni verso dall’Oceano: per il Nord e per il Sud, Iddio sa a che distanza dalla terra ferma; per Levante, insino alle coste d’Affrica e d’Europa; e per Ponente, insino a quelle dell’Asia. Né solamente questo, ma con le spiaggie squarciate in tanti brani che gli portano l’Oceano insino nelle viscere, e quel poco che v’è d’intero, inaffiato dai più vasti fiumi dell’universo, e quelli, rigonfiati due volte il giorno da maree terribili, e appozzato da tanti laghi, che è proprio una maraviglia che si tenga insieme. Non direi già che fosse maraviglia che, regnando così universalmente, sotto una zona torrida così umettata, questo spirito d’aromatico misto, come si riconosce ne’ suoi olii, nelle sue gomme, ne’ suoi legni, nelle sue erbe, nelle sue droghe, ne possa essere toccata la sua parte anche a qualche vena di terra.

Orsù, giacché abbiamo fatto l’onore all’odor de’ Buccheri d’India di fargli fare la corte da tante e sì diverse fragranze, facciamogli intero il trattamento regio, chiudendo questa lettera senza dir niente dell’altre qualità dei medesimi Buccheri, come talora si murano quelle porte per dove hanno fatto il loro ingresso Principi grandi: e così riverisco la signora Marchesa umilissimamente.

P. S. Viene la copia della frottola che il signor Paolo Falconieri, da quel grande architetto ch’egli è, ha adesso riconosciuta per fatta su la pianta della Boveda del Cardinal de Moncada. Veramente il signor Paolo non s’è ingannato, perché allora ebbi quell’idea. Si troverà bene ingannata la signora Marchesa in aver creduto che vaglia la pena di leggerla. Io la feci in Brusselles in tempo che il comporre era il minimo de’ miei pensieri; che però non bisogna cercarvi il petrarchesco, perché alle poesie che nascono, benché di padre non soldato, in mezzo all’armate, s’attacca sempre, o poco o assai, della licenza militare.




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