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Lorenzo Magalotti
Lettere odorose

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  • LETTERE SU GLI ODORI AL CAVALIER D’AMBRA
    • LETTERA PRIMA
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LETTERE SU GLI ODORI

AL CAVALIER D’AMBRA

 

 

 

 

LETTERA PRIMA

 

Un bel caso, o per dir meglio, un bruttissimo caso ci succedè l’altra sera a Filippo Martelli e a me; e quello che è peggio, alla presenza d’un Barbaro. C’è di buono che questi non se n’avvedde; ma in quello scambio se n’avvedde Tonino mio lacchè, appena, come sapete, introdotto ne’ misteri della nostra Repubblica, né per anco graduato a savio d’ordine. Io lo chiamai per ordinargli che ci facesse un po’ d’odore: egli va, torna colla siringa, e comincia a spruzzare dell’acqua ginestra. Dice subito Martelli più astuto di me: «O buona! fiore effettivo! Questa è quell’acqua che alle mani del Cavalier d’Ambra sa d’aglio». E qui piglia a raccontare per filo e per segno a Luigi del Riccio quello che v’occorse la prima volta che vi provaste a stillar la ginestra. Intanto colui badava a girar per la camera, lavorando di spruzzolo per aria, e Martelli a lodare. Io confesso ingenuamente che gli cominciai a far eco, e fra l’altre dissi che non aveva mai sentito il fiore così spiccato e così naturale come allora. «Oh ve la dirò io, Martelli franco: è un pezzo che questa girandola dura; bisogna che costui abbia raddoppiata la carica.» Intanto colui finì e finì il ragionar dell’acqua.

La mattina dopo, Martelli era di guardia, e secondo il solito veniva a desinare da me. Io nell’entrare nel bagno, dico a ToninoFa’ di regalare la camera, dove ha da dormire oggi il signor Filippo, con tutta la delizia possibile». Osservo che costui a quel mo’ sornione sornione abbassa il capo e ride. «Che cosa c’è?» «Quell’acqua di iersera, che il signor Filippo diceva che era di ginestra.» «E bene?» «Era di fior d’aranci; ma dell’anno passato: e secondoché aveva fatto un poco di panno, nello schizzare veniva a intasare i fori della siringa, e così durava quel più.» Che ne dite? Il Ciel ne guardi che lo risapessero il nostro Assessore, il Cerchi e il Cavalier del Bene; n’empierebbero Palazzo, e più non saremmo lasciati vivere.

Ma che dite, Cavaliere, di questa cosa degli odori, che in certi casi e a certi punti presi abbia a essere così facile lo scambiarli, anche a quelli che ci hanno una grandissima pratica; e che, se si metteranno a studiare per rinvenire gl’ingredienti d’una nuova e incognita concia, de’ dieci ne ritroveranno sette; come succedeva al Cavalier Saracinelli, come succede a voi, e mi ci metterò anche io? Un’altra volta poi, presi all’improvviso, o li piglieremo in cambio d’altri odori, anche assai diversi, o non ci rinverremo anche d’un odore semplicissimo, e che rinverrebbe quel della Secchia rapita,

 

Che avea perduto il naso in un incendio;

 

onde fu il solo che potè assistere il Conte di Culagna, perché non sentiva il morbo che gli usciva de’ calzoni.

Mi pare che succeda al naso quello che succede alla lingua, che alle volte avete sulla punta dell’uno e dell’altra quel nome, quell’odore, e non lo potete dire; non c’è rimedio. La ragione è perché non ve ne ricordate; di questo non ce n’è dubbio, ma perché non ve ne abbiate a ricordare, de’ nomi non me ne maraviglio, perché di questi in quel punto non ve n’entra niente per nessuno degli organi corporali; ma degli odori confesso che non ne vo capace, e particolarmente di quei de’ fiori, i quali, come fu detto dello spirito umano ch’ei vive più dove ama che dove anima, sono talvolta più vivi dove trasmigrano che dove nascono; testimonio quella vostra manteca cavata dalla polpa del cocco, che in capo a tre anni sapeva più di gelsomini de’ gelsomini medesimi. Gran cosa! Oggi sentirò un polviglio di muschi greci, e lo riconoscerò subito. Domani non ci sarà verso che io mi determini a dire: è di questo o di quello: doman l’altro lo piglierò per di giunchiglie. Venga uno e mi dica di quello ch’egli è, subito; ah, si, è vero, sono una bestia; e ci trovo subito quel fiore, che un momento innanzi non mi passava per l’immaginativa a mille miglia. Un’altra volta poi, se colui per pigliarsi gusto mi dice di gelsomini, del gimè, ne vo d’accordo, e mi par di sentir subito il gimè.

Questa facilità a pigliare in iscambio non si prova così correntemente ne’ nomi. Se io vorrò ricordarmi d’un luogo, dove io sia stato, in Portogallo, in Inghilterra, in Svezia, o non mi sovverrà mai il vero, o non mi soddisferò mai nel falso; e se uno per aiutare la mia memoria me ne suggerirà cent’altri, vuol essere gran cosa ch’io dica: si, è questo. Si darà bene il caso che la gran somiglianza d’un nome mi faccia sovvenire d’un altro, ma non giammai ch’io pigli quello per quell’altro; per esempio, se averò nel capo Retz e non me ne potrò ricordare, me ne ricorderò subito che un altro mi suggerisca Metz; ma se averò nel capo i muschi greci senza finirmene di rinvenire e uno mi suggerirà i giacinti, è più facile ch’io accetti i giacinti per muschi greci, che non è ch’io mi giovi della somiglianza dell’odore che hanno i giacinti comuschi greci per finir di ritrovare i muschi greci.

Di questa malattia del naso non ne patiscono gli occhi, se non è per una somma simiglianza, o per una somma astrattaggine. E che questo errore degli occhi sia rarissimo, vedetelo da questo: che di chi l’ha punto familiare, se ne fanno commedie, e diventa subito originale; cosa che non succede di chi erra col naso, se non è nelle Sinagoghe de’ Barbari e degl’ignoranti del mestiero, che non hanno in testa maggior guardaroba d’odori di quella che diceva il Padre Riccard aver un cuoco di Vienna di vivande alla francese, che, dall’acqua calda e dall’uova sode in fuori, alla francese non sapeva far altro.

E poi levatevi l’astrattaggine, la quale in questo caso non va considerata, essendo ella più errore della mente che degli occhi per quello che riguarda la simiglianza; io dico che tra odore e odore (intendo tra quelli di diverse spezie) non c’è mai la simiglianza ch’è tra uomo e uomo. Ora io non veggo mai che gli occhi scambino da un uomo a un gatto mammone, anzi né pur da un uomo di statura ordinaria a un nano. Veggo bene spessissimo scambiare il naso, non dirò dall’odore d’un giacinto turchino all’odore d’un tardivo di Fiandra, d’un racemoso; perché tra questi, come della medesima specie, non c’è altra differenza che nel più gagliardo o nel più delicato; ma bensì scambiare dal gelsomino salvatico a quello di Catalogna, dal gimè al tuberoso, dal musco greco al giacinto, alla giunchiglia; e se questo vi par poco, diasi gloria a Filippo Martelli, arrivato infino dal fior d’arancio al fior di ginestra. Confesso bene che di quattro sorte d’acque che adesso mi trovo in camera, fior d’aranci, mortella, triboli e rose dammaschine, delle quali ora dell’una ora dell’altra ne adoprano per annaffiare, il più delle volte ho a domandare: che acqua è questa?

Anche il palato, gli orecchi, i polpastrelli delle dita s’ingannano di radissimo; intendo sempre ove debbano giudicare di cose delle quali abbiano cognizione, e che ci abbiano fatto una certa pratica. Io non mi vanterò, mangiando al buio, di distinguer sempre un petto di fagiano da un petto di cappone, un petto di pernice da un petto di starna: l’una, perché di queste cose non ne mangio ogni giorno; l’altra, perché nel mangiare non ci ho senso. Conosco bene di quelli che non ce li farete stare del certo, particolarmente tra nazioni che s’intendono del mangiare un poco più che generalmente non si fa in Italia, avendo io avuti alle mani ghiotti così infallibili da aver saputo benissimo ritrovare al cuoco l’aver cotto le starne più con un fuoco che con un altro, e l’averle, dopo avviate a cuocere, levate da fuoco per trattenerle, quando il sugo era già cominciato a venire alla pelle, e quivi raffreddatosi, preso un non so che di lezzo, che col rifritto del nuovo tornarsi a struggere le aveva, dicea colui, rendute detestables du dernier detestable. Andate un poco a pretendere di fare a un di costoro la burla che si fa in villa, quando non ci sono tanti starnotti che ne tocchi un per uno, d’appettargli sul piatto un pollastrello in maschera da starnotto. Voglio dire che, a metter le cose in pari grado, l’eroe di bocca farà sempre meno errori che l’eroe di naso. E che sia il vero, io, che a tavola sono un povero moschettiere (salve certe bagattelle, il forte delle quali è nell’odore; onde, più che vivande, possono chiamarsi profumi per introversione), di quelle cose che son solito mangiare tutto l’anno, mi rido che possa venirmi fatto il pigliare di quei granchi che piglio ogni giorno negli odori, a forza d’intendermene, da voi solo in fuori, più di tutti gli altri. Io credo che corra un poco più dall’odore del tribolo all’odor del fior d’arancio, dall’odore del cacciù all’odore della vainiglia, che non corre dal sapore d’una mora al sapor d’una visciola, dal sapor d’una fravola al sapore della framboise, dal sapore del latte quagliato a quello della ricotta, della fiorita, della giuncata, che finalmente tutti sono latti: e pure in quegli sbaglio spessissimo; in questi, anco al buio, non isbaglierò mai.

Ne’ suoni, per contraria ragione, io non pretendo che il mio giudizio faccia stato quanto negli odori, avendomi la madre natura fatto altrettanto disarmoniche l’orecchie, quanto mi ha fatto armonico il naso. E pure con tutta questa deplorabile afonia di mente, non solo non piglierò mai una tromba marina per uno scacciapensieri, ma né un’arpa per un liuto, né una spinetta per una mandola, né anche un concerto di flauti per un concerto di viole, né la voce d’uno per quella d’un altro.

 

Or se Madonna a’ suoi Ministri è tale,

Quai saran l’armi, onde i ribelli ancide?

 

disse il Tasso. Io dirò al contrario:

 

Ora se il suono a’ suoi ribelli è tale,

Qual fia l’accerto, onde i suoi cari affida?

 

Ci può egli esser mai caso che voi, che non avete senso che non sia temperato all’unisono di tutte quelle più delicate impressioni delle quali ciascuno di essi nel suo ordine può rendersi suscettibile, e che per conseguenza non siete niente meno eccellente musico che delicato odorista, ci può egli esser mai caso, dico, che vi succeda di pigliare cissolfaut di natura sua grave per un cissolfaut di natura sopracuta, un’ottava per una settima, una perfetta per una imperfetta, un’imperfetta per una falsa, una voce intera per un diesis, un diesis per un quinto di voce, se pure fino a un quinto si potesse andare, come vi va quel famoso strumento più che cromatico del Nigetti, che passa da un tuono all’altro per tali minuti intervalli? Certo no. E pure alle volte negli odori veggo girare il capo anche a voi.

Dell’infallibilità del tatto basta dire ch’ella si piglia per traslato dell’evidenza la più indubitabile, perché quando s’arriva a dire: questa è verità che si tocca con mano, non si può andar più in . E il bello è che in alcuni la finezza del discernimento delle dita è arrivata a metter la falce nella messe degli occhi; poiché, senza contare il Cieco da Giambassi, che a forza di brancicare faceva somigliare i ritratti ch’ei formava di creta, fu qui parecchi anni sono un Francese, che a occhi chiusi e, quello ch’è più, al buio, vi sapeva dire d’una quantità di nastri: questo è nero, questo è bianco, questo è verde, questo è giallo, questo è turchino; e la Serenissima Granduchessa Vittoria con molte delle sue Dame di quel tempo, che vivono ancora, ve ne saranno buon testimonio di vista: tanto il lungo studio sulle varie asprezze de’ veli indotti sulle sete dalle differenti figure de’ minimi corpicelli componenti le varie tinte aveva raffinato il senso e ammaestrato il discernimento delle capillari delicatissime fibre de’ polpastrelli di costui, per fargliene un nuovo e forse fino allora inescogitato mestiero da buscarsi il vivere a sedere.

A proposito di quel modo di dire: questa è una verità che si tocca con mano, osservate che, da tutti i cinque sentimenti cavandosi varie graduazioni di espressioni di maggiore o minore evidenza d’una verità, l’infima e la più meschina di tutte è quella che si deduce dal testimonio del naso: tanto è generalmente riconosciuto il poco accerto de’ suoi giudizii. Di grazia osservate: questa cosa si tocca con mano; ecco il sommo dell’indubitabilità. Questa cosa si vede cogli occhi; comincia a poterci essere della fallacia. Questa cosa si sente bisbigliare; c’è il caso di frantendere. Questa cosa si comincia a saporare; siamo in dietro assai. Questa cosa si subodora; non se ne può saper manco.

Diranno i Filosofi (che in questo caso vuol dire l’istesso che i Barbari) che qui non c’è altro mistero se non che negli uomini l’organo che serve all’odorato è il più imperfetto di tutti gli altri; e che ne’ cani, ne’ gatti, nelle volpi e negli orsi, forse e senza forse, sarà più perfetto di quei del tatto, del sapore, della vista, e in taluno dell’istesso udito. Di questo in parte io ne vo d’accordo, essendo verissimo che quelle due laminette cartilaginose, che abbiamo fitte per punta, di qua e di nel naso, alle radici dell’osso cribroso, nella tunica che investe le quali pare che resti convinto formarsi il senso dell’odorato in agguaglio di quei laberinti di voluminose spugnosità che riempiono tutta la doppia tuba del muso de’ predetti animali, sono un istrumento così semplice ch’io ne disgrado il colascione, in concorrenza dell’arpa doppia e della lira arciviolata. Il loro organo è un giacchio, che rasciuga tutto un vivaio, non entrando nell’apertura delle loro narici atomo odorifero che non appanni a qualche filamento nervoso e quivi non si renda sensibile; laddove il nostro è poco più d’un amo, che né pure sferza la corrente del fiume, ma che sempre fisso nell’istesso luogo non piglia che quel miserabil pesce, che per disgrazia si abbatte a passare per l’istesso filo dove quello sta teso. Tuttavia osservo che il senso, o, a parlare più propriamente, che il discernimento dell’odorato si raffina e si perfeziona anche indipendentemente dall’organo; cosa che non succede, almeno così regolarmente, del giudizio degli altri sensi. Se io averò cattiva vista, se io non averò orecchio, se io averò le punta delle dita callose, io potrò sbirciare, potrò andare alla scuola della musica, potrò durare a stropicciare gli anni, io ci vedrò, io stuonerò, io mi confonderò sempre a un modo. E come sarebbe egli altrimenti, se quegli organi sono fatti così? Perché una campana di piombo duri a stillare dieci anni, non imparerà mai a farmi quelle separazioni che mi farà un bagno, che mi farà un tamburlano, che mi farà una serpe.

Questo che io dico è tanto vero che se voi ci farete riflessione, troverete esser pochissimi quelli che hanno un buon gusto naturale negli odori. Potranno bene avere un odorato finissimo, e questo tanto nel buono che nel cattivo; ma altro è il finissimo, altro è il delicato. Il buon naso è come l’oratore: si fa. Il buon orecchio è come il poeta: nasce. Vedete a Pratolino quanti lacchè, a Venezia quanti barcaiuoli portano via di peso dall’opera arie difficilissime, e le vanno cantellerellando per le strade e pecanali senza scattare una nota. L’arie dell’odorato non si pigliano coll’istessa felicità. Io medesimo, tornato di Spagna colla frenesia in capo degli odori e con una libreria di ricette, e dell’Infanta Isabella, e del Cardinal di Moncada, e di tant’altri signori e dame spagnuole e portoghesi, e che veniva alla vostra scuola e del Cavalier Saracinelli, vi ricorderete che da principio ogni cosa mi pareva buona, e voi altri a guardarmi in viso, e ridervi della mia semplicità. Finalmente dàgli oggi, dàgli domani, un giorno (me ne ricorderò sempre) mi faceste sentire certa mantechiglia di zibetto da bollire sul fuoco. L’odore era ricchissimo, e da farci stare ognuno che alloggiasse alla prima osteria, come credevate che ci avessi a stare ancor io. Pure, fosse caso o sapere, dissi che mi pareva una gran cosa, ma che tra tante buone cose mi pareva di sentire un non so che di mela cotta. Non si può dire l’applauso e il viva che gridaste al giovane scolare, e non mi sovviene se foste voi o il Saracinelli, che disse queste formali parole: «Orsù, che costui comincia a mettere i denti». Questo medesimo ho io poi riconosciuto in tutti i miei servitori, che ho tirato innanzi per questo mestiero: gente, che, come dice Teofrasto, non faceva differenza dal timo e la maiorana ai magisteri i più misteriosi, ridursi appoco appoco a ritrovare il pelo nell’uovo alle conce le più delicate, a manipolare, a inventare, a alterare, a rinvenire, e indovinare, a forza di fiuto, non dico i tre mattadori di profumeria, l’ambra,, il muschio e il zibetto, che a questo ci vuol poco; ma e fiori, e agrumi, e radiche, ed erbe, e pali d’aquila, e zidre, e ciaccherandà, e calambucchi, e aloè, e nisi, e gomme e rage, e tracantidi, e balsami, e animi, e quinquine, e boli, e buccheri, e quanti altri

 

Nomi da fare spiritare i cani,

Da fare sbigottire un cimitero,

 

si trovano nelle addizioni del nuovo Vocabolario dell’Accademia degli Odoristi Cavalieri sotto la protezione del genio tutelare della svogliatura del secolo. Ora qui vorrei che mi dicessero i signori filosofi come, non avendo costoro mutato naso, né in conseguenza sensorio, abbiano mutato senso e discernimento. Che se a sorte rispondessero potersi dire che abbiano mutato naso benissimo, mercè che, col tanto stuzzicare e ristuzzicare quelle fila e quelle papille nervose, delle quali è tutta come trapuntata e fiocchettata la tunica del sensorio, queste s’affilano, come fa il rasoio sulla ruota; rispondo che averebbe a succedere tutto il contrario, come in effetto succede, mostrando l’esperienza che da questo continovato stuzzicamento del sensibile, tanto il naso quanto il palato, a lung’andare fanno piuttosto il callo, e inottusiscono; che però in Francia, come un cuoco passa i quarant’anni, un delicato mangiatore se ne impaccerà sempre mal volentieri; ond’è che, a questa sorta d’ufiziali, quando si trovano riformati e cercano di tentar nuova piazza, torna sempre bene l’andare a rilente ad allegare diecine d’anni di servizio, per non tirarsi addosso quella famosa risposta consolatoria che dette il vecchio Duca di Lorena a quel povero capitano di dragoni che gli chiedeva avanzamento, trovandosi d’aver già servito dodici anni in quel posto. «Dodici anni? rispose il Duca; bisogna che siate un gran poltrone; un buon capitano di dragoni che voglia fare il debito suo, s’ha a far ammazzare, a dir tardi, alla seconda campagna; innanzi che avanzarvi di posto, mi verrebbe voglia di farvi impiccare; levatemivi d’avanti.» E poi se questo lungo stuzzicamento raffina, come può egli stare con quella somma raffinatura quella somma facilità, così familiare solamente a i maestri grandi, di confondersi da un odore a un altro, per esempio dalla ginestra al fior d’arancio? E all’incontro con questa somma facilità a confondersi, come può egli stare quella infallibità colla quale altre volte si giudica, e quella scienza così perfetta colla quale sempre s’inventa, s’assortisce, si crea?

Credetemi, Cavaliere, che per ritrovare la cifra di questo mistero bisogna salire alto assai, e andar più del Mondo platonico. Mi passava per la mente se a sorte, patendo l’anima in tutti gli altri sensi, ella agisse solamente in quello dell’odorato, per modo che, facendo tutti gli altri sensi sentire all’anima quello ch’essi ricevono dagli oggetti esterni, qui fosse l’anima che facesse sentire a i sensi quello che, independentemente dagli oggetti esterni, ella medesima elice a forza d’immaginare da’ tesori delle proprie perfezioni. Intendetemi bene. Io non dico che questa operazione si faccia in tutti, e sempre; e che quando un barbaro, e anche noi medesimi, talora per mortificarci, ci accostiamo al naso una rosa, sia l’anima quella che influisce nel senso, e non il senso nell’anima. In questo caso il negozio cammina per la via ordinaria, e vuol esser gran fatto che si pigli errore. Anzi questo è il vantaggio che hanno sopra di noi i nostri avversarii, i quali odorando da bracchi, né vagando punto nell’immaginativa di da quelle impressioni materialacce che ricevono dagli effluvii dell’oggetto, non errano perché non sanno, giusto come quei buoni per temperamento, che fanno il bene perché non sanno fare li male. Per rendersi capace di quell’occulto rigiro e di quelle mistiche interne trasmigrazioni dell’anima revelantesi al senso sotto diverse arbitrarie specie d’odore, che spesse volte

 

E’ quello che fallir chiaman gli sciocchi,

 

ci vuol altro che intendersi dell’acqua rosa e della nepitella. Altre conserve, altri erarii ci vogliono in testa, altro studio, altra intelligenza di materiali, di dosi, di combinazioni. Vuol essere esperienza di sentire, vuol esser pratica di manipolare, vuol esser un abito acquistato da’ replicati errori e da’ replicati disinganni; ci vuol esser un’immersione, un inzuppamento, un’ubbriachezza di fantasia, tenuta gli anni e gli anni come a rinvenire in un continuo bagno ideale dell’infinite specie odorose, dal quale sollevandosi poi talora questa fantasia tutta grondante e satolla, asperga (per così dire) e profumi l’anima di evaporazioni così depurate d’ogni tintura di materia, che, arrivando alla mente in qualità d’un puro suffumigio spirituale, l’invasi d’una soavità così univoca, che, abolita ogni moltiplicità, senta tutto in un solo, e quel solo in se stessa, come vuole e quando vuole, indipendentemente da qualunque esterna applicazione d’odori corporei; i quali, quando l’anima è in questa disposizione, non operano più come odori, rimanendo assorti o più propriamente ecclissati in quell’abisso di luce odorosa; e allora non servono altrimenti che d’un certo invito all’anima per avviarsi alla volta dell’organo colle sue emanazioni, nella pienezza delle quali quel miserabile odore esterno non rimane più discernibile di quel che la dolcezza dell’acqua d’un povero gemitivo rimanga discernibile dopo confusa e assorbita nelle maree dell’Oceano. Che però in questo caso il presentare alle narici un pezzo d’ambra grigia, o un che io non dissi, sto per dire è la medesima cosa. In questi stati non s’odora altro col naso che quello che s’ha nella mente, come in certi altri non si vede altro con gli occhi che quello che s’ha nel cuore: così il povero nostro messer Francesco:

 

Ove porge ombra un pino alto, ed un colle

Talor s’arresta: e pur nel primo sasso

Disegna colla mente il suo bel viso.

 

E poco dopo

 

In tante partibella la vede,

Che se l’error durasse, altro non chiede.

E l’ha più volte (or chi fia, che gliel creda?)

Nell’acqua chiara, e sopra l’erba verde

Veduta viva, e nel troncon d’un faggio,

E n’ bianca nube sì fatta ché Leda

Avria ben detto che sua figlia perde,

Come stella che ’l sol copre col raggio.

E quanto in più selvaggio

Loco ei si trova, e in più deserto lido,

Tanto più bella il suo pensier l’adombra.

 

Dove notate che dalla durezza e ruvidezza della scorza d’un faggio alla delicatezza e morbidezza del viso d’una donna, a mio credere, ci averebbe a essere un tantino più di differenza che non è dall’odore della vainiglia all’odore della cipolla. Ora, se gli occhi trovano la via di vedere il viso nel faggio, molto più canonicamente potè il vostro povero naso, quella sera che il Priore non vi perdonerà sinché ci vive, veder la vainiglia nella cipolla. Quell’appressare al naso un odore, fate vostro conto, non è altro che lo strofinare che si fa all’ambra e alle gioie trasparenti per eccitare gli effluvii della virtù elettrica, la quale, una volta ch’è messa in moto e venuta alle bocchette de’ pori, tira indifferentemente tutto quello ch’ella trova, senza discernere, s’è paglia, o carta, o polvere, o fili di seta o di lana. Ma, essendo finalmente il naso un succino vivo e sensitivo, qualche minima differenza di senso bisogna pure che vi si imprima dalla varia mistione dell’odore interno e dell’esterno. Se l’interno è niente niente copioso, studi il senso quanto ei vuole, non l’indovinerà mai. Se poi è tanto scarso ch’ei ritenga qualche minima proporzione coll’esterno, potrà darsi caso che lo raffiguri o, per dir meglio, che l’indovini; poiché per iscarso che sia l’interno, come ricchissimo di natura lo copre tanto che il ritrovargli quel poco di lega che vi si mescola dell’esterno sarà sempre più fortuna che altro; ma questo giudizio è tutto del senso e non punto dell’anima, la quale non sente mai altro che se stessa:

 

Ma ella s’è beata, e ciò non ode.

 

Così quello che potrebbe dirsi, e sarebbe sbaglio e errore peBarbari, in noi non è altro che un accerto che trascende le vie ordinarie del senso, e, sto per dire, i principii elementari della ragione: giusto come, per sentimento d’un grandissimo uomo, quello che negli uomini volgari si chiama delirio, negli eroi non è altro che una pienissima libertà, nella quale l’anima, distesa in una totale espansione, forma dell’impetuosità de’ proprii sentimenti o movimenti quella virtù sovrumana che, senza riconoscere i giudizii, rapisce la nostra ammirazione.

Questo lavoro intellettuale non si fa già colle specie degli altri sensi. Io so bene che quando un compositore di musica sta al tavolino scrivendo le note sulla sua cartella, ha nel capo tutto il frastuono d’una orchestra; ma abbiavi tutto quello che si pare: ci sentirà tutti quelli strumenti per quello che sono: il buonaccordo per buonaccordo, il liuto per liuto, i violini per violini e va discorrendo; e l’istesso chi gode con gli occhi della ricchezza, della vaghezza, della varietà, della magnificenza d’un spettacolo. Dante, come osserva il nostro Assessore, ha detto di gran cose e ha descritto di gran cose; ma l’incognito indistinto non gli è sovvenuto di dirlo, né verisimilmente ha creduto di poterlo dire, se non degli odori. Forse infino a un certo segno si potrebbe dire anche de’ sapori, non per dipendenza del palato, ma per la vicinanza, per l’affinità e per la correlazione che hanno col naso.

Cavaliere, noi abbiamo un gran vantaggio sopra il volgo de gli uomini grandi: sappiamolo conoscere, sappiamocelo godere, sappiamocelo conservare. Non ci curiamo già di farne una vana ostentanzione. Gl’ignoranti hanno questo di comune con gli empii: quando sono nel profondo, disprezzano. Per questa ragione ho insino pensato di metter tutta questa Lettera in cifra, per tenerla al coperto di tutti quei sinistri ch’ella potesse incorrere di qui a Arcetri. Considerate che nel mondo in oggi sono pochi quelli che fossero capaci d’approfondarne e di rinvenirne i misteri. In Firenze, d’alcuni pochissimi in fuori, che più rispettosamente s’esprimono col silenzio che col nominarli, rimanghiamo voi ed io, ed alcuni pochi de’ nostri scolari. Tra questi, Martelli, che per apertura di mente, per gentilezza di genio e per finezza di gusto ha fatto qualche cosa in virtù della quale in Polonia non s’è meno renduto amabile per servitore di dame che stimabile per modello di cavalieri, e che averebbe potuto far molto più, l’infingardaggine è un pezzo che gli ha fatto mettere il tetto. A Vitelli, che averebbe avuto talento e un’assai buona volontà, la sua prima gioventù spesa nell’armate, e la seconda occupata nell’assiduità della Corte, non gli hanno permesso né il coltivare l’uno, né il coltivare l’altra. Pure anche in questo grado egli ha tentato e condotto felicemente a fine delle cose alle quali né voi, né io avevamo mai pensato. Basta dire che quelle pastiglie di barro di Guadalacara, che ci fece sentire questo inverno, hanno obbligato noi a decretargli la statua e assicurato a lui l’immortalità. Del Prior Rucellai, innalzato da noi per mera considerazione di amicizia alla dignità di nostro Assessore, si può dire con ragione quello ch’ei dice spesso con altrettanta d’alcuni:

 

Confonde le due leggi a sé mal note.

 

Egli propriamente non è né Greco, né Barbaro. C’è, non si può negare, tutta la capacità di Greco; ma c’è ancora tutta l’ignoranza di Barbaro. L’impegno della sua carica e il continovo maneggio de’ nostri affari gli hanno fatta fare quella poca di pratica che, coll’aiuto d’una mente per verità infinita in tutte le cose, lo rende anche in questa venerabile più agli altri che a noi, i quali però a tempo e luogo ei non lascia di sacrificare al divertimento delle conversazioni. E a questo proposito non lascierò di dirvi che vi guardiate dal comunicargli questa Lettera; poiché, avendogli io toccato così estraiudicialmente qualche cosa del suo contenuto, per vedere dove lo trovava, egli, che non prova la beatitudine di queste interne liquefazioni, e che per conseguenza è in impegno di far le viste di non crederle né anche in noi, o sia l’invidia, o sia la disperazione, non potè esser tanto padrone di sé che non mi dicesse con una svergognatissima petulanza che s’egli si fosse abbattuto a legger concetti simili senza saperne l’autore, gli averebbe creduti di qualche Filosofo che fosse impazzato; e che, se io li mettessi mai in carta, egli vorrebbe farci le note. Io però con tutto questo l’intendo a mio modo, e tengo per fermo che tanto manchi dell’aver egli la disistima ch’egli fa apparire della dottrina e dell’arte, che anzi sono persuaso che, in difetto di poter egli venire in fama col rifiuto d’un Imperio, conoscendo forse non esserci più degno equivalente di questa scienza, si sia messo sull’aria di Lepido in volersene far credere capacem, sed aspernantem. C’è qualche dama, e sento ancora qualche cavaliere, anche fuori della nostra ristrettissima oligarchia, che debbono andare un pezzo in ; ma pensate che si contano col naso. Fuori di Firenze posso dire d’aver trovato da per tutto una gran mediocrità. A Roma ho veduto delle profumerie con degli odori assai; e questo è il più discretamente che io possa parlarne. Di da’ monti, o il ricco del paese, senza il delicato del gusto; o lo scherzoso della moda, senza il massiccio dell’arte. Di dal mare ho sentito del buono assai, e tanto più stimabile, quanto più la gran penuria de’ fiori obbliga a ricavare il gentile dalla povertà dell’erbe. Fuori d’Europa, o ignuda barbarie, o barbara munificenza. Gli Orientali si può dire che patiscono la passione degli odori, come una influenza di quella necessaria corruttela che porta seco la grandezza e la felicità degl’Imperii, non che le vadano in contro per libera elezione d’un genio delicato: di qui è che alle Corti fanno una grande strage d’odori, macellando i materiali più preziosi, anzi da carnefici spietati che da manipolatori gentili. Tra l’etichette deliziali della Casa Ottomana vi è quella che il Gran Signore pigli caffè tre volte il giorno: la mattina a digiuno, subito dopo desinare, subito dopo cena: la prima e la seconda puro, la terza con una gran dose piuttosto d’ambra inzuccherata che di zucchero ambrato, la quale ci mette di sua mano nella chicchera, e se la caccia a quel modo giù per la gola senza dar tempo che il calore della bevanda possa avere attuato il godibile dell’odore. Voi vedete che, se non vi è sotto qualche malizia, per lo solo regalo del gusto e dell’odorato quella poverambra è tradita. Ibraim Padre e antecessore di Maometto IV fu un vero boia dell’ambra. Negli anni del suo Imperio, che cominciò l’anno 38, e finì l’anno 47 di questo secolo, ne fece una strage così orrenda, che un metcal, ch’è la quarta parte d’un’oncia, s’arrivò a pagare dodici pezze, da due che si pagava innanzi. Persuaso questo Principe che l’ambra fosse lo specifico più appropriato, non so se a mitigare o a vincere una sua favorita e in parte volontaria malattia, la masticava a tutto pasto dalla mattina alla sera, e, succiatone quel primo sugo, subito la sputava e si rifaceva da capo. L’istesso voleva che, a tempo e luogo, facessero tutte le sue donne, delle quali fu così perduto, come il figliuolo della caccia: differenza di genii, che diede luogo alla pasquinata: dalisi au Ibrahim, dalisi am Mohammed; nella quale, colla sola variazione d’un m in un vau, s’esprimeva, l’uno essere impazzato per le donne, l’altro per la caccia; essendo appresso a poco come se si dicesse:

 

Ibrahim è pazzo della faccia;

Maometto è pazzo della caccia.

 

Ma finalmente infin qui l’ambra è giustiziata per mano di carnefici nati bene assai. Più duro mi pare che abbiano a metterle le mani addosso infino gli abitatori delle regioni più salvatiche dell’America Settentrionale, che ci vogliono essi ancora fare i gentili e i delicati, raccogliendo quella che, non così poca né così mediocre, l’Oceano del Nord getta alle spiaggie della Florida, dal Garavagnal al Capo di Sant’Elena, per servirsene ne’ giorni delle loro solennità, delle loro nozze, de’ loro conviti, de’ loro spassi, delle loro gale, struggendola a fuoco a uso di catrame, impiastrandosene il mostaccio, le mani, il petto, e più giù ancora. Che se a nazioni così superbe e così brutali valesse la pena di spedire una missione di galanteria; e se come sotto Traiano i Romani rifusero l’Egitto coll’abbondanza delle proprie ricolte, così sotto di noi i Toscani rifondessero la Turchia, la Persia, le Indie colle vendemmie de’ loro balsami, colle pescagioni delle loro ambre, e colle tagliate de’ loro boschi, aromatizzando le moschee, e profumando i serragli coll’anime di quegistessi odori de’ quali quegli sgraziati Barbari s’abbracciavano così abbominevolmente colli sciattati cadaveri; dite, Cavaliere, che stupori, che estasi non sarebbero i loro, che compiacenze, che applausi, che glorie le nostre? Del resto, dalle Corti in fuori, tutto l’Oriente se ne giace in una disperata insensibilità; e la Grecia e la Palestina, così famose per la ricchezza e per la soavità degli unguenti, in oggi al pari delle Provincie più barbare son profumate unicamente da’ fetori della schiavitudine. E però, torno a dire, tenghiamoci caro e traffichiamoci di buona fede il prezioso capitale d’un sì innocente divertimento, e sappiamo grado alla natura d’averci dato quel genio, che nobis haec otia fecit.




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