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Lorenzo Magalotti
Lettere odorose

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  • LETTERE SU LE TERRE ODOROSE   A MONSIGNOR LEONE STROZZI
    • Pisa, 16 febbraio 1693
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LETTERE SU LE TERRE ODOROSE

 

A MONSIGNOR LEONE STROZZI

 

Pisa, 16 febbraio 1693

 

Un grand’obbligo ai Buccheri. Sono venticinque anni, che io fo la guerra offensiva alla barbarie d’Italia, per mansuefarla con la predicazione de’ pregi di questo tesoro, risguardato da essa con disprezzo, intanto che la Spagna l’adora con una maniera di culto superstizioso, e la Francia, l’Inghilterra, e in oggi infin l’Alemagna, mercè di due Imperatrici spagnuole, lo venerano con un ossequio tutto ragione e buon gusto. Ma vaglia il vero, che mi veggo rifatte le spese della guerra quando e di dove avevo meno diritto d’esigerle, trovandomi a conto di Buccheri onorato delle grazie e de’ comandamenti d’un Cavaliere così grande in se stesso e nella mia venerazione. Io non vorrei, che V. S. Illustriss. avesse formato qualche grande aspettativa del poco che m’impegnai a prometterle per via del sig. Paolo Falconieri, potendo anch’esser benissimo che il genio e il debito di servirla mi facesse concepir l’impegno in termini troppo significanti. Intanto per crescermi un poco di capitale ho aguzzato l’ingegno per trovar la via di fare un piccolo tentativo in Amburgo, per vedere se potesse riuscirmi d’aver qualche parte degli studi del dottor Wogel intorno a’ Buccheri, benché (per quanto, fattavi meglio riflessione, mi sovviene d’aver veduto in certe sue scatole) mi parve che egli fosse molto indietro al mettere insieme tutta la serie delle varie terre, che abbiamo veduto, e più copiosamente che altrove, negli scarabattoli della sig. Marchesa mia Signora, alla quale intanto mi fo lecito di supplicar V. S. Illustriss. a dar per mia parte l’enorabuena de’ nuovi doppiamente preziosi acquisti, come adattati a servire nell’istesso tempo al regalo e all’erudizione.

A proposito di quello che V. S. Illustriss. mi dice su le murrine che, per quanto sussistesse il supposto che bagnate ealassero qualche alito di fragranza, ella inclinerebbe a crederle più tosto artifiziali, che di gioia o di pietra, come è stato creduto, mi sovviene di motivare a V. S. Illustriss. d’un’altra pietra, vera pietra, che pure bagnata odora, e anche d’un odor gentilissimo, arrivandosi, mi dicono, a pigliar in cambio di quello della viola mammola. Io non l’ho veduta, ma mi viene asserito che si cavi in Sassonia vicino a Leipsich, e in tanta abbondanza che se ne vegga incrostata tutta la facciata d’un palazzo in campagna, e che, quando piove, l’odore se ne faccia sentire in distanza considerabile, e così gagliardo da non averlo a braccheggiare né col naso, né coll’immaginazione. Mi pare che il colore di questa pietra tiri all’argentino, e che bagnata si carichi sul turchino mal tinto, forse sull’andare di quello della nostra pietra serena. V. S. Illustriss. potrebbe dirmi che qui non v’è la durezza della gioia, e che però, come sustanza male impastata e non ben fissa, può esser capace d’esalazione sensibile. Ma se fosse sostenibile l’opinione, che hanno avuto alcuni, che tutto il porfido sia mestura, noi avremmo pure un corpo con durezza di marmo, anzi di gioia, e tuttavia, come fatto a mano, non incapace di qualche traspirazione, per quanto nella sua composizione vi avesse avuto luogo qualche ingrediente odoroso.

Intanto che col mio ritorno a Firenze mi riesca di raccapezzare una listra, che ho da avere, delle diverse sorte di Buccheri di Portogallo e d’America, voglio far ridere V. E. Illustriss. con una mia semplicità, che consiste in mostrare d’aver per possibile che ella non sia ancora informato de’ Buccheri di Sessa, che a Napoli chiamano Buccheri villani, ma che pure hanno luogo la state, formati in vasi grandi, e ripieni d’acqua sotto i tavolini delle camere delle Dame. Questi ancora, bagnati, cavano fuori un odore, o tanfo acutissimo, cui niun’altra cosa rende sopportabile a mio giudizio, che il poco che costa la profumiera, vendendosi simili vasi poco meno che a prezzo di pignatte o di tegami. Hanno però essi ancora il loro catarro di voler essere modellati all’eroica, tirando assai su l’aria bizzarra e squarciona di quelli d’Estremoz, come le sarebbe facile il vedere in alcuni, de’ quali mi darei l’onore di servirla, per quanto la sola viltà loro gli avesse sottratti alla sua cognizione.

Mi fo ben forte d’avere a poter servire V. S. Illustriss. d’una notizia assolutamente non indegna di Lei, e ciò dependentemente da un acquisto fatto la settimana addietro, dal Gran Duca mio Signore, di due vasi di terra di Guadalaxara de Indias, d’una vastità, a mio credere, inaudita, e poco credibile in sì fatti generi, trattandosi (ancora non si sono misurati, ma lo credo assolutamente) di almeno sei barili l’uno, e perfettissimamente compagni. Secondo che arrivarono pochi giorni prima che S. A. partisse a questa volta, non sono ancora collocati nella loro residenza, che credo sarà in Galleria nella Stanza delle Porcellane; ma, con un poco di tempo, intorno a questi ancora spero di poter servire V. S. Illustriss. di qualche notizia un poco più distinta.

A proposito di Porcellane, posso dire fino da ora a V. S. Illustriss. esserne state fatte in Firenze, non so se a tempo del G. D. Ferdinando I o del G. D. Cosimo II, ed io ne ho vedute, e so dove sono, e m’assicuro di poter mandare a V. S. Illustriss. il disegno, anzi il colorito a olio di qualche vaso. Che la pasta sia uguale, e forse superiore all’infime di quelle della China lo dicono gli occhi, e le mani. E che siano fatte in Firenze lo convince il vedersi nel fondo del vaso toccata d’azzurro la cupola di S. Maria del Fiore, essendo difficile a credersi che ell’abbia una sua sorella maggiore nella Cattedrale di Canton o di Pequin.

Serviranno per ora questi cenni ad accreditare a V. S. Illustriss. la stima infinita con la quale ho ricevuto l’onore della comunicazione de’ suoi nobilissimi studii, e la somma ambizione che questo ha eccitato in me di poter contribuire, in quel modo che io potessi esser abile, al benefizio che dee promettersi il secolo dall’esser felicemente caduto un genio così gentile e così desiderabile al mondo in un Signore, che avrà sempre per mallevadore de’ suoi asserti la grandezza della propria condizione: e qui, pieno del mio antico impareggiabile ossequio, resto.




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