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Lorenzo Magalotti
Lettere odorose

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  • LETTERE SU LE TERRE ODOROSE   A MONSIGNOR LEONE STROZZI
    • Firenze, 17 aprile 1694.
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Firenze, 17 aprile 1694.

 

Il mio sig. D. Leone, e la sig. Marchesa mia signora si contentano di poco: e questo è quanto posso replicare all’espressione del loro benigno gradimento per l’imperfettissima notizia de’ Buccheri; se pure questa apparenza di così facile contentatura, per la parte almeno del primo, non fosse un poco maliziosetta, e non avesse per fine l’impegnare il gonzo a imbarcarsi senza biscotto. Io, sig. Don Leone mio signore, posso dire d’avere un genio in tutto uguale all’obbligo che ho d’obbedirla. Aggiunga, che questo è appunto, o per dir meglio, sarebbe il mio diletto, e diciamo pur anche la mia ambizione maggiore: il ricercare e il comunicare certe notiziette un poco pellegrine e galanti, tagliate a solleticare certi geni gentili, o più tosto svogliati. In somma io mi sento un maraviglioso penchant a rendere ossequio alle morbidezze del secolo, e in conseguenza a perpetuarne la memoria; non m’impegno poi a dire, se a sua gloria o a sua confusione; e questa mia passione è arrivata a segno che io vado facendo uno studio di quadri, che venga a essere come una serie di tutte le nostre più nobili e più innocenti delicatezze. Si figuri V. S. Illustriss. di vedere in uno, disposto sopra una tavola, tutto l’attiraglio del cioccolate, tutti i vasi, tutte le cioccolatere, tutti gli strumenti, tutti i polvigli, tutte le sorte di salvette, non esclusone i ventagli, co’ quali gli Spagnuoli del Messico si fanno far vento a i Negri nell’atto di sorbire quella bevanda. In un altro tutto l’arredo del the, in un altro tutti i profumi da inverno, in un altro tutti quelli da state, e così di mano in mano. Tutto il male è che questi non m’hanno aria di voler arrivare a crocifiggere la speculativa de’ curiosi, che saranno di qui a duemilanni, come senza dubbio pur troppo lo farebbono se la mia borsa potesse trasformare i quadri in bassi rilievi, o almeno almeno in medaglioni, con far servire le spase di questi misteriosi strumenti di rovescio a i busti delle Dame più insigni in questa voluttuosa liturgia.

Credo che meno assai di tutto questo servirebbe a persuadere V. S. Illustriss. che ella m’invita al mio giuoco, ma due cose mi mancano: notizie e tempo. Per il tempo si contenti di riflettere che dal primo all’ultimo giorno dell’anno mi trovo con tutte le sere legate, e la libertà de’ giorni inabilitata all’ozio degli studii dall’obbligo d’averli a passare in città, dove, né pur ne i tempi che gli spiriti erano un poco meno annacquati e la vanità era assai più focosa, non m’è mai riuscito di buttar giù una miserabile leggenda. Quanto alle notizie, quelle de’ Buccheri, ne’ quali sono un poco più dottore, si riducono a poco più di quelle che ho mandate e che ho scritte a V. S. Illustriss. Ora vegga che bell’onore ci sarebbe da farsi per chi avesse comandato, e per chi avesse obbedito. Ella sa molto bene che in queste materie, benché si parli di cose moderne, a non volere scrivere una pura gazzetta, corre un certo obbligo d’impinguare la leggenda con la notizia di tutte quelle cose o moderne o antiche, che poco o assai hanno correlazione con l’assunto primario, il quale in simili casi ha a diventare come i granelli e le frittate nelle merende di questa stagione, che facendone solamente il pretesto, quando compariscono in tavola, non son guardate in viso. Per esempio: o si voglia tra il servizio de’ Buccheri o tra quello delle Porcellane, ci vuol pure in su la credenza qualche pezzo di murrina; ed ecco subito un mare magnum da non uscirne così con ogni vento, entrando subito la disputa se fosse gioia, o terra cotta, e entrare a conciliare il luogo famoso di Properzio con l’autorità di Plinio e col luogo di Seneca, e tant’altri chiàiti suscitati in questo proposito. Ma lasciando questa difficultà da parte, io ne trovo una insuperabile nel metter insieme tanto capitale intorno a’ Buccheri e alle Porcellane medesime, che metta conto l’impegnarsi a farne trattati a parte, per uno particolarmente che stia in Italia, dove, quando averà detto quel che basti a sodisfare ogni più curioso Italiano, verranno una serva olandese da una parte e una fregona spagnuola dall’altra a fare una scena di finissima critica, quella su la dissertazione delle Porcellane, questa su quella de’ Buccheri. E perché V. S. Illustriss. vegga che io le parlo da buon servitore, le dico ingenuamente che per quello che sia scriver trattati interi, io non saprei consigliarci né meno Lei: altro essendo questo assunto, dirò così, impegnativo, altro quello di chi, dando una notizia succinta e generale delle rarità d’un Museo, dica quello che si può dire di questi vasi ancora, senza mettersi per corpo morto a rintracciarne ogni più minuta appartenenza. Tiriamo dunque innazi il nostro primo pensiero: parlo in noi, perché l’affetto mi fa subito vestire ogni dettame del sig. Don Leone mio Signore: vediamo quello che ci riesce di cavare da Amburgo, dove ho già fatto passare il duplicato dell’aggiunta memoria, e vediamo quello che conclude di mandarci l’amico di Madrid, e poi con questo ci regoleremo nel formar la pianta del nostro impegno. Se mi sovverrà di vantaggio, sarà tutto per lei, avendo io costumato, così pover uomo come sono, quando mi son trovato una cosa, della quale né avevo né potevo sperar d’avere un poco d’assortimento, il servirne qualcheduno, o che l’avesse o che l’andasse mettendo insieme. Voglio dire, che se ho praticato questa ragionevolezza in nicchi, in disegni, in medaglie, e talora in qualche piccolo cammeo, quanto più doverò largheggiare in fogli di carta, e forse in sogni doppiamente mattutini? Il ritratto della Porcellana fiorentina è già finito, e rasciutto. Solamente sospendo a mandarlo tanto che io veggo l’esito d’un negoziato, che ho per aria, per vedere se il padrone dell’originale si lascia disporre a permettermi di far segare un tasselletto del giro del piede, nel qual caso intenderei di far rappresentare al Pittore nel suo debito luogo quella vacuità, perché V. S. Illustriss. potesse far vedere in anima e in corpo il pezzo da incastrarvisi.

Nel passo di Cicerone V. S. Illustriss. averà avvertito un mio equivoco. Io avevo in capo ch’ei parlasse di boli odorosi, ma veddi poi ch’ei parlava di conce con la fragranza del bolo, che poi in sustanza è la medesima, il bolo che entrava nella concia dovendo essere stato verisimilmente i cocci polverizzati di qualche vaso; e reverisco V. S. Illustriss. devotissimamente.

 

Tenuta insino al 20 nel quale soggiungo di far consegnare all’ordinario, che parte questa notte, in un involto diretto a V. S. Illustriss. il ritratto delle Porcellane, che in oggi diventa una freddura, colpa della galanteria, con la quale il sig. Marchese Clemente Vitelli, che abbattutosi a vederlo iermattina qui in camera, e inteso a quel che era destinato, mi mandò subito dopo desinare un piccolo catinetto della medesima fabbrica, e segnato con l’istesso marchio, a conto del quale m’insegnò questa erudizione di più che questa manifattura fiorì sotto il Gran Duca Francesco, e che quell’F interpretato comunemente per Firenze, con probabilità forse maggiore si legge da alcuni per Francesco. Dopo un simile acquisto m’è parso superfluo l’insistere per il tassello della catinella maggiore, e superfluo sarebbe il mandarne questa po’ di macchia, se non vi fosse la circostanza del riconoscervisi; perdoni V. S. Illustriss. la pedanteria di questa stravoltura d’un luogo di Plinio: «Rudimentum artis Signina facere condiscentis», vedendosi una catinella ricaduta nel cuocersi, e ridotta più propriamente a una pizza, segno del non essersi ancora finita d’accertare o la tegnenza della pasta o la tempera del forno; e di nuovo suo.

La porcellana verrà coBuccheri villani con la prima condotta. Non mi sovviene se io avvisassi mai V. S. Illustriss. d’avere scritto a Dresda fino da Pisa per la pietra che sa di viola mammola.




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