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Lorenzo Magalotti Lettere odorose IntraText CT - Lettura del testo |
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Salto tutto il nobilissimo, ma però malissimo impiegato panegirico della mia dettatura, per non correr risico di vedere impaniare la mia vanità al difficile assunto di rendermene meritevole col mettermi a studiare e allindare i periodi di questa e d’altre lettere, ch’io possa ancora avere a scrivere al sig. D. Leone mio signore. Di grazia patti chiari, e dalla mia parte servitù lunga. Io non domando altra grazia a V. S. Illustriss. che di poterle scrivere di mano in mano quello che mi vien alla bocca con dispensarmi dal farlo di proprio pugno, essendone io così disassuefatto, che la fatica della mia mano torna tutta addosso agli occhi degli altri. Del resto V. S. Illustriss. riserbi ad altro che a me le proteste del suo rossore per l’immaginario difetto della pratica delle maniere toscane. Io per verità non fo gala della barbarie nello scrivere, ma non la fo né meno di quella che qui si chiama purità, e che all’orecchio di tutt’il resto dell’Italia passa per arcaismo e per affettazione; testimonio una gran parte di questi Signori nostri Coaccademici della Crusca, che mi considerano per corruttore della severa onestà de’ nostri antichi, e testimonio il nostro sig. Paolo [Falconieri] medesimo, che spesso strilla come un’aquila per l’indiscreta licenza, con la quale mi fo lecito, sempre che ben mi torna, il valermi di molte espressioni forestiere. Andiamo al negozio. Viene la memoria de i Buccheri, datami in Vienna dalla Contessa di Labcovitz, al presente Imbasciatrice d’Alemagna a Madrid per la seconda volta, statavi la prima da Contessa di Petting. A considerarla per distesa da una Dama, è assai, ma per dover servir d’istruzione a un Cavaliere, che scriva della materia, è assai poco, e meno ancora di quello ch’io credevo. Io la mando stasera a Madrid ad amico capace di distinguere, di dilucidare e di supplire, con che ora come ora l’aver V. S. Illustriss. questo foglio e niente è tutt’uno. Viene ancora il luogo di Cicerone copiato come sta notato di mio pugno, in un mio antico scartafaccio, senza essermi messo alla fatica di riscontrarlo. Il pittore lavora attualmente su la Porcellana fiorentina, la quale ho ordinato che si faccia al naturale della sua grandezza in due tele distinte, in una da dritto e in un’altra da rovescio con l’attenzione di situar l’occhio un poco alto, perché si renda visibile la cupola di S. Maria del Fiore messa per marchio nel fondo della catinella con un F. sotto, che verisimilmente vuol dir Firenze. Con queste tele manderò ancora un par di Buccheri di Sessa. Sento la singolarità dell’odore di viola mammola nelle pietre fuori della sustanza di esse pietre, e imparo con sommo gusto la moltiplicità degli aliti diversi, che spirano da altre pietre, di che ero totalmente allo scuro, onde a V. S. Illustriss. ne devo tutta l’obbligazione. Un’altra maggiore assai mi nasce dall’onore, che ricevo per mezzo di V. S. Illustriss., d’un reverito comandamento della sig. Marchesa mia signora. I Buccheri, o hanno perduto l’odore, o no. Se no, lasciarli stare nel grado che sono. Se sì, i modi più correnti di restituirglielo (intendo de’ Buccheri d’India, che de’ nostri Europei non ne val la pena) sono due. Il più naturale, ma il più lungo, tenerli sopra una loggia o una soffitta alla polvere, e lasciarveli stare così ricoperti per qualche mese, avvertendo che non vi dia su né il sole, né l’acqua. Il più speditivo, ma che è un tantino violentetto, perché sul principio cava un poco l’odore del barro del suo naturale, è il tenerli in cassette di cipresso. Del resto, profumarli con lavande, con suffimigi di pastiglie, o di cazolette, e con unzioni dalla parte interna de i vasi, tutto si può, buono con buono non potendo far mai male. Vero è che l’odor megliore è sempre il naturale del barro, il quale mi piace d’aiutare, ma non di trasfigurare. Quando ne ho avuti, li ho governati così. Li ho tenuto negli studioli sopra strapuntini di taffettà imbastiti di bambagia tenuta a profumare in uno scatolone per più giorni a fumo di cazolette assai ricche, e poi da ultimo datole due o tre buone stufature di suffimigi di balsamo bianco, avvertendo, tanto in questa che nella prima funzione, a tener coperto lo scatolone da capo a piedi con buoni coltroni, perché l’odore non esali, e resti tutto preso tra la bambagia. Di questa medesima bambagia son andato riempiendo i vani tra un bucchero e l’altro, ma per amore, non per forza; e poi in ogni vaso ho tenuto parecchi ritagli di pelle d’ambra, tenendo coperta la cassetta dello studiolo con un’assicella di cipresso, adattata a incastrare in una piccola intaccatura fatta in giro alle sponde della medesima cassetta. Questo chiamo io aiutare, e non trasmutare; perché col tempo, in quella clausura, la fragranza del barro si fa padrona, cacciandosi sotto, ma però giovandosi de’ suoi piccoli collegati. Quando poi la sig. Marchesa tiri alla trasfigurazione, può pigliare l’acqua che più le piace, ma non si faccia paura di quella di Cordova, ricordandole che hanno a essere abluzioni, e non imbriacature. Voglio dire che i vasi non vi s’hanno a immergere infino ai capelli, bastando il mettere in uno di essi un’oncia d’acqua, e lasciarvela stare un quarto d’ora, poi versarla in un altro, e così ex hoc in hoc profumarli tutti con la medesim’oncia d’acqua, che servirà benissimo a una ventina. Quattro o cinque giorni che si faccia questo giuoco, consumerà in tutto una mezza libbra d’acqua, che non è tanta la gran cosa, che, quando le facultà della sig. Marchesa non ci arrivassero, la mia generosità non si facesse di buon animo per coadiuvare a questa lavanda di piedi, che forse sarà una dell’opere di misericordia corporale, nella quale la sig. Marchesa passerà le sere di questa settimana. Oh quante ciarle, o quante ciarle. Orsù basta. Io non perderò di vista i miei debiti. In tanto soddisfò a quello del mio ossequio con riverir umilissimamente la sig. Marchesa, e con rassegnarmi per sempre.
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