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Lorenzo Magalotti
Lettere odorose

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  • LETTERE SU LE TERRE ODOROSE   ALLA MARCHESA OTTAVIA STROZZI
    • LETTERA SETTIMA   Lonchio, 6 settembre 1695.
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LETTERA SETTIMA

 

Lonchio, 6 settembre 1695.

 

Non so se la settimana passata mi succedesse come ai maestri di cappella, che, serrati in camera a comporre con la solita cartella davanti, pure hanno in testa tutto il frastuono d’un’orchestra, e sentono, non c’è che dire, sentono attualmente sonare tutti quelli stromenti. Bisogna che la mia fissazione in quei grandi odori, de’ quali mi vien fatto lo scrivere, facesse caso alla mia immaginativa, essendo stato io favorito la mattina dopo, subito desto, d’un’emicrania con tutte le cirimonie. Basta, questo è passato, e il maggior male sarà della signora Marchesa mia signora, che in cambio d’avere in una sola lettera, come avevo disegnato, tutta la parte istorica de’ Buccheri d’India, dopo avutane con l’ultima non so se la metafisica o la poetica, le toccherà ad averla in due con suo maggior incomodo.

Già la signora Marchesa sa che le vene di queste terre odorose d’America finora conosciute in Europa sono tre: Cile, Guadalacara, e Nata o Natan: dico, conosciute in Europa; essendovi la quarta, la quale ha una così strana antipatia col mare, che, non che attraversare gli Oceani de Las Damas e de Las Yeguas, non si sa che ancora ella si sia arrisicata ad affacciarsi alle coste di quello del Sur. La ragione non è altra che il difficultoso, anzi difficultosissimo, e assolutamente impraticabile della condotta; poiché trovandosi questa creta nella provincia di Quito, la più settentrionale del Perù, paese non solamente montagnoso in sé stesso, ma posto eziandio di dalla Cordigliera delle gran montagne che guardano le spalle di quel gran regno dalla parte di terra, non basta ai vasi che se ne formano l’esser Buccheri per trovar vogliolosi, che se la sentono da farli vettureggiare insino alla pianura sulle spalle de’ poveri Indiani, per ottanta leghe d’una montagna che fa sudare, sto per dire, allo scendere non che al salire. Del resto a me ha detto il Padre fra Gaspero di S. Maria Valdes, Lettore giubilato e già Provinciale de’ PP. Minori Osservanti nella suddetta provincia di Quito, dove è stato per trentacinque anni, che o vogliasi per l’odore, o pel colore, o bianco o di rosa, i vasi di queste terre non hanno punto, ma punto di paura di quelli del Cile e di Guadalacara. Che le maggiori e le migliori fabbriche sono in S. Giovanni Evangelista, in Pugilli e in Popayano: il primo, mezza lega, il secondo, dodici, e il terzo, cento leghe distanti dalla città di Quito. Che non solamente vasi da bere d’ogni sorta, ma e fiaschi, e bocce, e piatti, e pentole, insomma ogni cosa insino talvolta ai mattoni; dicendomi in specie che in uno degli angoli del maggior claustro del loro convento di Quito v’è un pozzo di mattonato di questa creta, che quando s’annaffia per ispazzare, si direbbe d’entrare in un gabinetto de’ Buccheri d’India de’ più preziosi. Ancora mi diceva questo buon religioso, che tutta questa grande abbondanza non serve a diminuire la stima in paese, giacché gli abitanti de’ luoghi dove se ne lavora li mandano attorno per regalo agli amici che vivono nell’istessa provincia, anzi il buon Padre rimucinò un pezzo in una sua cassetta per ritrovare una lettera d’un guardiano del suo Ordine, scrittagli in accompagnamento di due ceste di questi barri speditigli in groppa a due schiavi per regalarne lui e tutti i suoi religiosi: e mi aggiunse: «V. S. mi creda, che alcuni pochi, che me ne rimasero in cella, ci mantenevano una fragranza di paradiso».

Dello spondio si potrebbe lasciar di discorrere per più ragioni. Prima, perché non ha odore di barro. Secondo, perché quantunque in Spagna molti lo chiamino barro, come gli altri, la verità però si è che egli è ogn’altra cosa. La prima notizia che io n’ebbi, mi venne per via d’uno Spagnolo, stato in Messico, uomo curioso, ma non di lettere, il quale, interrogato, rispose: Esser creduti pezzi d’ossa dei Giganti, che si scoprono in quei contorni, cavando a fondo sotto terra, e avere apparenza come d’un gesso impietrito, e stimato d’una virtù mirabile contro la malignità. Ora veda la signora Marchesa come subito si nella favola, o per lo meno nel poco verisimile. Pure io non voglio essere così rigoroso contro i Giganti, né contro le virtù occulte, ché, in grazia anche de’ Buccheri non legittimi, io non voglia aver per possibile ogni gran cosa. Tanto più che, per quello almeno che tocca i Giganti, tengo per mallevadore della mia credulità l’asserzione d’un uomo così autorevole, anzi diciamo pure, così venerabile come Garzilasso de la Vega nella sua mirabile Istoria del Perù. Adesso però che il mio sig. Gio. Lorenzo Francini, per appagare la mia curiosità sopra questo decantato spondio, m’ha favorito di mandarmene di Madrid alcuni pezzi, così come vengono dalla cava, trovo essere l’apparenza di questo fossile simigliantissima ad una pietra calcinata, con questa differenza però, che il suo colore non è uniforme, ma vario, e questa varietà consiste solo in bianco e in piombato, i quali due colori si frammischiano fra di loro irregolarmente, formando una brizzolatura disordinata in tutta la sostanza dentro e fuori. Dissi simigliantissimo a una pietra calcinata, perché vi si riconosce l’istessa friabilità che in questa, per modo che, rastiandolo anche assai alla leggiera, si spolvera facilmente sì come facilmente si spezza con la sola forza delle dita. La virtù che gli viene attribuita contro la malignità, o vera o falsa che ella sia, può aver avuto il suo fondamento su l’esser la di lui sostanza similissima al bolo, se pur non è un vero bolo effettivo, onde, come tale, partecipi della virtù che viene attribuita a quasi tutti i boli. E per verità la leggerezza, il sapore e la proprietà d’attaccarsi alle labbra pare che lo qualifichino per bolo; in questo solo diverso dalla terra di Malta, dalla terra sigillata e simili, che dove queste sono uniformi in tutta la lor sostanza e nel colore, lo spondio, oltre a quella brizzolatura di bianco e di piombato vario, ha il suo corpo tutto formato di varie scaglie, o lamelle visibilissime, a foggia del talco in massa, o più propriamente di quella terra o gesso che qui da noi si chiama volgarmente scagliola.

Da questo minuto esame, al quale ha potuto abilitarmi l’oculare ispezione dello spondio del Messico, m’era nato sospetto s’ei potesse aver che fare con lo spodio de’ Greci, e trovo che sì, ma in un modo stranissimo; anzi tanto strano che, a ridurla a oro, si viene a concludere ch’ei non ci ha che far niente. Questa parentela è così lontana, che per ben capacitarla bisogna farne l’albero. Noi abbiamo in Ponente lo spondio, fossile e naturale, secondo che già l’ho descritto, e abbiamo in Levante una sorta di cadmia, fossile anch’ella e naturale, similissima allo spondio, ma non già mai detta spodio, il quale spodio è sempre cosa artifiziale, come l’accenna il nome, che non vuol dire altro se non piccola cenere o cenere minuta, e delle ceneri già si sa che senza fuoco non ne nascono. C’è bene la cadmia artifiziale, la quale, e per esser similissima allo spodio, e perché l’uno, e l’altra si generano nelle fornaci del rame, quello di sua cortesia, questa con abbruciare il rame in un certo modo particolare, è comunemente detta spodio essa ancora. Abbiamo dunque spodio naturale e cadmia naturale, simili fra di loro nell’apparenza e nella sustanza, e dissimili nel nome. Abbiamo, all’incontro, spondio naturale e spodio, cioè cadmia artifiziale, simili nel nome e dissimili nell’apparenza e nella sostanza; e abbiamo inoltre che anche la cadmia fossile e naturale, abbruciata che ella è, anch’ella si chiama spodio, nome generico d’ogni cenere e perciò adattabile a qualunque cosa abbruciata. Ora che grande inverisimile è egli che chi chiamò il fossile di Ponente spondio (che forse da principio fu spodio) pretendesse nel suo cervello d’applicargli il nome della cadmia naturale per ragione della simiglianza, non saputo o non avvertito che la cadmia detta spodio non era la naturale, ma l’artifiziale? Ed ecco come in un modo stranissimo viene a ritrovarsi che lo spondio può aver che fare con lo spodio; e come a ridurla a oro non ci ha che fare niente, tutto per ragione dello sbaglio preso da chi, credendo di dargli il nome d’un altro fossile a lui similissimo, gli diede quello d’una cosa artifiziale, che ha a comune l’istesso nome, senza averne a comune né la sostanza né l’apparenza.

Secondoché la cadmia fossile è di più sorte, non ogni cadmia può esser simile allo spondio, avvegnaché tutte convengono in essere, come lo spondio, sustanze leggiere, friabili, e di colori sbiadati qual più e qual meno: le più chiare accostandosi al bianco, e le più scure al color di ruggine. Una ve n’è tra l’altre detta, da’ Greci, e crostosa, e fasciata: dalle linee (dice Dioscoride) che ne ricorrono la superficie, le quali forse non sono altro che i dintorni delle croste, o lamelle, nelle quali è distinta la loro sustanza, e che, vedute in profilo, possono dai meno diligenti osservatori esser prese per semplici linee, non estese più addentro della pura superficie del fossile: e di questa cadmia mi do io ad intendere che la vista del nuovo fossile di Ponente risvegliasse le specie nel cervello di chi s’avvisò erratamente di battezzarlo con l’istesso nome; o forse nel Messico o in Ispagna, che seguisse il battesimo, giacché spondio non mi ha punto l’aria di voce messicana.

Come i Messicani se lo chiamassero io non lo so, non essendomi mai incontrato a vederlo in nessuno di quelli che hanno scritto delle cose naturali di quel paese; ma, anche non sapendolo, inclinerei a credere che nella sustanza non lo chiamassero diversamente dai Greci cadmia, verisimilmente da Cadmo; in quanto la somiglianza che ha questo fossile con l’ossa impietrite, poté eccitare la fantasia ch’ei non fosse altro che i frammenti dell’ossa di quei guerrieri, nati improvvisamente dai denti del drago ammazzato da Cadmo o dipendente da una sua avventura. E i Messicani, mossi verisimilmente dall’istessa simiglianza, e dal vedere pezzi troppo maggiori d’ossa d’uomini ordinari, dettero, come ho detto di sopra, in battezzarli per ossa di giganti: e così l’istessa specie che poté risvegliare ne’ Greci la superstizione o la poesia, poté risvegliarla nei Messicani la semplicità o l’ignoranza. Venghiamo adesso ai barri veri barri.

A me, signora Marchesa, dispiace infinitamente per amor suo, che, dopo aver parlato insino adesso di questi vasi con tanto mistero e con tante cirimonie, adesso, che ho da rappresentarli per quello che sono e per quello che sono stimati nel loro paese, non posso sostenerli in quel posto al quale ho procurato di far loro strada con durare ventisei anni a far la guerra offensiva alla barbarie d’Italia, e nel quale è poi sortito all’autorità della signora Marchesa il collocarli in Roma. E mi creda pure che io sono come uno il quale, innamorato de’ pavoni, da ultimo impazzitoci su, n’avesse portato uno in un paese dove questo uccello non fosse mai stato veduto, con animo di farvelo adorare per Dio; e che, dopo scopertolo a poco a poco in presenza della moltitudine, mostratone il capo, il collo, il petto e la coda con infinita ammirazione di quei Barbari, gli avesse da ultimo da scoprire i piedi.

Non c’è che dire: la novità, la rarità e la lontananza sono la tripode su la quale si regge e dove meglio si assicura la stima di tutte le cose. Quel mercante che donò due gatti a quel re che nel suo paese non poteva vivere da’ topi, ne riportò, direbbe il nostro Boccaccio, oro, argento e care pietre assai. Quell’altro, veduto quel che avevano fruttato al compagno due gatti, portò delle gioie, che gli furono contraccambiate con un gattino, figliuolo di quei due; e non si poteva dolere perché il buon re in donargli quell’animale credé di fargli l’istesso regalo che crederebbe di fare la signora Marchesa a un Indiano con donargli un Bucchero, se ella potesse non ricordarsi che i Buccheri vengono dal suo paese. Noi in Europa abbiamo stimato le porcellane per la finezza. Alcuni anni sono cominciammo a vederle comparire più grosse del solito, e fummo così dolci che, credendole la moda, ce n’innamorammo subito. Vatti [?] poi veggendo, quella che pigliavamo e che pagavamo cara per la moda della China, era la moda d’Olanda; mentre, portate colà dalle flotte della Compagnia orientale le terre di Delft, quei buoni Chinesi, stimandole assaissimo perché fatte in Europa, si dettero essi ancora a lavorare le loro di quell’istesso gusto e su quell’istessa maniera. Per la medesima ragione in Cile, che è il paese più lontano da Portogallo, stimano infinitamente un Bucchero della Maya, e ne darebbero una cesta de’ loro, che così belli, rossi, e rilucenti come sono, appena li vendono in paese due pezze da otto il cento, che tornano l’uno per l’altro a valere l’istesso che in Madrid quelli di Portogallo, cioè quattro quarti l’uno, che vuol dire un mezzo grosso. Ora che rimedio? Non altro che procurare d’uscire di quest’odiosa narrativa più presto che sia possibile.

Di già ho detto che de’ Buccheri d’India non mi il cuore di venire a certe minuzie, come bene o male ho fatto in parlare di quelli di Portogallo, e sarebbe semplicità il pretenderlo. Gl’Indiani non vengono in Europa, e quando ci venissero sarebbe la medesima. Gli Spagnuoli, che vanno e stanno nell’Indie, ci hanno ogni altra faccenda che quella di addottorarsi in Buccheri, e i mercanti vi trovano dieci negozi più belli da fare. In Spagna questa non è mercanzia che si venda se non quando qualcheduno muore o qualche forestiere se ne va, e che, trovandosene messi insieme di regalo e stimandoli poco, tiri a farne quattrini. In tali occasioni alle volte se ne trovano assai, ma si vendono presto ed a fortuna di chi arriva prima; e se una volta di strabalzo restano in mano d’un rigattiere, o che, con altre cose dell’Indie, ne capiti a un droghista, e che li tenga per disfarsene, se la curiosità vi fa cascare a domandare a uno di costoro di qualche cosa, tutti vi rispondono a un modo: Nosotros no sabemos: es cosa que viene de allá; o vero es cosa que viene de Indias, no sabemos mas.

Non si può tacere, perché è troppo bella, la risposta d’una monaca in Madrid, in iscienza di barri autorevolissima, o, per dir meglio, infallibile, e come tale riscelta fra mille dal signor Giovan Lorenzo Francini per consultarla sull’epoca della prima apparizione dei barri d’India alla Corte di Spagna. Dopo una solennissima sganasciata di risa, come se quel buon gentiluomo le avesse domandato della maggior inezia di questo mondo: Jesús, Jesús: quanto tiempo ha que hay barros de Indias en Espana! Y quien puede dezir esto? y que se le da a V. M. de apurar noticias de este género? Mire D. Lorenzo lo que Pase. Quien le mite a V. M. por el amor de Dios, en estas ypocondrias de querer saber desde qual anno a esta parte parecieron por acá cascos de las Indias? Jesús, Jesús, curiosidades de estrangeros! E con questo l’esame fu finito, e rimase circondato il processo.

L’istesso appresso a poco a domandarne a gente stata nell’Indie. Le persone di qualità non è così facile l’interpellarle su bagattelle di questa sorta senza avere un adito molto famigliare e intimo, che non tutti l’hanno, e tra le persone ordinarie si trova il più delle volte chi pianta mille carote, e vi dice tante novelle in cose che si riconoscono evidentissime per novelle, che quando anche vi mescoli qualche verità non sapete che vi credere. Le dame li cercano e li tengono per goderseli, non per istudiarvi sopra. Le persone di condizione, e i curiosi non usciti di Spagna, quando volessero averne notizie un poco distinte incontrebbono l’istesse difficoltà che incontriamo noi, e non bisogna meravigliarsene, convenendo intendere che queste notizie hanno a venire d’un paese che non ha il suo forte nella curiosità e nell’erudizione dell’istoria naturale. E, per dire le ragioni di tutti, non bisogna né maravigliarsiscandalizzarsi neanche degli Spagnuoli nativi dell’Indie, più di quello che sarebbe ragionevole che essi si maravigliassero o scandalizzassero d’un cavaliere o d’una dama che viva in Spagna, perché non avessero fatto uno studio particolare sopra i barri di Alcorcon, che in Madrid si vendono due quarti l’uno. I barri di Guadalacara, che a noi pare di rubarli quando possiamo averli a una pezza da otto, e fuori di qualche buon riscontro, e anche a pigliarne quantità non è poco il raddoppiar la posta; in Messico, a una pezza da otto la dozzina, è come andare, come si dice, per il pane al fornaio. Dei neri di Natan, che sono i più stimati per l’odore, non lo so per appunto, ma la differenza può battere in poco, essendo finalmente tutta terra che sta esposta a chi la vuole: chi ne vuol far vasi li fa, assai alla carlona, come si vede, li cuoce, e come trova da ricoprirsi della spesa del fuoco, ogni poco di guadagno su la fattura gli basta. In una parola, signora Marchesa, e sa Iddio se mi crepa il cuore l’averla a dire, i Buccheri d’India in India non contano per gran cosa più de’ laveggi a Firenze e de’ mariti a Roma. Ora, che maraviglia o che scandalo se gl’Indiani non fanno maggior onore alle loro stoviglie di quello che facciamo noi alle nostre? Oh, ma i Portoghesi fanno altro conto de’ loro. Verissimo; ma che ci farebbe la signora Marchesa? Gli Spagnuoli dell’Indie non sono così. Ma forse anche lo sono: anzi lo sono assolutamente, perché essi ancora li stimano assaissimo, e il poco prezzo che valgono non è difetto di stima, ma di troppa dovizia, e l’istesso segue in Portogallo. Non ved’ella? Con tutta la stima che i Portoghesi fanno di essi senza quel poco che ne scrive il Padre Vasconcellos, per saperne qualche cosa bisognerebbe andare o scrivere a Estremoz o a Lisbona. Ora il viaggio dell’Indie, o sia per gli uomini o per le lettere, è più lungo di quello di Portogallo. Di qua vengono gli ordinari ogni quindici giorni, di una volta l’anno. E però bisogna darsi pace: e in cambio di pigliare il poco che si sa de’ barri dell’Indie e il poco che vagliono sul luogo per un disdoro de’ medesimi barri, bisogna pigliare il primo per effetto della lontananza, e il secondo, come dicevo, della gran dovizia.

Ah io veggo che questa lettera scorbia tutte le altre, e meglio averei fatto a dispensarmi dal venire a certi individui, ma, dall’altro canto, come si aveva a fare? A non voler cavare dall’epico il poema de’ Buccheri e ridurlo tutto a pura metamorfosi, non poteva stare senza quel poco d’istoria che ci potevo metter dei Buccheri. Ma animo, signor Marchesa, qui tutto il male è nato dall’aver voluto scrutare i Buccheri troppo a fondo. Che cosa cred’ella che sia degli uomini, anche i più grandi, e delle loro azioni, anche le più rumerose, a andare a riconoscere i principii in quelle sotterranee sorgive de’ loro cuori, dove bollono ancor vergini di quelle medicate aspersioni di fini legittimi e virtuosi onde l’amor proprio le ricorregge prima a’ suoi occhi medesimi e poi a quelli degli altri? Per questo, di quanti mestieri sono al mondo, non ce n’è nessuno che abbia fatto maggior orrore al mio poco animo e alla mia corta sufficienza di quello di far da istorico del tempo presente: considerandolo per un impegno forzoso d’aver a far gala e mostrar compiacenza d’essere o semplice, o adulatore, o poco prudente testimonio, quello che mi sarà riuscito questa sola misera volta che mi ci son voluto mettere con far l’istoria de’ Buccheri, della quale pur sarei contentissimo se potessi lusingarmi d’avere sfuggito un solo di tutt’e tre questi caratteri, che non lo credo.

Orsù tiriamo avanti, e vediamo se trovassimo da dir qualcosa che potesse servire di lenitivo a questa bua. Per ora c’è questo, che questi dolcissimi prezzi indiani nel passare il mare diventano salati, e bene; e la signora Marchesa lo debbe sapere meglio di me. A me dice il sig. Marchese da Castiglione, che nel principio che egli arrivò a Madrid, che fu verso la fine del 61, a averne di bisogno, e pretendere di andare a cavarli di mano di monache o d’altri particolari, d’un barro di Guadalacara o di Natan, che fosse punto punto grandetto e un poco ragionevole, dos doblónes, tres doblónes, questo era il suo prezzo corrente. Adesso abbiamo quest’obbligo alle calamità d’Europa, che queste gioie in prima mano sono rinviliate assai assai, tenendo io avviso da amico di Cadice, che può dirsi il luogo che può far qualche stato per una valutazione un poco meno irragionevole di questo genere di mercanzia a una mezza pezza da otto l’uno per l’altro, e talora anche a qualcosa meno si sfiora.

Ma questo ancora è niente in agguaglio di quello che mi resta a dire per redimere i barri dai pregiudizi della prima loro estrazione. Ancorché in Madrid sia notissimo e accreditatissimo il nome de’ Buccheri di Natan, con tutto ciò, parlandosi de’ Buccheri d’India, tutti correntemente cadono sotto la denominazione de’ barri di Cile e di Guadalacara. La ragione credo che sia perché di Cile, oltre i rossi, che colà sono i più stimati (forse in grazia del colore), ne vengono ancora dei neri, e benché siano d’altra nobiltà quelli di Natan, tuttavia, essendo la vista più obvia dell’odorato, credo che per brevità di scrittura si confondano gli uni con oli altri.

Del resto, in concorrenza dell’altre due sorte, quelli di Cile, per l’odore sono stimati il meno, e per la fattura il più, essendo assolutamente i più galanti, i più ornati, e, nel loro genere, di miglior disegno di tutti gli altri dell’India; e c’è mancato poco che non mi sia venuto scritto: e di Portogallo. Certo che i rossi particolarmente, nel colore, nell’ornato e nel lustro superano di gran lunga quelli d’Estremoz. Nel disegno non posso darne giudizio in universale, perché di quelli d’Estremoz ne ho veduti di tutte le sorte, e di quelli di Cile poc’altro che vasi da bere. E in quest’ordine tanto crederei di non far poco servizio ai Portoghesi a fare il rescritto che fa in certi casi la Sacra Rota, Illustrissimis Dominis placeret concordia.

La ragione di questo gran raffinamento di quei di Cile è l’esserne in oggi ridotta la fabbrica tutta in mano di monache. L’unico luogo dove si fanno è in Santiago, città capitale di quella parte del regno che si considera tra le antiche conquiste della Corona di Castiglia, benché ora come ora, o rischiarata la mente, o rammorbiti i cuori di quella fiera nazione, chiesto e ottenuto per unico patto il dover esser trattati da sudditi e non da schiavi, si siano quasi tutti consegnati di buona voglia sotto il governo de’ tribunali regi, che da alcuni pochi e rarissimi casi in poi, nei quali riconoscono la superiorità de’ vicerè del Perù, agiscono in tutto il resto come sovrani.

In Santiago dunque le migliori e, posso dire, le sole maestranze sono quelle delle monache, perché quantunque le fanciulle spagnuole e indiane, che servono alle monache, come in Santa Chiara di Napoli, in abito di secolari, o quelle che stanno in quei monasteri in educazione, ne lavorino esse ancora, tuttavia una volta che n’escano, trovano dieci spassi più belli, e se pure alle volte per passatempo si mettono a farne qualcheduno, è solamente per regalare, e non per farne mestiere, benché, se volessero, potrebbono, non essendoci alcuna proibizione; ma forse Iddio non lo permette per non levare quest’assegnamento a quelle buone religiose. D’uomini né in Santiago, né altrove in tutto il regno, ve n’è uno per miracolo che eserciti simile professione; eppure i lavori sono molti; ma anche le lavoratrici non sono poche, contandosi in quattro soli monasteri, che sono in Santiago, da mille monache, che vivendo, si può dire, di questa sola manifattura, dalla mattina alla sera, levate l’ore del coro, non fanno altro; e con tanta facilità e prestezza, che a me ha detto un Padre Gesuita catalano, procuratore di Cile, passato di qui ultimamente per Roma, che in una sola quaresima, che egli assisté a uno di questi monasteri, non so se per la predica o per la confessione, le monache di quel solo monastero ne fabbricarono per dugento cassoni, de’ quali a lui ne toccò, non mi sovviene se sei o otto. Barros y dulces, mi soggiunse, sono la paga che corre più ordinariamente per gli operai evangelici in quelle vigne. Anzi in questa e in altre occasioni di regali solenni il solito è il far marciare alla testa de’ bacili e delle casse un grand’orcio dell’istesso barro, tutto pieno in giro de’ più minuti.

Questo lavoro si fa tutto a mano, e senza adoperar mai forme di sorta alcuna. Fatti che sono i vasi, e rasciutti all’ombra, li bruniscono con uno stecco e con una punta d’osso, cacciandola tra quei lavori di basso rilievo, e ritrovando tutti quei risalti e tutti quegl’incavi con una flemma e con una diligenza incredibile. Bruniti, li mettono a cuocere in certi fornelletti fatti a posta, e dopo cotti, tornano a brunirli per la seconda volta, e allora solamente que’ pochi che voglion metter in maggior gala degli altri, li toccano, o d’oro, o d’argento, o d’altri colori.

I rossi sono del color naturale della terra. Tutti gli altri colori, dal nero in poi, del quale non mi mette conto il parlare adesso, bastandomi solamente il dire che è il solo che s’impasti nella massa, sono semplici velature date su la creta bianca de’ vasi già formati, prima che rasciughi; e questi colori non son altro che ceneri di diversi materiali, abbruciati con tal arte che o trapassi nelle ceneri il lor primo colore naturale, o ve ne nasca un nuovo. Dipinti che li hanno, rasciutti e bruniti la prima volta, come ho già detto, li cuocono, e nel cuocerli quei colori s’incrostano loro addosso a una foggia che non solamente reggono alla seconda brunitura, ma all’uso continuo del maneggiarli, rimaneggiarli, bagnarli e ribagnarli quanto pare e piace. Non segue già l’istesso de’ colori dati dopo cotti, i quali scrostano facilissimamente, siccome l’oro e l’argento se ne vanno.

Le fatture di questi barri sono molte e diverse, e credo, in una parola, di poter dire l’istesso appresso a poco di quelli d’Estremoz, facendosene anche di questi di Cile per l’uso e per la curiosità. La copia maggiore è di vasi di bere, che, come i più facili a trasportare, sono quelli che vengono per lo più in Europa. Fanno ancora orci, e, come dicono costì, vettine, grandi al pari delle nostre, e maggiori, ma più per l’uso che per servizio. Altre ancora mezzane per acqua, che hanno ancor essi opinione che si conservi in questa terra meglio che in ogni altro genere di vasi nella sua freschezza naturale. Cert’altri orcioletti più piccoli, per mantenerla calda nel canto del fuoco, e anche per metterla a scaldare, ma più tosto su le ceneri calde che su la brace, alla quale, come è punto gagliarda, non fanno grazia di reggere. Reggono bensì al cioccolate caldissimo le chicchere, che colà non si consumano altrimenti che di questa medesima terra, particolarmente della nera, m’immagino per non vederle macchiate. Del resto, vasi e fiasche grandi da tenere su i tavolini in parata, cantimplore con le loro boccie, bacili, piatti, tondi, e per infino a cucchiai e forchette, da servirversene però poco. In qualche piccola chiesa se ne veggono ancora lampadi, lampadari, vasi e candelieri di altare.

Quanto al lustro di questi e di tutti gli altri barri dell’Indie, in Spagna corre opinione che sia dato artifizialmènte con un bettun, o vernice di composizione molto ordinaria: chi dice con vetro e chi con piombo. E questo basta per fare che nessuno se ne metta in bocca, credendolo una specie di corrosivo. Sopra di ciò vanno discorrendo con una certa filosofia, che, se la cosa fosse vera, non sarebbe niente fuori di ragione. Dicono che questa vernice sia un difensivo dell’odore, mentre, intasando dalla parte esterna de’ vasi le bocchette de’ pori, da’ quali se ne farebbe una perdita grande e continua, e ripercotendolo in dentro, lo fa rimanere come impaniato in quell’aria morta che stagna nella cavità de’ vasi. E di fatto osservano che generalmente tutti i barri, che hanno odore, per di dentro, due dita sotto l’orlo, si vedono rozzi, perché (dicono) l’odore abbia libero il suo esalo; e per verità l’esperienza fa vedere che quelli inverniciati da tutt’e due le bande, siansi da dove si pare, sono quelli che odorano meno. E di qui è che per giudicare del colore della terra bisogna guardare il di dentro, dove rimangono nel loro essere naturale, non al di fuori, dove per lo più sono dipinti e sempre inverniciati.

Stante questa pubblica voce e fama che corre in Spagna, il decidere adesso se questo lustro sia vernice o brunitura, mi pare un poco azzardoso; tanto più che ci sono testimoni di vista di qua e di . Per la vernice, un cavaliere spagnuolo, crioglio di Cile; per la brunitura, un religioso gravissimo, stato in Cile trent’anni. Tuttavia direi così estragiudizialmente che la cosa potesse ridursi a questione di nome e che potessero avere ragione tutti e due. Il Cavaliere con riconoscere il lustro unicamente da quelle ceneri colorite con le quali si dipingono i barri ancor freschi, le quali poi nel cuocersi è certo che non possono attaccarsi altrimenti che per via d’una maniera di leggerissima vetrificazione, il che spiegherebbe anche l’altro concetto che sì fatto bettun fosse piombo o vetro; anzi in questo modo potrebb’essere l’uno o l’altro, potendosi dare il caso che tra queste ceneri vi fosse qualche preparazione di piombo, la quale successivamente nel cuocersi passasse a vetro. Il Religioso, con non avere in considerazione nessuna di queste cose, e con riconoscere unicamente il lustro da quell’ultima brunitura che si ai barri su questo medesimo smalto, cotti che sono. La sola difficoltà rimarrebbe su i rossi, che senz’altro aiuto di ceneri o di smalti ricevono il medesimo lustro dalla semplice brunitura; ma su questo lascerò studiare la signora Marchesa, sottoscrivendomi insin da adesso alla sua decisione. In qualunque modo però è cosa curiosa come in Spagna, scrupoleggiandosi tanto in mangiare di questi barri lucenti (scrupolo che non hanno punto le Spagnuole di Cile, né l’Indiane), ci sia poi così gran libertà di spirito in berne copiose infusioni, come dirò tra poco. Non so già se las señoras e generalmente le donne tutte di Spagna, che, fierissime divoratrici di queste terre, avevano surrogato ai barri dell’Indie quelli della Maya, come i più lontani da ogni ombra d’immaginato veleno, scrupoleggino egualmente in sfamarsene, dopo che i confessori hanno cominciato a metter loro in considerazione di peccato mortale il mandarne giù, veduto per esperienza il grandissimo nocumento che ricevono le complessioni dall’usarlo in tanto eccesso, e più le più tenere, come quelle delle fanciulle, che ne contraggono oppilazioni ostinatissime e talora immedicabili.

La figura di questi barri di Cile, in quelli almeno che ho veduto, per lo più è tonda, cominciando da piede con un corpo sferico, che dopo una strozzatura assai angusta va allargandosi con una strombatura, o liscia o andante, o vero (come il più delle volte) con uno o più risalti, andando finalmente a terminare in un labbro assai spaso a modo di tazza arrovesciata, con l’orlo per lo più a piccoli merletti. Si veggono ancora alcune tazzette bislunghe, piane, anzi senza punto di piede, con le sponde laterali accartocciate in dentro, con una mezza voluta, lasciando nelle due testate l’abboccatura per le labbra, similissima in tutto a quelle tazze d’argento d’Augusta, che si fanno su questa forma per comodo di portarsi in tasca alla caccia. De’ barri di Cile lisci affatto, non so se io n’abbia veduto più d’uno, che l’ho ancora, che m’ha aria d’esser di quelli della fabbrica più ordinaria: gli altri, che m’immagino esser di quella delle monache, sono esternamente tutti coperti di bassi rilievi regolarissimi, ma senza figure né d’uomini né d’animali, e solamente aggrottescati a capriccio, che, a non sapere il contrario, si direbbe più tosto lavoro di forma che di stecco. Sono inoltre questi barri di Cile i più fini che si facciano in tutte l’Indie, benché non arrivino alla sottigliezza di quelli della Maya, e una volta loro erano anche più; ma la gran difficoltà con la quale si conducono intieri nel lungo cammino che hanno a fare per ischiena da Santiago a Buenos Ayres (giacché quelli che vanno per Lima e per tutto il Perù fanno il viaggio per mare) e forse il poco garbo nell’incassarli, ha obbligato a farli un poco più resistenti. Tutti questi vantaggi però non servono a risarcir loro il pregiudizio dell’odore nella comune estimativa, non esclusane quella de’ paesani medesimi, i quali (come mi pare d’aver già accennato) stimano incomparabilmente più qualsiasi Bucchero di Portogallo, che altro qualsivoglia d’India, o siano de’ loro o di quelli di terra di Messico.

I secondi per all’insù sono i barri di Guadalacara, città che il nome alla sua provincia, detta altrimenti Nuova Galizia, solamente dalla provincia di Mecioacan separata dal Messico. Sono questi superiori a quelli di Cile nell’odore, e però nella stima, benché inferiori notabilissimamente nel colore, nel disegno e nella finezza, essendo non solamente poco sottili, ma materiali assai. La terra è simile a un gesso d’un colore, se non parlassi di cosa tanto preziosa, direi bianco sudicio; ma in grazia de’ Buccheri, e in ossequio di chi tanto li distingue con la sua stima, dirò di colore tra l’argentino e il perlato; ma si serva la signora Marchesa di credermi, che gli fo servizio. La forma sì che è nobilissima, quella almeno che si vede nella maggior parte, perché io credo che ella sia quella prima prima che venne in testa a chi s’avvisò il primo d’impastare un po’ di terra per adattarla all’uso di bervi un poco d’acqua con qualche maggiore comodità, che a riceverla alla fonte o a recarsela alla bocca con le mani: una scodella scodellissima tonda, senza piede, con fondo schiacciato, la sponda un pochetto inarcata in fuori, e due manichini, né più né meno di quel che bisogna per appiccarvi, e anche assai stentatamente, l’ultima estremità delle dita. Quelli che ho veduto un poco di miglior grazia sono certi orcioletti, ancor essi senza piede, con un corpo sferico, che ha un’imboccatura, a proporzione, assai larga, su la quale posa un collo non gran cosa lungo, che se ne va su dritto, contornato da un orlo. Tutti questi mi pare di vederli per lo più del color naturale della terra; solamente, quali più e quali meno, dipinti con certi rabeschi rossi e neri, d’un disegno dell’istesso gusto di quelli che i cuochi e i credenzieri fanno con le dita su gli orli inzuccherati dei piatti. Alcuni altri ve ne sono ancora, tutti velati d’un colore rossino, e su quello rabescati d’un bianco lattato, di figura o delle ciotole dette di sopra, o di pentole con poco piede e di non gran corpo, o liscio o scannellato, con uno o due manichini, e questi sono ordinariamente tutti tinti di rosso anche per di dentro, e non lustrati se non di fuora. Nel profilo di qualche rottame di questi barri, particolarmente verso il piede, dove sogliono essere alquanto più ricchi di metallo, ho talvolta osservato un’anima un poco più nera del corpo, e avendone io fatto segare alcune fetterelle, e mandatele a Madrid per intenderne il sentimento de’ periti, sono stato cerziorato non esservi mistero nessuno. Solamente che quel nero è un barro più ordinario e più forte della crosta che lo riveste di dentro e di fuori.

Questo è tutto quello che insino adesso si è veduto di Guadalacara: ma se mi regge tra mano, come non ne dubito, una notizia datami pochi mesi sono da un amico, che negozia nel porto Santa Maria, giovane di grande spirito, curioso, delicato e di finissimo gusto, io dico, signora Marchesa, che noi siamo vicini a vedere cose due volte dell’altro mondo. Dice che in oggi si sono introdotte in diversi luoghi della Nuova Spagna maestranze ottime, e che, oltre ad aver migliorato i disegni dei vasi, li dipingono di fiori al naturale, di così buona maniera e di colori così vivaci e così simili al vero che meriteranno qualche ammirazione anche dai nostri pittori di fiori. E per mansuefarmi l’intelletto ad ammettere questa grande abilità ne’ moderni Indiani di Occidente, mi aggiunge che i medesimi lavorano presentemente di paesi e di figure, fatte tutte di penne d’uccelli, d’una diligenza e d’un gusto così pittoresco che è cosa da stordire; e conclude che, se ho difficoltà a concedergli e credergli, la mia incredulità non averà più lunga vita che per di qui all’arrivo della flotta, essendo egli risolutissimo di volermi convincere con le mostre dell’uno e dell’altro lavoro.

Questa aspettativa mi tiene con impazienza uguale alla curiosità che ho di riconoscere queste manifatture; perché io confesso di non avere mai saputo accordare la materialità e il perfido disegno di quanti Buccheri vengono portati di Nuova Spagna con le maraviglie che si leggono del famoso mercato che si teneva nella real città di Messico su la maggior piazza di essa, detta Tlateluco; dove accanto accanto e quasi in concorrenza di quelle mirabili manifatture d’oro, delle quali dice D. Antonio de Solis, che dettero da discorrere ai più eccellenti argentieri di Spagna, si contano le botteghe de’ Buccheri, e d’altri lavori delicati di barri finissimi, diversi ne’ colori e nella fragranza, de’ quali lavoravano con eccellenza straordinaria quante sorte di vasi può richiedere il servizio e l’ornato d’una casa.

Per conciliare quello che si legge con quello che si vede, potrebbe dirsi che chi vedde, o non fosse giudice competente di quello che meritava o non meritava stima, o che, essendolo, nel riferire si dilettasse di esagerare. Ma né l’uno, né l’altro ha luogo nel caso presente. Non il primo, perché chi vedde usciva d’un paese dove ci era tanto da formare il buon gusto da non aver di bisogno di passare a studiarlo tra i Barbari, e dove l’ammirazione non si eccita così per poco, né in conseguenza la stima si dona così gratis, particolarmente dove si tratti che ella abbia a uscire del paese. Non il secondo: perché chi scrive, almeno il primo, fu l’istesso che aveva veduto, Bernal Diaz del Castillo, soldato di gran valore, e che, per quanto la sua invidia e la sua ambizione l’abbiano talora abbagliato nel giudicare delle azioni degli uomini, niuno gli ha mai attribuito questo difetto nel giudicare del pregio delle cose. Le quali né meno si può dire che egli abbia vedute cosoli suoi occhi, né giudicatele col solo suo discernimento, come potrebbe presumersi d’un semplice soldatino che avesse preso a scrivere per genio di propria curiosità, avendo Bernal Diaz scritto, se non precisamente d’ordine, con saputa e con approvazione del suo generale, che vuol dire aver egli veduto con gli occhi e giudicato con l’intendimento di tutte le persone più qualificate che servirono in quell’impresa. E per quello che riguarda l’esagerazione e gli abbellimenti, l’istesso suo modo di scrivere ne purga il sospetto, riconoscendovisi quella negligenza, anzi quella rozzezza, che, salvi i casi dove l’interesse di pregiudicare al compagno può renderla sospetta, suol’esser sempre il carattere più autentico della verità.

Il dire che queste maestranze ci siano sempre state e che si siano sempre mantenute nell’istessa perfezione, ma che i vasi migliori siano sempre rimasti in paese e a noi venutici sempre degl’infimi e de’ più materiali, questo mi pare uno sproposito. Perché, o considerinsi i Buccheri per un capo di mercanzia, che non lo sono, o per un regalo di semplice curiosità e galanteria, come sono in effetto; certa cosa è che, nell’uno e nell’altro caso, avevano sempre a mandarcisi i migliori, e particolarmente nel secondo, trattandosi che quelli che mandano non sono Messicani, ma Spagnuoli; gente, se alcuna ve n’è al mondo, la più fina e la più profusa nel regalare, che ha autorizzato le massime della propria generosità con l’assentare in proverbio: O non dare, o farsi onore: O no dar, o que dar bien.

Bisognerà, dunque, se questi prelibati Buccheri verranno (per non dare in anacronismi), chiamarli nuovi in quel sentimento che si dicono nuovi i frutti della terra, benché ci siano stati l’anno avanti. De’ Buccheri sarà un poco più, essendo centosettantaquattro anni finiti che la fiera di Tlateluco m’ha aria che si facesse per l’ultima volta. M’immagino che, a misura che questi vasi hanno preso favore in Europa, sia cresciuto l’animo a quei buoni Indiani; e secondo che certi talenti dirò radicali delle nazioni non si smarriscono così subito, particolarmente dove una lunga e forzata abitudine d’applicazioni in tutto diverse non arrivi a finirli di sbarbicare, l’animo averà felicemente risvegliato l’industria, e l’industria l’emulazione, madre sempre felice di raffinamento e di squisitezza in tutte le cose. Forse ancora la vista delle porcellane, e più che più quella de’ Buccheri di Cile averà fatto il suo effetto, e gli Spagnuoli medesimi con un poco d’applicazione e di star d’attorno a quella buona gente, e col piccarla d’onore, raccontando loro quello che facevano i loro vecchi, avranno conseguito quello che si conseguisce sempre da tutti gli uomini quando si pigliano per il loro verso e non si pretende di cavarli dal loro naturale.

Quanto poi alle pitture di piuma, queste mi arriveranno più e meno nuove de’ Buccheri. Più, perché di così gran materia [maniera?], come mi si fanno sperare, non ne ho mai vedute. Meno, perché già si sa che questa fu la manifattura più celebre, più famosa e più alla moda nella Corte di Messico; l’istesso appresso a poco che quella delle pietre commesse nella Corte di Toscana.

Gli uccelli in quel paese, per la delicatezza delle penne, per l’immensità del numero, per la moltiplicità delle specie, per la varietà e per la vivacità delle tinte, si può dire che servissero di lane e di sete ai tessitori di drappi, agli arazzieri, ai ricamatori: di legni coloriti e madreperle a gl’intarsiatori, di smalti ai miniatori, di filigrane agli argentieri, di fogliami agli ornati; di tocche, di garze, di veli alle comparse, di nastriere [maestrie?] alle gale; in somma di guardarobe universali da supplire a tutte l’esigenze del lusso, della curiosità e della galanteria. Che però non è da maravigliarsi se ne’ parchi reali più riservati si mantenesse del continuo un numero infinito d’uccelli i più rari, non solamente per fasto, ma per utile, mentre ogni anno, nelle stagioni più proprie, come da noi si tondono le pecore, li pelavano vivi per avere le penne e la piuma, della quale, come che fossero molti gl’impieghi, il principale e più maraviglioso era quello di servirsene per questa maniera di pitture, assortendo, mescolando e distribuendo con pazienza indicibile i colori e le mezze tinte, e maneggiando i chiari e gli scuri con tanta maestria, che senz’aiuto di pennello, né d’altri colori più materiali, arrivavano a rappresentare ogni cosa, insino al ritrarre al naturale. Può essere che quest’arte, dopo aver risentito per lungo tempo essa ancora i pregiudizi che corrono indispensabilmente per tutte le altre nella rovina degl’Imperi, sotto i quali hanno fiorito, risorga adesso con l’acquisto di quel miglior disegno che può avere introdotto l’osservazione delle pitture andate colà d’Europa e, se non altro, de’ ritratti, che non possono esservene molti di Velasco, di Caregno, di Chignones, e d’altri eccellenti ritrattisti spagnuoli; e che, dove per l’addietro non v’era da ammirare altro che la diligenza, in oggi vi sia da contentarsi di qualche contorno un poco più al suo luogo. Basta, vedremo.

Io non posso portar più in lungo il dire una parola d’alcuni Arcibuccheri, comparsi ultimamente in Firenze, e de’ quali diedi nella mia prima lettera un po’ di cenno, misurato co’ più rispettosi riguardi che io potessi concepire per la tranquillità della signora Marchesa. Adesso che il colpo non può più arrivare improvviso, dirò col più acciliato laconicismo che questi sono due barri di Guadalacara, di forma di orci da olio, e capaci di sei in sette barili l’uno. Sono bianchi, e solamente dipinti al solito, e forse più del solito con la scopa, di certi rabeschi rossi. Già ella s’immagina che non sono stati donati a me, e le serva di riscontro il sapere che sono in Galleria nella stanza delle Porcellane.

Dopo questi il faut tirer l’echelle, e terminar qui questa lettera; né io farei gran servizio alle terre di Natan a venir fuora adesso con un Buccheretto nero. Per prezioso ch’ei fosse, la signora Marchesa non gli guarderebbe addosso, giusto come quando a un tavolino d’hombre, dopo molte reposizioni, è stata tirata una grossa pùglia, a vedere tre miseri tanti su’l piatto, los mirones tutti se la battono.

P. S. - La signora Marchesa ha da essere obbedita da me anche con suo pregiudizio. Stamani, subito letto la sua, ho mandato a chiedere al sig. marchese Vitelli le due Lettere apologetiche, scritte al signor cavalier d’Ambra, delle quali la signora Marchesa vuol essere servita. Così il copista averà a durare meno fatica che raccapezzarle da miei scartafacci, e per oggi a otto spero di mandarle.




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