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Lorenzo Magalotti
Lettere odorose

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  • LETTERE SU LE TERRE ODOROSE   ALLA MARCHESA OTTAVIA STROZZI
    • LETTERA OTTAVA   Belmonte, 20 settembre 1695.
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LETTERA OTTAVA

 

Belmonte, 20 settembre 1695.

 

Questa certo ha da esser l’ultima; o che io, per dir tutto, avessi a esser più lungo che non è il Guicciardini nell’istoria della guerra di Pisa, o che, per essere meno lungo, avessi a lasciare le plus bel endroit dell’istoria de’ Buccheri.

Restano i più preziosi e i più regalati di tutti gli altri, che sono quelli di Nata, città del regno di Terraferma, e per l’Indie non piccola, e assai popolata, posta in mezzo tra il porto di Dariel e Costa Ricca, o Veragua, in distanza di venti leghe per mezzogiorno dal promontorio e porto di Panama, metropoli di quel regno. Nel distretto dunque di Nata si trova in abbondanza una creta che può dirsi l’Indie di que’ poveri Indiani, la ricchezza dell’odore, che v’è naturalmente impastato, supplendo assai più lautamente alle loro necessità che non supplisce alle nostre superfluità la ricchezza dell’argento e dell’oro. Di qui è che in Nata tutta la plebe lavora e fa negozio di vasi di creta, né può concepirsi lo spaccio immenso che ne fanno non solamente per tutto quel prolatissimo [popolatissimo?] regno e per la città di Cartagena, che per il comodo della vicinanza si provvede tutta quivi, ma per l’Isole di S. Domenico, Porto Ricco, la Giamaica, le Canarie, e per Spagna ancora.

Qui ecco subito attaccata una lite coBuccheristi, de’ quali ciascheduna delle tre razze ha il suo partito: altri essendo per Cile, come il più grazioso; altri per Guadalacara, come il più ricco; altri per Nata, come il più maestoso. Il pretendere adesso di decidere chi abbia ragione, è un andare a caccia di farsi malvolere allo sproposito, e, quello che è peggio, per lo più, da dame, delle quali, benché non lasci d’essere un favore anche l’odio, come quello che è sempre un’implicita confessione di qualche stima verso la persona odiata, egli è finalmente uno di quei favori che sollecitano più la ragione che il cuore. Mi dirà la signora Marchesa che io mi metto sul misterioso dopo aver di già propalato il mio voto in aver chiamato i barri di Nata i più preziosi e i più regalati di tutti gli altri. Io mi dichiaro d’aver parlato secondo l’uso, non secondo la scienza, la quale, benché io sia disposto a comunicar senza invidia, confesso che in questo caso non mi fo franco d’averla abbastanza imparata per me medesimo. A me succede di queste tre sorte di barri come di tre sorte di fichi e di tre sorte di gelsomini, che appresso di me quello che di mano in mano ho davanti si porta via il masgalano quasi sempre. Intendo a istituire il paragone tra i più perfetti nella loro specie: e in questi termini dico che non mi trovo meno intrigato fra i barri a decidere tra Cile, Guadalacara e Nata, che fra fichi, tra gentili, dottati e brogiotti, e fra gelsomini, tra salvatichi, Catalogna e Gimè, benché, a dire il vero, m’abbia da poco in qua fatto su quest’ultimi un gran colpo una decisione della Ruota degli Arcadi coram Nitilio, veramente magistrale, e che, sostenuta dal suo motivo, mette un aspetto molto vantaggioso nelle ragioni de’ primi:

 

Al pari del gentile

L’agreste gelsomin spunta odoroso.

Sembra negletto, e vile

Su povero virgulto ha il suo riposo:

Ma non è già men vago

Di quel del Nilo o pur di quel del Tago.

Così talor più piace

D’una nobil beltà, rustico volto;

E sembra più vivace

Selvaggio amore in rozzi panni involto;

E la greca bellezza,

O non appaga a pieno, o si disprezza.

 

Non può tuttavia negarsi che la pubblica voce e fama non sia a favore de’ neri di Nata: ed io osservo che di quanti barri ho veduto legati in oro o in argento, la maggior parte sono stati di questi; di Cile pochi, e di Guadalacara nessuno. Vero è che su questo non mi ci confondo gran fatto, potendo la cosa, per la prima venir di molto dall’opinione, e in secondo luogo dal migliore spicco che l’oro e l’argento fanno sul nero, che sul rosso e su l’argentino. Ma ci sono degli altri fondamenti più massicci, sui quali ho che possa essere stata appoggiata questa primazia. Uno, la maggior rarità, certa cosa essendo che, in ogni raccolta che m’abbatto a vedere, i neri sono sempre i meno. L’altro, l’odore. Diceva il Galileo, paragonando insieme il Tasso e l’Ariosto: «Il Tasso è un campo di cetriuoli. Partitene uno è buono, partitene l’altro è buono, tutti sono buoni a un modo. Non così d’un campo di poponi. Questo sa di zucca, quello di petonciano, quell’altro cetriuolo effettivo: ohimè che miseria! Per poco vi verrebbe esclamato: siano pur benedetti i cetriuoli. Quando a un tratto date in uno di quelli che, o vogliate per il colore, o per l’odore, o per il sapore, o per la pasta, non si può far di più. Alla malora i cetriuoli: vagliono più le scorze di questo solo popone che la polpa di quanti cetriuoli sono stati e saranno nell’universo mondo». Lo stesso paragone, ma però in termini più discreti, direi forse che si potesse applicare all’odore delle terre di Cile e di Guadalacara da una parte, e di quelle di Nata dall’altra; dico, in termini più discreti, poiché, per quanto il paragone del popone torni a questi, quello de’ cetriuoli non torna assolutamente a quelli come troppo ingiurioso alla nobiltà della loro fragranza. Questo è ben vero, che, per quello poi che risguarda una certa più regolare uniformità d’odore delle terre di Cile e di Guadalacara, il paragone di quella ineffabile uniformità di sapore tra cetriuolo e cetriuolo s’adatta loro a capello; come a capello s’adatta a quelle di Nata l’esempio delle grandissime disuguaglianze e degli orribili altibaxos di sapore tra popone e popone. E come tra cento di questi se ne trova pur uno che affoga tutti quegli altri, così tra cento barri neri se ne trova finalmente uno che, se non affoga, fa per lo meno dare un tuffo a tutti i bianchi e a tutti i rossi. E su questa fortunata eventualità, non estesa ad alcuno individuo dell’altre due razze, stimo che sia fondato il Diploma del Trattamento regio, consentito a tutta l’agnazione de’ neri, ad esclusione di tutti gli altri. Vero è che, per andare questa corona in capita, e non in stirpes, ne viene che questo Trattamento regio si riduce di molto a precario; venendo loro contrastato da molti, che preferiscono a questa, dirò, saltellante e disgregata monarchia le due fermissime e unitissime democrazie di Cile e di Guadalacara. Che però mi sovviene in questo punto di rassomigliare la sua sorte [nel] temporale a quella che ha nello spirituale la liturgia anglicana, in Inghilterra, in Scozia e in Irlanda, che, con essere la religione del re e dello stato, ell’è meno d’ogn’altra la religione delle coscienze. Senza intendere io per tanto di far violenza alla libertà di queste, se così pare alla signora Marchesa, anderò discorrendo sopra i barri neri, menando loro buone le ragioni della lor pretesa sovranità.

Il loro colore è nero, più o meno lustro secondo la più perfetta o vernice o brunitura, ma non mai così lucente a un pezzo come il vermiglio di Cile. La forma, nella maggior parte, sorella carnale di quella di Guadalacara, ma con tutta questa simiglianza d’aria, le fattezze, non dirò disegnate un poco meglio, ma un poco manco male. Vero è che, come questo è il secolo del buon gusto, della delicatezza, della galanteria, bisogna dire che anche ai Buccheri ne tocchi la parte loro. E certo in quelli di Natan io ci veggo questo miglioramento a occhiate, e la ragione credo che sia la medesima che raffina anche gli uomini: la stima che vien fatta de’ loro talenti, è il premio che ne conseguiscono.

Venivano questi vasi in Europa in quel loro stato, per un mo’ di dire, di natura pura; potendosi contare per poco più che per natura l’arte di que’ buoni Indiani. Se per loro disgrazia gl’Indiani erano in mano d’una nazione salvatica, spinosa, e insensibile ai piaceri gentili e delicati, figuriamoci de’ Moscoviti o de’ Samogeti, e che i Buccheri di Natan andassero a sbarcare alle bocche della Dvina o dell’Oby, una delle due: o che dalla prima volta in su non ne venivano più, o che, venendone, servivano a berci dentro o l’acquavite o qualche pazzo beverone, senza che nessuno arrivasse mai a accorgersi che sapevano di qualche cosa, o, accorgendosene, correvano risico che quella loro fragranza si battezzasse più tosto per puzzo che per odore. La loro buona sorte, con averli resi sudditi d’una nazione, che, come diceva il poveretto del Marchese di Grana del conte Taaff, sa se battre en buffle et vivre en damoiselle, li ha fatti sbarcare a Cadice, di dove, passati a una Corte la più delicata del mondo, e conosciuti per quello che sono, diventati subito la moda, la curiosità, la delizia dei grandi e dell’istesse persone reali, o arrivi un forestiere di qualità, o s’ammali un cavaliere, o si cavi sangue una dama, eccoli subito correr Madrid su le guantiere in qualità del maggiore di tutti i regali; nelle gallerie, sopra gli studioli per lusso, ne’ gabinetti, su per le tavole per rarità, ne’ quarti de las señoras, en los escaparates para adorno de los estrados; le monache generalmente farsi un negozio particolare e un’occupazione continua di rialzar loro l’odore naturale con l’artifiziale, profumandoli con profuse lavande d’acqua d’ambra e con suffomigi preziosi di pastiglie e di profumiere; gli argentieri, gli orefici, divenuti tutti tessitori di filigrane d’argento e d’oro per abbigliarli di piedi, di manichi e di coperchi; gli ebanisti non aver maggior lavoro che di cassette, di studioli, arquitas y cofrezillos di legni preziosi per conservarli; i bottiglieri, i profumieri, i distillatori tutti lambiccarsi il cervello a spremerne aliti per via di semplici contatti e di varie infusioni; gl’ipocondriaci sognarci dieci virtù occulte per debolezza; i medici andarne d’accordo per simplicità o per adulazione. I fiori non più stimati; le spezierie, i balsami dichiarati odori all’antica; l’ambra appena guardata in viso, l’oro e l’argento degradati, le gioie ingelosite, in somma per esser in Spagna qualche cosa conviene a ogni costo esser barro nero, e da tutti questi applausi, da tutte queste carezze, da tutte queste mercedi, che ne segue? Ne segue che in Spagna ognuno ne vuole, di Messico ognun ne manda, l’uomo, la donna, lo Spagnuolo, l’Indiano, chi per vecchio, chi per ragazzo, chi per acciaccoso, chi per infingardo, chi per dappoco e chi per miserabile, incapaci di fare ogn’altro mestiero, ognuno ci traffica, ognuno ci vive. Il vicerè, la guarnaccia, il soldato, il cavaliere, la dama, il prete, il frate, la monaca, ognuno si picca, ognuno ci sottilizza, ognuno ci raffina quello l’impasta col mustio, quello coll’ambra grigia, quell’altro col belzoar; ognuno se ne fa un divertimento in casa, un capitale di merito, d’amici, di protezione, di speranze alla Corte. Alla Corte, il nunzio, l’imbasciatore, l’inviato, il residente, l’agente, ognuno impara a conoscerli; tutti ne fanno incetta uno per delicatezza di genio, un altro in ossequio della moda, ognuno ci si affeziona, ognuno ne manda, ognuno ne porta al parente, all’amico, alla dama, al padrone; a poco a poco se n’empie la Francia, l’Inghilterra, l’Alemagna, l’Italia, insino le Corti del Nord se ne fanno una scuola di delicatezza per mansuefare la ferocia delle proprie inclinazioni: da per tutto il curioso, l’erudito, il filosofo, ci osserva, ci studia, ci raziocina. Il cortigiano, il soldato, il principe, una volta che arrivino a conoscerli, l’hanno in pregio, e le principesse se ne adornano in conversazione delle perle ai polsi, al petto, ai capelli; le dame ne smaniano, e finalmente, per colmo della gloria di queste terre, la signora marchesa Strozzi se n’innamora. Tanto vuol dire al merito, come per l’utile suo proprio, che per quello degli altri, la fortuna d’esser conosciuto e la giustizia d’esser premiato.

Io pensavo a ogni altra cosa, quando dianzi detti in questa riflessione, che l’avere a trascorrere in questo entusiasmo, nella sfuriata del quale trovo, adesso che rileggo, d’aver messo in episodio tutta l’istoria particolare de’ barri neri, onde potrei far conto d’aver finito con la lettera anche l’Istoria universale di tutti i Buccheri. Con tutto ciò, considerando d’aver toccato alcuni vasi di questi barri, che s’adattano ancora a tutti gli altri dell’Indie, anderò adesso facendo un commento, il più stretto che mi sarà possibile, ad alcune poche cose che maggiormente lo richiedono.

Gli odori di tutte e tre queste terre dell’Indie sono, non è dubbio, nella medesima scala, avendo tutti per fondo quell’aromatico del quale dissi più che a bastanza con le passate, ma gli scalini non sono eguali. Se l’odore di quella di Cile, che metto per l’ultimo scalino, è, diciamo, once sei e mezzo del palmo romano, quella di Guadalacara sarà ben nove. Di quello di Natan la regola è più fallace, pare a me, che di tutti gli altri. Più alto di Guadalacara suol esser sempre, ma il quanto varia assai assai, arrivando e talvolta ancora passando le dodici, che vuol dire il palmo intero. Io me ne trovo ancora da quindici o venti di certi piccolissimi, che mi donò l’anno 73 Don Pedro di Oritia, veditor generale in Brusselles, stato più anni non mi ricordo se nel Perù o in Messico. Posso dire che simili a questi non n’ho veduto nessuno, e pure ne ho veduti parecchi. Io li riconobbi subito per cosa così superiore che ne mandai in un piego, non so se una dozzina, al Granduca. Degli altri ne regalai una coppia per una a diverse dame in Fiandra e in Italia, per attaccarli a uso di puntaletti ai cordoncini da serrarsi al petto il fisciù, che allora era palatina. Questi che mi sono rimasti hanno durato, per questo poco tempo di ventidue anni, a servirmi di molte volte la state d’una spezie di balsamo asciutto, tenendoli in un cocco traforato per odore, e spessissimo bagnati. Le volte poi che li ho inzuppati d’acqua, per fare sentire ai miei amici barbari che cosa è il barro negro, non si sanno a decine a decine. Sono veramente cosa profonda, e mi creda la signora Marchesa, che di state, in certi giorni affannosi, in quelli particolarmente di scrivere, quando ho talvolta preteso di regalarmi, tenendoli in una porcellana davanti alla cartella coperti d’acqua, con pigliarne a ogni tanto qualche sorso, mi ricordo d’aver mai potuto finir la giornata senza levarmeli davanti; tanto era fiera e di tanti odori alterata quella vampa a freddo dell’alito che n’usciva. Quest’anno mi sono accorto per la prima volta che hanno cominciato un poco a allentare; ma son certo che a ognuno, anche intendente di barri, che non li abbia sentiti nel loro fiore, parranno una gran cosa in ogni modo.

Giacché siamo su questi Buccheretti, dirò, per modo di comento a quel che ho detto di sopra, che servono anche per adorno personale. Che la loro figura è di bottoncini tondi, ovati, perette, e simili; forati, o da una parte sola da legarli in oro a uso di gocciole per adattarli a pendenti da orecchi, o da tutt’e due, per infilarli in golette, in maniglie, in fili da avvolgerli in capelli, o soli o tramezzati con perle; o con gastoni d’altre gioie, e questi, siccome altri dell’istessa piccolezza e d’altre qualsisiano figure, in Spagna li chiamano filis, cioè grazie, facendo servire (né solamente in quest’occasione) il nome di una ninfa graziosissima, quale doveva esser Filli, per nome antonomastico della grazia istessa.

Questa maniera di gala aveva preso tanta voga in Madrid tra le dame, che, non supplendo i filis dell’Indie, avevano cominciato a falsificarli, come seguitano tuttavia, contraffacendone la pasta, e supplendo all’odor naturale con l’artifiziale. Nella fattura però i falsi hanno vantaggio sopra i veri, facendosene in forma d’amorini, di cuori frecciati, di pistole, di pugnaletti, e d’altri geroglifici su questo andare, da portare in petto, dove si mettono i bocchetti [buccheretti?] de’ fiori, e all’ombra dei fiori medesimi, accoppiando così l’odore al mistero, anzi rendendo il mistero odoroso, e l’odore misterioso. E già tra gli interpreti di questi gerghi o geroglifici amorosi passava in giudicato che un amorino di barro rosso volesse dire amare e ardere; uno di barro nero, amore senza speranza; una pistola, vendetta; e così di mano in mano. Ma in oggi che le miserie del secolo ammortiscono il brio in tutti i paesi, intendo che anche in Madrid non si veggono più filis, né s’usano più misteri, almeno così correntemente come pochanni addietro. Io n’aspetto certi che averebbono a essere attualmente in viaggio per mare, e, arrivando, la signora Marchesa ne sarà servita di uno per mostra. Dico d’uno, perché, trattandosi di Buccheri, ancorché falsi, con chi li stima tanto, diventa esuberanza di finezza la parsimonia del regalo.

Tutti questi barri dell’Indie, in mare è certo che non acquistano, e quando arrivano in Spagna, benché l’odore non si muti, né si perda, se gli riconosce tuttavia lo sbalordimento, e dirò la mareggiatura, onde pochi sono quelli che, un po’ più o un po’ meno, non abbiano di bisogno di qualche ristorativo. Le mediche esperte di questi infermi, mi par d’intendere in oggi che in Madrid siano le monache del monastero della Baronessa, che sono recollette carmelitane, dove sogliono andare più spesso quelle Maestà, e, più di tutte, la regina madre, e in tali occasioni le monache regalano sempre barros aderezados. Per aderezar un barro intendono levargli l’odor del mare, ritornarlo nel suo naturale, e rialzarglielo con profumi. L’ordine di questa cerimonia, per quello che costa in processo dalla deposizione d’una di queste signore, che ho fatto esaminare da un amico mio, è il seguente. Subito venuti d’India, i non dipinti sopra il cotto, né toccati d’oro o d’argento, li tuffano in acqua chiara una o più volte, e poi li distendono su i palchetti di certi armadi, o più tosto scansie senza sportelli, chiudendole in quello scambio per cautela con certi telai ingraticolati a uso di gelosie, perché vi vada la polvere, la quale importa che vi si attacchi sopra, in tanto che sono a quel mo’ umidi, pretendendosi che quella crosta, trattenendo l’effluvio dell’odore, glielo venga come a serrare in corpo. Stati parecchi giorni al tormento della polvere, li bagnano ben bene da dritto e da rovescio con acqua d’ambra, e quante più volte tanto meglio. L’ultima volta, asciutti che sono (che asciugano in un momento), li mettono a profumare con pastiglie da fuoco delle più ricche, e subito cavati dal perfumador, li serrano in casse o tamburetti, o di cipresso, o di cedro, o d’aloè. Ai dipinti, dalle immersioni e dalle lavande in poi, si fanno le medesime cerimonie, e solamente quelli che non hanno patito dal mare si lasciano nel loro odore naturale senza far nessuna diligenza di curarli, ma però sempre serrati ne’ loro tamburetti; toltine quelli condannati agli scarabattoli per rimanere a far mostra nelle camere di parata. E questo ancora si potrebbe comportare: che almeno questi averanno sempre un cristallo davanti, e spesso di dentro una fodera d’ermisino, quanto serva a levar loro quel duro recubito sul nudo legno. Ma certi che ne veggo talora su per le tavole e su per gli scarabattoli, vi sarà poi una tazzetta d’agata o d’ambra gialla: mi verrebbe pure la bella voglia, per sottrarre quei mal arrivati Buccheri da quell’obbrobrioso modo di morire per revoluzione, di pigliarli, e, gettandoli fuori delle finestre, usar loro quell’istesso tratto d’amicizia che il marescial d’Oguincourt pensò d’usare al suo amico Lafrette; il quale, ridotto all’estremo da una febbre lenta, che lo consumava come una candela, il maresciallo non potendosi dar pace che un sì bravuomo, e che s’era battuto con Beuteville, avesse a morire come una femmina, preso fuoco in questo suo zelo, tira su una pistola, e gliela spara alla volta della testa per farlo morire en homme de coeur, come certo seguiva se un Gesuita, che era per raccomandargli l’anima, non gli dava nel gomito e non gli faceva mancare il colpo. Indiscretezza che parvegrande al maresciallo, che, presa in ira a quel conto tutta la Compagnia, si buttò da quell’ora medesima dalla parte de’ Giansenisti.

Ma, tornando al modo di custodire i barri, io fo loro qualche cortesia di più: e avendo avuto ultimamente l’onore di servire la signora marchesa Berenice Vitelli in accomodarlene un grande studiolo, dirò il modo come mi son contenuto. La prima cosa ho fatto profumare le cassette, durando otto o dieci giorni a farle passare parecchie volte il giorno con una spugnetta inzuppata in diverse acque di fiori, ma più di ogni altra con quella di triboli, alterata con garofani. Poi le ho fatte foderare d’ermisino color di perla, [per il] colore che s’adatta meglio a far servizio al teint d’ogni sorta di barro, stemperando il diagrante in acqua di fior di arancio, tutta foglia di tribolo, col fior d’arancio, come mi pare d’aver detto un’altra volta, essendo i fiori che legano meglio con l’odore di tutte queste terre. In fondo delle cassette ho messo guancialetti imbottiti di cotone, addobbato per parecchi giorni nel perfumador, prima con fumo di balsamo bianco in lacrima, e poi con quello di paste ricche, bollite in acque di fiori, a fine di smussare un poco l’acutezza del balsamo, senza pregiudicare a quel suo aromatico così ricco e soave. Su questi guancialetti ho posato i barri, assortiti, sorta per sorta, mettendoli tutti in piedi, e sepolti dal mezzo in giù nel suddetto cotone addobbato, per non impedire il commercio vicendevole tra l’esalazione d’un barro e l’altro, e perché, imbevendosene l’istesso cotone, ritenga a benefizio di tutti il deposito dell’odore ch’ei riceve da tutti. Accomodatili in questa forma, ho messo in ogni barro un pugnetto di ritagli di pelle d’ambra, e su la considerazione che niente importi tanto come il tenerli ben guardati dall’aria, la quale, a lung’andare, li smugne, per così dire, di quella loro untuosità, nella quale si fa conserva dell’odore; fatto, prima di foderare le cassette, scavare nella grossezza dell’orlo delle sponde d’ognuna di esse un piccolo incastro, in difetto di cedro e d’aloè, ho fatto adattare in tutte un’assicella di cipresso del più grosso che abbia potuto trovare, fermatovi sopra un capo [cappio?] di monpariglie, quanto serva a poter alzar la lapida senza aver ogni volta a storpiarsi l’ugna, e da non impedire il cavare e rimettere dentro la cassetta. Ritorniamo al monastero della Baronessa.

Non solamente queste buone signore, ma tutte generalmente le curiose di barri hanno per massima, anzi per legge fondamentale, di non tenerli mai fuori de’ suddetti bauletti, se non quando, una volta in cento, per regalar sé o qualche amica che venga a visitarle, ne cavano uno per farci una bevuta d’acqua, e, subito rasciutto, serra. Con avere in oltre una grandissima avvertenza: quello che ha servito questo mese a non cavarlo insino a quest’altr’anno, scompartendo, sempre con una esattissima uguaglianza, il peso di queste piccole servitù, per modo che l’uno non resti più aggravato dell’altro, e così ognuno abbia tempo di riaversi dalla fatica e di riparare la perdita degli spiriti fatta in quel penoso monastero [ministero?].

La figura di questi conservatori è per il più di tamburetti bislunghi, e se sono casse riquadrate, pure hanno il coperchio a tamburo, maggiori o minori secondo che c’è la comodità del legno. De’ legni l’infimo è il cipresso, e si cerca di pigliarlo nodoso perché il sugo e il grasso maggiore sta nei nodi. Il cedro è più stimato assai, e con ragione. Io fui una volta così semplice che, tenendomi stretto al senso litterale, lo credetti cedro veramente, simile al nostrale, e ne commessi a Genova per averne da San Remo tronchi capaci d’ogni lavoro. M’accorsi poi della mia dolcitudine, quando, venuta la mercanzia, mi accorsi che dal cedro all’albero, o albuccio, come si dice costà, non non v’era maggior differenza nell’odore che dalla ghianda di quercia a quella di leccio nel sapore. Venutami poi di Spagna, con la notizia, la mostra del legno (che colà, benché ogni altra cosa sia che cedro, pure tutta la gente migliore chiama cedro, e solamente i legnaioli, e spesso anche le donne, zidra), trovai che vien d’America, dove non è in maggiore stima di quello che sia da noi l’abete; e, di fatto, questo è il legno usuale del quale si fanno i cassoni delle pezze da otto e dell’altre mercanzie che vengono in Spagna, dove si fa a gara per farne di questi arnesi da conservarvi non solamente i barri, ma abiti, biancherie, scritture e altro, giusto come ne’ paesi del Nord si fa incetta delle casse di cipresso per farne tavolini e studioli. È però l’odore del zidra altra cosa che quello del cipresso: meno pieno, questo bensì, e forse crederei ancora di minor durata ancora, incomparabilmente più docile, più amabile, in somma di quell’aromatico allungato che regna in tutto il terreno d’America. La ragione del valer così poco è la solita di sempre: l’abbondanza; venendomi scritto che, oltre alle grosse travi e puntoni da fabbricarvi sopra che se ne formano, se ne trovano tronchi così orribili che se ne cava una canoa tutta d’un pezzo. Prima di segarli per uso delle fabbriche, usano tenerli in purgo un certo tempo sott’acqua, anzi mettono per una singolarità dell’acqua del lago, nel quale è fondata la città di Messico, che quelli purgati quivi, poco meno che non impietriscono, e che tarlano meno di tutti gli altri. Il colore tira al ciliegio. La grana, in generale, è assai serrata, e in conseguenza capace di qualche lustro, ma è tutta venata di certi andari spugnosi, ma stretti, che mi hanno aria d’essere come i condotti dell’odore. A Madrid però questo legno ha un altro suono, parendomi che una cassa da pezze da otto vaglia ordinariamente intorno a sei delle suddette pezze.

Dell’aloè, che è il più nobile di tutti, e che in Spagna chiamano correntemente leño áloe, finora non ho trovato chi me ne dia notizia. Dai lavori però che ne veggo venire, coroncine, rosarini, scatolini, cassettini, e tutte cose che finiscono in ino, argomento che sia in stima anche nel paese; e dal prezzo che vale, e dalla difficoltà che spesso s’incontra per averne in Madrid, finisco d’assicurarmene, essendo radi e non molto grandi i tamburetti che se ne veggono sodi, su i quali non s’hanno per male impiegati diversi lavori di fogliami o di filigrane di argento, e talvolta anche di oro; quelli un poco maggioretti essendo sempre impellicciati di laminette sottili assai. Il colore, la tenerezza, la leggerezza, similissimi al fico. L’odore soavissimo; ma forse direi che fosse l’aromatico che si emancipa il più da quella pastosità che suol essere il maggior distintivo di tutta la fragranza di questo paese, avendo una punterella un tantino stilettata all’orientale, ma il tempo gliela suole smussare.

La ragione di tenere i barri dell’Indie più tosto in questi legni che in altri, credo che sia per una certa corrispondenza che ha il loro odore con quello de’ medesimi barri: non che sia veramente l’istesso (come tra i colori non è l’istesso il turchino celeste e il perlato), ma egli è finalmente in quella scala, che però, quando se glie ne attacchi, non s’attacca loro niente d’estraneo. Così (per spiegarmi con un esempio, credo, assai adeguato) quella polvere ranciata del Messico, che in Spagna chiamano più comunemente polvos de chocolate, e noi qui in Firenze, per corruzione del nome d’uno de’ suoi ingredienti, «sciotta», è certo che è il più regalato condimento che s’usi sul cioccolate, polverizzandone quell’ultima superficie colma della spuma che rimane sollevata su l’orlo della chicchera. Perché, se bene, a misura che cala il cioccolate, cala questa polvere ancora, la quale si regge a galla su la spuma insin da ultimo, tuttavia nel pender la chicchera verso la bocca, ella vien sempre a lambire, o, per dir meglio, a frangere al labbro superiore, tenendosi sempre vicina alle narici, e incensandole, per così dire, di sotto in su, tanto che, votata la chicchera della parte fluida della bevanda, viene per ultimo regalo quella spuma a quel modo polverizzata, che, dopo aver fatto la sua corte al naso infinché si è durato a sorbire, da ultimo la fa anche alla lingua, permettendole [promettendole?] di distinguere in quell’ultimo sorso, quasi a secco, quell’agretto tanto grazioso in che consiste, a mio credere, la maggior delizia di questa polvere. Ora che cosa ha di più questa polvere di tant’altri odori, che in questa Corte abbiamo introdotto di dare al cioccolate: prima, quelli di tutti i fiori, e poi quelli degli agrumi, impastandolo con le scorze fresche del cedrato, della bergamotta, dell’arancio di Portogallo, dell’arancio forte, verde, che è forse il più grazioso di tutti? Non altro, se non che tutti questi sono di quei ministri che fanno incetta di scoprire il debole del padrone per rendervi sopra più riconoscibile il forte della loro scuola: dove la polvere del Messico s’adatta a servire il cioccolate in una maniera così ben tagliata a suo dorso che possa apparire del padrone anche il suo. Vuol vederlo la signora Marchesa? Eccone la ricetta, che viene da persona stata in Messico. Cacao tostato, vainiglia, cannella, zucchero con odore o senza, fior di farina di mayz, che è quella che le quell’agretto, e tanta polvere d’acciote quanto serve a dare il colore, essendo l’acciote per sé stesso insipido: non ved’ella, che, dal mayz e dall’acciote in poi, non c’è cosa che non sia nel cioccolate, e che di questi due ingredienti nessuno ha qualità talmente riconoscibili per loro stesse che galleggino né sull’odore, né sul sapore del cioccolate, benché tutte insieme si diano come invisibilmente di mano a fargli fare uno spicco maggiore? Con l’istessa modestia, con l’istesso disinteresse, con l’istesso zelo facciamo conto che servano ai barri dell’Indie il cipresso, la zidra e il leño d’áloe. Che però nell’onore che hanno d’alloggiarli, non dànno loro solamente caserma, ma le spese ancora, costumandosi dai più delicati amatori di questi vasi il tenerli continuamente pieni di piallature finissime dell’uno e dell’altro legno, o di due, o di tutt’e tre mescolati insieme, secondo l’esigenza delle varie complessioni de’ medesimi vasi. Ne’ più deboli d’odore, il cipresso; ne’ più robusti, la zidra, l’aloe; in quei di mezzo, la zidra e il cipresso mescolati in varie dosi proporzionate al bisogno.

Giacché abbiamo parlato della polvere da cioccolate, diciamo una parola del nome di sciotta, che le abbiamo dato qui in Firenze. La signora Marchesa ha già inteso a quest’ora che è stato un equivoco nato dall’avere qualcheduno sentito dire che in questa polvere c’entrava una droga chiamata achote, che col regalo d’un s di più è subito diventata sciotta. Quello che sia el achote o l’acciote, eccoglielo in poche parole, secondo che l’ho di Madrid da persona curiosissima delle cose dell’Indie. Questo è un seme come il miglio, che nasce d’un’erba che fa nel Messico. Il suo frutto è come quello della pianta del cotone, o bambagia, ma non sì grande, ed è triangolare. Rottane la corteccia, ne cavano i semi, che sono tutti rinvolti in una materia crassa, come una muffa molto spessa, e questi in grandissima quantità li mettono a bollire in acqua tanto che restino spogliati di quell’invoglio. Allora li cavano e gettano via: e lasciando bollir l’acqua insino che resti svaporata tutta, rimane in fondo quel muco, o sia muffa, come una salsa o pasta assai liquida, e questa formano in pani della forma che vogliono più o meno grandi, ed è questa un tinta rossa, terribile quanto al colore, ma innocentissima quanto al nutrimento, e insipidissima quanto al sapore. Un zafferano rosso profondo, ma senza odore alcuno immaginabile, e dove se ne mette, se ne mette appunto tanto come dello zafferano, che vuol dire solamente per tignere, e lo fa così bene che le macchie che fa su la biancheria non se ne vanno mai. In Spagna se ne fa gran consumo, e in specie in colorire diverse vivande. Vale l’acciote in Madrid secondo i tempi: quando è a buon mercato, tre pezze la libbra, e quando è caro due doble, e alle volte non se ne trova per danari.

Giacché dal gabinetto a poco a poco sono sceso in credenza, e avvicinatomi alla cucina, si può, nel tornare in su, passare per la fonderia, ed essendosi parlato dell’acciote, fermarsi un tantino sul nuovo prelibato tabacco di Tuncar, indiziato da poco in qua, da falsi testimoni, che quel suo bel vermiglio così acceso possa alle volte essere aiutato da un po’ di liscio, prestatogli dalla mescolanza di esso acciote. Perché io so che la signora Marchesa non ama regalarsi di delizie che abbiano di bisogno che i loro amatori le sostengano per innocenti con la spada alla mano, io ho scritto tabacco in piano senza velarlo con la cifra di sorbetto, come hanno introdotto di chiamarlo alla Corte di Spagna le dame che ne pigliano, credo, per non confessare di propria bocca d’avere nei più intimi ripostigli del loro genio incongruità, benché minima, con la galanteria, e, in una parola, qualche vena di diletto, che possa dirsi a comune coi dragoni.

Fa questo tabacco in America nel nuovo regno di Granata, che si distende tra i quattro e i sette gradi di latitudine boreale per levante al Rio Bogotta. Benché il terreno ne produca in grand’abbondanza in molte parti, il più perfetto è quello che si raccoglie nel distretto della città di Tuncar, posta tra Santa di Bogotta (città situata su questo fiume, e dove si marcano le doble, che passano a Spagna e corrono per l’universo mondo) e tra Caraca, di dove viene il migliore e il più regalato cacao.

Questa città di Tuncar, benché non si trovi ordinariamente su le carte, come lontana dal mare, e non metropoli di regno, né, in conseguenza, residenza di vicerè, né sede di reali udienze, con presidente e reggenti, non è tuttavia così oscura e inconsiderabile, che ella non abbia il corregidor, e le religioni mendicanti tutte, e monasteri di monache, e buon numero d’abitanti, e, quello che più importa, di molta nobiltà spagnuola, progenie di quei primi conquistatori: la maggior parte de’ quali con le loro famiglie, scoperto e assoggettito alla corona cattolica questo nuovo regno, scelsero questo nuovo sito non solamente come fertilissimo, ma come il più ameno e salubre, in somma come il paruto loro più simile a Spagna. È la città, fondata vicino a una collinetta, ricchissima per le cave degli smeraldi (che sono assolutamente i più perfetti che si vedano in Europa di quelle parti): è mirabile per la produzione copiosissima d’un’altra sorta di pietre, di pochissimo valore in riguardo alla materia, ma singolarissime per la circostanza d’essere tutte naturalmente di figura di dado, segnate in ciascheduna faccia d’una macchia in forma di croce. Non è anche da tacere alla pietà della signora Marchesa come in vicinanza della città, e di questa medesima collina, v’è una chiesa fabbricata in onore d’un’apparizione della Beatissima Vergine, a somiglianza della cui immagine, detta di Nostra Signora di Cinchincina, benché sia infinito il numero delle statuette che gl’Indiani del paese formano della terra su la quale è tradizione che posassero i piedi della Vergine, corre una pia [più?] antiquata credenza che questa terra non sia mai scemata, né scemi tuttavia d’un solo carato.

Ora, per venire al tabacco, egli è, direi, come la felce; felce di buon augurio, felce che indovini ricchezza e magnanimità di terreno, la quale viene di sua cortesia per tutti i sodi d’una vastissima campagna, in mezzo alla quale sta Tuncar; campagna (mi dice chi l’ha veduta) di vero paradiso terrestre: fertile senza coltura e deliziosa senz’arte, tutta coperta d’alberi buonevoglie da frutto e da ombra, e vestita d’innumerabili erbe, la più doviziosa delle quali è il tabacco, tocco d’un verde così smeraldino che non si può far di più. Ai suoi tempi la povera gente di Tuncar esce a sbarbarlo, seccarlo e macinarlo in una abbondanza così prodigiosa che supplisce al consumo di tutte l’Indie, senza contare quel poco che ne viene in Europa, che, in comparazione di tutto il resto, è bagattella. Non è dubbio che questo tabacco nel seccarsi piglia un colore di rosso [rosa?] più acceso che in nessun altro paese. Ma egli è però anche vero che con questo solo non arriverebbe a quel vermiglio tanto vivo che gli si vede in faccia, in qual più e in qual meno, senza la mescolanza d’un’altr’erba, che vi mescolano nel macinarlo, d’un colore più sfacciato, e creduta molto confortativa e salubre, benché la vaghezza del mettervela miri più alla bizzarria del colore che al comodo della sanità. In Santa ancora in oggi se ne fa di moltissimo, siccome in altri luoghi assai. Vero è che siccome qui da noi, dal Poggio Imperiale in su tutto il vin bianco è verdea, e da San Quirico in tutto il vin rosso è Montepulciano, così in tutta la Nuova Granata tutto il tabacco è Tuncar. Noi siamo stati così buoni che l’anno 88, quando la Corte era in Livorno, lo pagammo insino a quattordici pezze da otto la libbra, e questo istesso è cagione che adesso l’abbiamo a più che la metà meno. Ma, strana cosa, certo è che allora, tutti quanti eramo, per una tabacchiera di Tuncar non so quello che non ci avessimo fatto: e pure in pochissimo tempo se n’è perduta non solamente la gola, ma il diletto, e, quello che mi par mirabile, senz’essersene perduta la stima; perché chi lo ha lo tien caro, considerandolo per una spezie d’aroma, niuno revocando in dubbio ch’ei non sia un tabacco diverso da tutti gli altri; un tabacco signorile, un tabacco che esce di voce sola e che si fa sentire a coro pieno per modo che da principio avevamo delle difficoltà a credere che non vi fosse della mescolanza, e mescolanza di roba ricca assai; ma non c’è che dire: di noi altri, nessuno in oggi si cura d’impacciarsi cofatti suoi. Un’altra qualità ha questo tabacco: ch’ei piglia i fiori per aria, a segno che, datigli in perfezione, s’arriva a scambiare da esso a’ fiori medesimi.

Ritorno ai barri per l’ultima volta, e dico in una parola sola che gli usi di questi dell’Indie sono i medesimi di quelli di Portogallo, con la sola differenza d’essere tanto maggiore il regalo quanto è maggiore l’odore; entrando io di più mallevadore alla signora Marchesa che si usano così impunemente per la bocca come quelli della Maya, avendone io fatto la salva in certe pastiglie di barri di Guadalacara, che fece fare due anni sono il sig. Marchese Clemente Vitelli, che ebbero un applauso grande; e il mio sig. Marchese Tarquinio Santa Croce, così gran maestro di delizie innocenti, che ne fu servito da me d’un picciol saggio, potrà esserne alla signora Marchesa sicurtà di sicurtà. Quelli di Cile non li ho provati come inferiori; e in quelli di Nata confesso che mi ha dato fastidio il colore, non parendomi giusto il dar tanto al naso e al palato, che l’occhio non ci abbia la parte sua. Oltre di che (questo in tempi così gelosi non si può scrivere in piano, essendo troppi i risichi che può correre una lettera di qui a Roma e poiché io non ho cifra con la signora Marchesa, ella si contenterà che io mi vaglia d’una, che ne tengo costì con un amico, al quale scrivo questa sera, che a lettera veduta gliela mandai sigillata insino a

Io non so

casa). 38441424146 . 4 . veramente quello che sia

nero di questi barri di Nata

del 412442333445 2464733130453333413047141:

ma se non c’è altro mistero che in quello

de’ barri neri di Cile,

3334311453841245383333238392 posso dirle di

buon luogo che non è altro che un bellis-

nero di fumo impastato

simo 4124543338355404234043146471474 con la

creta bianca

solita 3245247131311413230 della quale si fanno

gli altri dai rossi in poi

tutti 3639313947453833145446338414343; ma zitti. Se così pare alla signora Marchesa, ne potremo riserbare l’esperienza alla prima recita del Convitato di pietra, e tornerà benissimo anche al costume, ché a una cena data da un cavaliere spagnuolo, come il gran Commendatore di Ullhoa, la confettura sia tutta di pastiglie di barro nero. Io dico da burla, ma può essere un pezzo che altri abbia fatto questa esperienza da vero, non essendo niente inverisimile che il barro nero facesse una gran figura, non solamente nella credenza, ma anche nella bottiglieria di Montezuma, quando ci si tratteneva in quel suo palazzo da bruno, detto la Casa del dolore, dove era solito di ritirarsi nelle morti de’ suoi più stretti congiunti e in occasione di pubbliche calamità o d’altri infelici successi che richiedessero le smorfie d’una politica malinconia. Anzi, a ben considerare, negli scrittori della conquista della Nuova Spagna, la struttura di questo strano ritiro, non sarei lontano dal credere ch’ei potesse essere stato tutto di barro nero. «Spaventoso edifizio, dice D. Antonio de Solis, orribile architettura: nere le pareti, i tetti, gli ornamenti; e il giorno, lambiccato per una maniera di feritoie, che distillavano tanta luce per appunto quanta serviva a distinguere l’orrore dell’abitazioneFinezza, parmi, assai simile a quella con cui, in una commedia che intesi da ragazzo, mi ricordo che Trappolino voleva celebrare l’esequie della sua dama per tutto il tempo della sua vita. Migliacci, tartufi, merle e galline nere, non voleva veder altro in tavola. Ma se questo palazzo non era di barro, non era mancato al certo per materiali: tutto, bacili, boccali, fruttiere, conche, tutta la piatteria di quel principe, a fronte o, più veramente, ad onta dell’oro, riservato solamente alle tazze e all’altre appartenenze del bere, erano di barro finissimo, e quello che era stato una volta in tavola non ci compariva più, ma tutto si distribuiva tra i cortigiani. Faccia il conto la signora Marchesa a dugento e più piatti che venivano in tavola mattina e sera, e veda in quanto poco tempo si sarebbero messi insieme i materiali, non che per la fabbrica d’un palazzo, per l’erezione d’un monte Testaccio odoroso, fuori delle porte di Messico.

Io non vorrei guastarmi da ultimo. Ma o sia il genio del secolo, o che ci vuole un poco di dottoreria. Questa etichetta della Corte di Montezuma, di bere il re sempre in oro e di mangiare in terre, e che quel piatto che è stato una volta in tavola non abbia a tornarvi più, mi faceva riflettere se da quello che si legge nel Libro di Esther del famoso banchetto d’Assuero si potesse dedurre che una volta si osservasse l’istesso stile anche in qualche Corte d’Oriente. Che in quelle di Persia i bicchieri e le tazze fossero d’oro, ne stanno d’accordo quasi tutti i Testi orientali, essendo soli i settanta a volere che ve ne fossero anche di quelle d’argento; ma sul particolare de’ piatti, se la Vulgata non ce li dilucidasse un poco, la cosa sarebbe dubbiosa assai. Poiché, lasciato da parte che non vi si fa menzione d’altro che di vasi (voce tra gli Orientali d’un’estensione così ampia che si appropria a qualsivoglia istrumento), vi è di peggio, ché questi vasi vengono così conglomerati cobicchieri che non sapete se siano un’altra cosa da per sé, o se non siano altro che gli stessi bicchieri, considerati secondo le loro diverse tenute e anche secondo la ricchezza maggiore o minore di ciascheduno di essi.

Questo sentimento pare che venga favorito, meglio che da ogn’altro, dal Parafraste Caldeo, dicendo: «E comandò dar loro a bere in vasi d’oro, e vi fu diversità da vasi a vasi». - Anche il Siriaco non se ne allontana: - «E bevevano in vasi d’oro, e i vasi dai vasi erano differenti». - L’Ebraico, secondo il Pagnino: - «E bere in vasi d’oro, e i vasi dai vasi erano variati o vari». - Altri però nella Poliglotta: - «Bevevano in vasi d’oro, e iterando vasi da vasi». - Lezione la più impicciativa di tutte, e pure la voce scionim, significa iterare e variare, e in questo ultimo senso vien presa in questo medesimo Libro d’Esther.

Infin qui stiamo male a piatti, perché, oltre al non sapersi se sono piatti o bicchieri, non c’è mai nominato vivande.

Con tutto ciò, il Testo originale ci cava di affanni, servendosi in questo luogo non della voce Cos, che significa propriamente «vaso da bere», ma della voce Chelim, che significa ogni sorta di «vaso», e più comunemente quello da riporvi roba solida che roba liquida; e che sia il vero, la sua voce derivata Cail, non è altro che una misura da grano o da biade, mai mai di liquori. Che però con ragione l’interprete latino arbitrò in accennare quello che fossero e in esprimere quello che contenessero i vasi nominati in secondo e in terzo luogo. «Bevevano per tanto i convitati in calici d’oro, e le vivande venivano servite in altri e altri vasi». Dunque, se questo senso cammina, quell’«in altri e altri vasi», altro non vuol dire se non che questi vasi, cioè questi piatti, non erano d’oro come i calici. Di che dunque? Di piombo, di ferro in un banchetto come quello? Iddio guardi. Non d’altro verisimilmente che di terre, come si vede anche in oggi essere il genio degli Orientali: terre le più fine, le più stimate dell’Oriente, come in Messico dell’Occidente. Chi sa che non vi fossero anche delle porcellane?

Abbiamo dunque, tanto alla tavola di Montezuma, quanto a quella d’Assuero, due cose nell’istesso modo. Tazze e calici d’oro, e piatteria di terra. La terza poi, cioè: che anche nel banchetto un piatto stato in tavola una volta non vi tornasse più, mi pare che si deduca assai naturalmente da quel ripetersi due volte «altri»: «E le vivande venivano servite in altri e altri vasi». Per dire semplicemente che questi vasi erano di diversa materia dai bicchieri, subito che aveva detto che erano altri vasi, aveva detto il suo bisogno. A che dunque replicare: «ed altri»? Forse per non lasciar da sospettare che non vi fossero tanti piatti da servire a tutte le tavole senza votare o rigovernare quelli che di mano in mano tornavano in cucina? Era vergogna il mostrar solamente di credere che se ne potesse dubitare. Escluso questo, io non vedo che quella ripetizione possa intendere cosa di più naturale che il dire: Le tazze erano di oro, e però sempre le medesime; ma quando ai piatti, dove venivano le vivande, questi si mutavano sempre: e così mi pare che ciò consuoni assai bene all’intento d’un istorico che piglia a formare il carattere della maggior Corte del mondo nella puntual descrizione della grandiosità d’un solo banchetto.

«E bene, mi dirà la signora Marchesa, dato che questa interpretazione potesse sostenersi per qualche piccola cosa di più che per una vostra semplice coniettura, - che vantaggio se ne caverebb’egli?»

Dirò: peBuccheri, veramente nessuno. Ma io non voglio dissimulare alla signora Marchesa una mia malinconia, la quale è questa. Che io sono suscettibilissimo (mi permetta questo franzesismo) di tutte quelle simiglianze, correlazioni, o siano anche semplici congruenze di genii, d’usanze, di costumi, dirò insino di vizi, tra i popoli dell’Oriente e quei dell’Occidente, e ciò per vedere se mi riuscisse d’accozzare tanto capitale di minute probabilità da persuadermi per non tanto immaginario, quanto da alcuni si crede, quel concetto che gli antenati de’ presenti abitatori dell’America vi passassero da qualche paese di dove potessero portarvi de’ semi un poco più riscelti di quelli che sogliono trovarsi nel terreno della miserabile corrotta umanità. Perché, barbari quanto vi pare, que’ due soli imperi del Perù e del Messico, successivo l’uno, elettivo l’altro, e possiamo anche aggiugnervi quel perfettissimo aristocratico governo della Repubblica de’ Tlascaltechi, mi paiono parti troppo perfetti per crederli ingenerati dalla rozza ambizione e dal furore indisciplinato di quella prima gente, che potè trapassarvi da un mondo, per così dire, non ancora slattato. Io ci ho farneticato più d’un poco, tiratoci, dirò, pecapelli da una certa evidenza, ché mi pare di concepire dall’istorie della conquista dell’una e dell’altra America, e più particolarmente della Settentrionale, che la cosa non possa stare altrimenti, senza però saperne dire il perché, non bastando il vigore della mia erudizione a risolvere la metà di quello che muove il caldo della mia immaginativa.

Mi sono però rallegrato assaissimo di una notizia, partecipatami, sul principio di quest’inverno, di Londra, da un mio amico, dicendomi che un Accademico, o, come essi dicono, compagno della Società reale, era in procinto di stampare un Saggio d’una Nuova Istoria naturale, da lui composta, della terra e de’ corpi terrestri, spezialmente de’ minerali, e insieme del mare, de’ fiumi e delle sorgenti, con una Dissertazione del Diluvio universale e degli effetti rimastine sopra la terra. Per quanto io arrivo a comprendere dall’indice, che l’amico mi manda, e da qualche piccolo squarcio delle materie le più curiose, stimo che il libro, tradotto ch’ei sia dall’inglese, debba incontrare un applauso grande, benché in sostanza ci sia poc’altro che un ristretto di tutte le conclusioni contenute nell’opera maggiore, ch’ei promette, e questo, per adesso, senz’altre prove che quelle che risultano indirettamente dal concerto veramente mirabile che apparisce nell’ordinata concatenazione delle conclusioni medesime. Per dar ancor io un saggio di saggio, mi piglierò la libertà di mettere in poche righe la sostanza di due digressioni, che fa quest’autore, in corroborazione (almeno così me lo do ad intendere) del mio sopraccennato raziocinio, perché la signora Marchesa possa buscarsi da Monsignore e dal signor Marchese un paraguanto degno d’una confidenza di questo rilievo.

La prima digressione è intorno alla trasmigrazione delle nazioni dopo il Diluvio, dove si fa vedere in che modo e con qual ordine dalla posterità di Noè si andasse ripopolando il mondo, e particolarmente nell’America. Pretende l’autore, che è il dottor Giovanni Voodward, dottore di filosofia nel Collegio di Gresham, d’appurare, in primo luogo, chi fossero quelli che vi passarono i primi. Secondo, in che tempo. Terzo, per qual via, e con quai mezzi vi si conducessero, non solamente gli uomini e gli animali, ma infino gl’istessi serpenti e gli altri generi d’insetti, così i velenosi e intrattabili, come i più innocenti e in qualche modo giovevoli. Quarto, de’ vestigi rimasti nella tradizione e negli scritti degli antichi intorno agli Americani, e di qual paese abbiano inteso di parlare gli autori sotto il nome d’Atlantide. Quinto, se i Fenici, o alcun’altra nazione del vecchio mondo, avessero anticamente alcun commercio con essa. Sesto, come possa essere avvenuto che gli abitatori di quella e del nostro mondo abbiano perduto ogni memoria, quelli d’esservi venuti da queste parti, questi d’esserne i medesimi partiti. Settimo, di dove nascesse, tra i primi e i loro antichi progenitori affricani, asiatici e europei, la differenza nella corporatura, nei mostacci, negl’idiomi, nel modo del nutrirsi, nelle maniere del vivere, nel vestire, nell’arti e nelle scienze, nei riti della religione, nelle leggi e nella disciplina militare, e tutto questo accompagnato da varie osservazioni su i sentimenti del Grozio, di Laet, dell’Hornio e di altri che hanno trattato quest’istesso soggetto.

Nella seconda digressione si esamina la concorde tradizione che corre d’un Diluvio universale tra tutte le più antiche nazioni pagane, particolarmente tra gli Sciti e Persiani e i Babiloni; tra i Bitini, i Frigi, i Lidi, i Cilici e altri popoli d’Asia minore; tra i Fenici, i Hierapolitani e altri abitanti della Siria; tra gli Egizi, i Cartaginesi e altri popoli dell’Affrica; tra i più antichi abitanti di diverse provincie della Grecia e d’altre part d’Europa, come gli antichi Germani, i Galli, i Romani, gli antichi abitanti della Spagna e dell’Inghilterra. Discendendo successivamente a provare come quell’orribile devastazione e sconvolgimento, operato dal Diluvio, tanto sul globo terrestre che sull’universale, del genere umano, dei bruti e d’ogni spezie d’anima vivente, lasciò una profonda spaventosa impressione negli animi di tutte queste nazioni che s’incontrarono a vivere ne’ tempi più prossimi a questo grandissimo avvenimento. Ché queste non solamente ebbero e conservarono una memoria e una tradizione del Diluvio così in confuso, ma che la riceverono e la ritennero molto individualmente di diversi dei più rimarcabili accidenti di esso; e questa tramandarono via via intatta e depurata d’ogni lega di finzione o d’abbellimenti per spazio considerabile di tempo, con una caricatura di terrore, di spavento e di costernazione indicibile. Quindi esser nati diversi riti, a questo essersi avuto riguardo, e questo essersi preteso di simboleggiare con diverse cerimonie di religione, ordinate al culto che si pretese di rendere alla terra. Tutte le quali superstiziose adorazioni in quei creduli e rozzi secoli, non solamente le furono instituite a questo intuito sotto il nome di terra, ma eziandio sotto altri, inventati dal capriccio o mascherati dalla superstizione, come di Dea di Siria, d’Astarte o d’Alagartis, di Derceto, di Hertho, d’Isi, di Gran Madre, di Rhea e di Cibele, con altri molti sinonimi tutti della medesima terra. Che a lung’andare la tradizione, come non sostenuta dalle lettere, né da altri simili mezzi, capaci di conservarla e di prosperarla, venuta a poco a poco a mancare, e dimenticato per tal ragione il primario fondamental motivo di questo culto, a poco a poco i secoli consecutivi cominciarono a interpretarlo in un senso e a stravolgerlo a una intenzione in parte diversa, praticandolo come un puro tributo di reverenza e di gratitudine dovuto alla terra, come a Madre comune del genere umano, ingenerato e uscito con tutte le altre creature dalle sue viscere. Così, smarrita la vera nazione di questo istituto, anche la tradizione del Diluvio, che vi si nascondeva sotto e vi si reggeva sopra, ne rimase a lung’andare o sospesa o perduta. E che sia il vero, niuna di quelle tante nazioni, che l’ebbero e che per sì lungo tempo la conservarono chiara e limpida, si trova che ne’ più bassi secoli n’abbia avuta altra memoria o sentore, da quello in poi che ne hanno ricuperato dagli Ebrei e dagli antichi Cristiani, che l’ebbero sempre sotto gli occhi negli Scritti di Mosé.

Insin qui l’Inglese, e sin qui io ancora, condottoci come per incantesimo, come per riparare, anzi dall’impegno di ripescare dalla tavola d’Assuero il modo di servire quella di Montezuma, e questo, più che per servire ai Buccheri, all’erudizione, benché io, al solito di tutti quelli che non sanno d’un mestiero, me ne sia dichiarato sprezzatamente infino dalla prima di queste Lettere.

Vediamo adesso, se da questa importuna stranissima digressione mi riuscisse di cavare un piccolo vantaggio, se non peBuccheri, per le dame; se non per le presenti, per le passate; se non per quelle d’Europa, per quelle d’Asia: basta! Dame sono, e come tali, degne mai sempre che ogn’uomo d’onore s’interessi nella difesa della loro fama.

Il Rabino Mese ben Casin, nell’opera intitolata Valore del Vino, che è un cemento al Libro d’Ester, per la voce ebraica Kele, intesa così concordemente, come abbiamo veduto, per «vasi», vuole che vengano significate le dame della Corte d’Assuero, portandone in confermazione, oltre un luogo del Talmud, l’istessa voce ebraica suddetta, la quale, con la mutazione della Jod nella He, che per verità nelle voci ebraiche è assai frequente, vale anche «sposa», dalla radice Calal, che significa «perfezione». «Sono, segue a dire il Rabino, le donne, per la loro avvenenza e per le altre loro virtù, simboleggiate per l’oro, e molto convenientemente; di tanto superando le donne gli uomini, di quanto l’oro supera tutti gli altri metalli; e dicendo il testo che erano diverse, a divedere che non tutte erano eguali nella stima del Re». Ora veda la signora Marchesa quello che importi il mettere in sicuro che questi vasi fossero piatti; poiché, oltre al caso del poter essere stati bicchieri, vi potrebb’essere anche quello d’essere stati donne, anzi dame di così alta qualità: all’estimazione delle quali non so quanto fosse tornato bene l’essere intervenute in una cena di cortigiani e di soldati, particolarmente essendovi la tavola separata della regina, dove avrebbero potuto ricevere l’istesso onore con tutto il loro decoro. Io mi maraviglio come a questo temerario Rabino non sia sovvenuto di corroborare la sua interpretazione con l’esempio della cena di Baldassare, dove, come si legge in Daniele, non si può revocare in dubbio che vi fossero anche delle donne. Ma quando anche ei l’avesse fatto, ei non averebbe fatto altro che scoprire quel più, o la sua malignità, o la sua balordaggine, perché le donne, state alla cena di Baldassare, non potevano far esempio per quelle ch’ei vorrebbe far credere state alla cena d’Assuero; e cammina assai pe’ suoi piedi che una cena imbandita dall’empietà dovesse esser condita dalla licenza, e una imbandita dall’ambizione, dalla sola maestà. Basti a noi per adesso l’aver messo al coperto da una simil taccia dame di qualità e dame d’una così gran Corte. E ritornando ai diversi usi de’ Buccheri.

In bevanda non si usa altrimenti il barro che in acqua chiara, e per semplice infusione, né mai con zucchero o con odor di fiori; e si costuma più di state che d’inverno. Si rompono i pezzi minutamente e si mettono nell’acqua, la quale, preso che ha l’odore, che lo piglia assai presto, si fredda, e si serve nei medesimi barri, e questa si chiama in Spagna acqua di barro ricca, a distinzione di quella che si fa con barri di Portogallo, che si chiama semplicemente di barro. Questa ricca si considera per regalo grande tanto che alle nozze del figliuolo del Conte d’Ognat, che sposò ultimamente la sorella di cotesto signor Ambasciatore di Spagna, fra l’altre bevande, mi fu scritto, con mucho encarecimiento, che v’era acqua di barro muy muy rica.

Qui è tempo che io mi vendichi di un mio grandissimo e stimatissimo amico, molto ben noto alla signora Marchesa, il sig. Giuseppe Del Papa, medico del sig. Principe cardinale: medaglia del più raro rovescio che, a mio credere, si sia veduto in tutta la serie degli uomini di sapere, unendosi in lui a una letteratura universale e profonda in tutti i generi, una grandezza e una delicatezza di genio, che gli arroga dritto incontestabile di essere udito discorrer di tutti gli altri mestieri con ammirazione e con profitto di chi è maestro di un solo. Questi, in pago di quella tenerezza con la quale l’ho sempre amato e di quella passione con la quale mi professo il più sincero acclamatore del suo merito, ha vomitato contro i barri dell’Indie due calunnie le più nere, le più atroci che siano mai uscite dalla bocca d’un onestuomo. La prima: che, avendo egli medicato una fanciulla nata in Spagna, e che si trova presentemente in Italia, negli esami che le aveva fatto sopra la sua indisposizione, aveva trovato che ella mangiava del calcinaccio, e che, interrogatala perché, aveva risposto bonariamente che, assuefattasi in Spagna a mangiare i Buccheri, in Italia non trovava cosa che li somigliasse più del calcinaccio. La seconda: egli era a’ giorni passati a favorirmi qui in casa, e chiesta una giara d’acqua fredda, portarono cert’acqua di barro di Guadalacara, la quale, a non adulare, sapeva di poc’altro che di fango. Fattone processo, trovai che un mio cameriere, novizio in questi minori ministeri, benché spagnuolo, credendo di far bene ci aveva lasciato stare il barro ventiquattr’ore. Il sig. Giuseppe ha preso la tromba e ha pieno palazzo e tutte le sue conversazioni di questi successi. Che iniquità! Accettare per testimonio contro i Buccheri il gusto guasto d’una povera fanciulla inferma, Dio sa, di quanti mali, e che verisimilmente riduce tutta la parentela tra il calcinaccio e il barro allo sgretolare che fa sotto il dente tanto l’uno che l’altro! E in secondo luogo mostrare, un suo pari, di far caso che il barro, dopo comunicato all’acqua il fiore della sua fragranza, da ultimo le comunichi anco il cattivo della sua sostanza. O che cred’egli? che si pretenda di sostenere i Buccheri per composti aerei, che piglino corpo dal composto, anzi dal concorso di tutte l’esalazioni odorose che si sollevano dalla terra? Anche i gelsomini, anche le giunchiglie, anche i fior d’arancio, che regalano così amorevolmente e così prontamente l’acqua dei loro spiriti, irritati da una troppo indiscreta infusione, l’appestano col loro fradiciume. O pigli su il sig. Giuseppe: adesso son soddisfatto.

Serve ancora il barro a dar la concia al tabacco, particolarmente la state, che non si possono sentire certi tabacchi, come dicono in Spagna, a machamartillo, e questa è presentemente in Madrid la gran moda delle signore. Mettono alcuni pezzetti di barro in tant’acqua che li ricopra, e come sono bene inzuppati li mettono a quel modo nel tabacco con qualche gocciola dell’acqua d’infusione, e serrano lo scatolino, e dopo un giorno o due lo pigliano. Perduto che ha quella freschezza, già non val più niente, e bisogna metter mano a un altro scatolino, i quali però bisogna preparare ogni giorno, cioè un giorno per l’altro, e ognuno da per sé, è questo il polviglio di barro ricco: il ricco, insomma, essendo la cifra del barro d’India, siasi poi o Cile, o Guadalacara, o Natan, o tutt’e tre insieme, questo non importa: gli ultimi due però fanno le faccende maggiori.

Vengono adesso le castagne, che sono quei barri a foggia di borsette aperte, o sode, e rabescate o di graffiature, o di bassi rilievi, o lisce, e rabescate di trafori. Queste sono puro arnese da state, e si portano in mano, e perché si mantengano umide, vi si mette dentro un pezzetto di cambraia, o di tela d’Olanda, o liscio o con merletti, bagnato in acqua chiara. Andiamo al medicinale.

Bisogna concludere che questi barri, tutto che nascano in un paese barbaro, pure con tant’altre singolarissime doti posseggano anco quella d’intendere a maraviglia la galanteria. Poiché, per quanto si siano liberali indifferentemente con tutti, di ciò che riguarda la delizia e il regalo, in quello che serve alla sanità, non si lasciano andare se non con le dame; e questo è ora mai così notorio che gli uomini, per della più alta condizione che siano, né pure ci pretendono.

Se ne servono per tanto le dame nelle febbri ardenti, tenendoli in mano bagnati in acqua fresca; e in effetto si riconosce per una esperienza che non si può controvertere, che, accostandoli a quel modo al naso, alle labbra, alla fronte, alle guance, al petto, sentono fresco.

Gli adoprano ancora in ogni tempo, ma particolarmente la state, a mantener fresca la bocca, pigliandone de’ pezzetti a uso di morselletti, e rimucinandoli con la lingua senza masticarli: che quando non rinfreschino sempre il palato, favoriscono però sempre il fiato; e di qui è nato il proverbio: Bésame, ñiña, bésame con tu bocca de barro.

Gli adoperano finalmente alla xaqueca, o emicrania, facendone pezzetti della grandezza d’uno zecchino, ed attaccandoseli di qua e di alle tempie e in questo caso ancora si vede che, seguitandoli a portare, se non il primo giorno, il secondo, il terzo, il quarto, la xaqueca finisce; e se non operano sempre infallibilmente in qualità di rimedio, basta che operino infallibilmente in qualità de adorno melindroso o smancioso, per dirlo in buono italiano.

Ma gran cosa! come queste buone signore, arrivate tanto innanzi, non abbiano saputo o voluto fare quel solo passo di più che le conduceva in una nuova galantissima moda per la state, da conciliar loro l’applauso dell’universo mondo!

E che altro ci voleva egli mai per far nascere le mosche di barro nero, che trasportare questi piastrelli dalle tempie, di dove, con buona coscienza, si potrebbe dar loro lo sfratto per vagabondi, alla fronte, alle guancie, al petto, rimpiccoliti un tantino e assottigliati? Io mi sento così poco disposto a perdonare alle dame spagnuole questa cecità, come agli antichi Romani il non aver veduto l’invenzione della stampa con averla avuta per tanto tempo davanti agli occhi nelle iscrizioni delle medaglie, nelle tessere e in tant’altre cose. Di grazia, non mi facciano queste buone signore una ragione di stato della loro inavvertenza, escludendo le mosche per moda di Francia. Quando anche ella non fosse la prima che avessero ricevuta, c’è pure il ripiego d’attignere alla corrente, affettando di non sapere della fonte; dico, professare di pigliarle da una seconda mano e sotto un altro nome, come da principio i soldati, e poi a poco a poco tutti gli altri, senza vulnerare il rispetto dovuto alle pastrane e alle goliglie, hanno ammesso i giustacori, ribattezzati marsine, e le croatte, sciomberghe; e come la proscrizione de’ guardinfanti prima dalle città e poi anche dal palazzo, mi darebbe animo a scommettere che tra non molto vedremo ricevere i manteaux, ribattezzati o imperiali o romane. Nelle mosche c’è un vantaggio di più, che senza averle a riconoscere dell’ultime Testatrici, si possono riconoscere delle prime Fideicommittenti, che senza controversie sono state le Orientali, e non piacendo chiamarleFiamminghe, né Inglesi, potrebbono giuridicamente chiamarsi Damaschine, o Soriane, secondo che in questi paesi hanno avuto la loro origine e si mantengono insino al giorno d’oggi nella voga maggiore. Se gli artisti di Parigi avessero questa recondita erudizione, risparmierebbero all’Inghilterra la satira, che pretendono di fare alle donne di quel paese su la caricatura, veramente un poco eccessiva, di quest’ornato, col dipignere nell’insegne delle loro botteghe una donna col viso tutto impiastrato di mosche, che paiono tafani, e di figure le più bisbetiche, con l’iscrizione, A la dame angloise, mettendovi in quello scambio una Turca con l’istessa maschera. E maschera veramente, perché le Turche se n’aggrottescano quel povero musetto a una foggia che di molte volte è più il nero che il bianco; e bisogna ben dire che il consumo sia grande, mentre in ogni luogo, ove sia gente un poco civile, v’è una quantità di donne che campano del solo far mosche, le quali non sono solamente gala del viso, ma di tutto il resto del corpo. Quelle che servono al viso sono d’ermisino o di lustrino come le nostre. Dal viso in giù si procede con maggior economia, servendo quelle che elle si mettono da ragazze, insino all’ultima vecchiezza e si portano nella sepoltura. Formano quella parte del corpo che vogliono moscare, il braccio, per esempio, la mano, il piede, e così di mano in mano. Poi sul cavo della forma disegnano que’ geroglifici che vogliono riportare su le carni, e dentro quei dintorni rastiano gentilmente tanto della forma quanto serva a distendervi un suolo di polvere di foglie d’Alchenne, la quale, tornata ad applicar la forma alla parte formata e fasciatavela addosso, in poche ore lascia macchiata la pelle d’un rosso che non se ne va più. Per farlo poi diventar nero morato, vi passano sopra con un impiastro dove entra del sale armoniaco con altri ingredienti, le spezie, la dose, e la preparazione de’ quali è mistero, infallibile per ogni altro che per le sacerdotesse più intime del gineceo. Perché, consistendo tutto il pregio di queste macchie nel profondo e nella lucentezza del nero, secondo che da questo ha da risultare lo spicco maggiore del bianco, pensate se c’è verso di cavar loro di bocca il segreto della ricetta; e beata quella che l’ha migliore. Ma tengansi senza invidia le Orientali le loro mosche immobili. Io vorrei, signora Marchesa, che noi applicassimo un poco seriamente a quella scoperta, che hanno lasciata intentata le dame spagnuole, delle mosche di barro nero, e che può riuscire gloriosa per noi, e così proficua agli interessi della toilette. Se ella crede che questi legatori di gioie, che lavorano in Galleria, possano avere qualche vantaggio sopra gli altri, mi mandi speditamente qualche pezzo di barro del più nero, e lucente, e odoroso, perché si possa metter mano al lavoro prima che finisca la state: e io le prometto tutta la mia attenzione in vedere che venga segato in lamine così sottili che l’acquisto dell’odore, della freschezza e della galanteria, non riceva tara dal ricrescimento del peso.

Che se poi adesso la signora Marchesa gustasse di restar servita d’una piccola tavola sinottica dove poter vedere da un’ora a una altra tutto quello che le ho detto in queste sei o sette Lettere, o quante si siano, eccogliela:

Il sig. Iddio ha creato in questo mondo alcune vene di terre odorose: alcune in Europa nel regno di Portogallo, e alcune altre in America, cioè una nel regno di Cile, e due in terra di Messico. In quelle di Portogallo, e alcune altre in America, cioè una però l’odore è più tenue, più semplice, e benché assai grazioso ed amabile, pure si allontana meno da quello che esala ogni terreno divampato dal sole al cader della prima pioggia. In quelle dell’Indie, sul fondo di quest’istesso odore spicca un aromatico, dove più e dove meno alterato, ma un aromatico pastoso e che conforta senza invasare. La singolarità di questo odore ha invitato gli uomini, tanto di qua quanto di , a fare di queste terre vasi da beverci l’acqua, per godere nell’istesso tempo dell’utile e del dilettevole. A poco a poco, tra la curiosità, il lusso e l’immaginazione, è talmente cresciuta, particolarmente nelle dame, la vaghezza, la passione, o la frenesia di questi vasi, che, moltiplicatene dal grande spaccio le fabbriche, e raffinata con la grand’aura la maestria di lavorarli, si veggono in oggi ridotti a far figura in quasi tutte le Corti d’Europa, di rarità ne’ musei, d’arredo galante ne’ gabinetti, e di suppellettile deliziosa nelle profumerie, nelle credenze e nelle bottiglierie, per servire alla curiosità, al lusso e al regalo.

Consideri la signora Marchesa in quanto poco luogo si riduce tutto quel gran piatto reale de crème fouettée che io le ho servito in queste tante ciarle, e vegga se le adesso il cuore di defraudarmi di quel famoso ringraziamento encomiastico che fece il Cardinal Ippolito d’Este all’Ariosto, dopo che, finito di leggere il suo Poema, se lo vedde innanzi la prima volta Cmod iv fatt mssier Ludvig a truvartant’ minchiunarie? E riverisco la signora Marchesa umilmente.




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