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Lorenzo Magalotti Lettere odorose IntraText CT - Lettura del testo |
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Non sapete? Una nuova grande. Martelli non ha più detto uno sproposito. L’odore di quell’acqua di fior d’aranci, che alle sere passate fu preso per di ginestra, si è poi trovato ch’era di ginestra ginestrissima; e, quello ch’è più mirabile, senza che Tonino abbia né sbagliato, né detto bugia. Io vi racconterò il fatto, del quale di ragione m’averei a ricordare, perché seguì iersera. Erano da me Martelli, Luigi del Riccio e il Priore, il quale ripescato non so come l’equivoco delle sere avanti ce ne faceva la guerra, divertendosi egli colla sua galante impertinenza, quanto noi possiamo aver divertito lui colla nostra balordaggine. In quello arriva Vitelli, presto, una salva reale con palla al signor Marchese. Vien Tonino e spara il primo pezzo. Ginestra, tutti subito d’accordo, Greci e Barbari: ginestra, ginestra, ginestra. Io, con tutto che mi paresse di non poterne dubitare, dico in ogni modo a Tonino che non mi stia a fare il buffone, e se è ginestra veramente? Pensate: m’ebbero formatamente a mangiare. E che altro mi pareva ch’ella potesse essere? E come non sentiva il fiore in carne e in ossa, come se fosse ancora sulla pianta? Lasciate pur dire a loro. Quell’altro, ancora con una faccia invetriata: «Illustrissimo, sì, ginestra.» Orsù, ginestra sia. Intanto ch’ei seguita lo spruzzolo, mi vien dato d’occhio, e mi pare di vederlo ghignare. «Va’, e portami qua quella boccia.» Per farla corta, la boccia era la medesima che ci aveva minchionato l’altra sera, con una fondata della medesima acqua di fior d’arancio dell’anno passato, tutta panno e posatura, come quella ch’era il fondo dell’ultima passata d’una storta; che però sul principio della stillatura di quest’anno, trovatala guasta, n’aveva fatto un regalo a Tonino. A odorarla così in massa era un certo incognito indistinto di poco di buono; ma, spruzzata, diventava, o, per dir meglio, faceva diventar quella camera l’istesso che sarebbe sulla fine di Giugno il passar la mattina a levata di sole sottovento a un ginestreto tutto in fiore. Eccovi dunque verificate tutte e due le parti del mio paradosso: che Martelli non ha più detto uno sproposito, e che Tonino non ha sbagliato, né detto bugia. Tonino non ha sbagliato, né detto bugia, perché quell’acqua, secondo che egli depose l’altra mattina nel suo esame privato, è veramente uscita dal fior d’arancio. Martelli non ha più detto uno sproposito, perché quell’acqua, ch’era di fior d’arancio per natura, è diventata di ginestra per adozione, ma adozione equipollente a natura. In tutto questo accidente non ci è altro male, se non che il naso di Martelli, in cambio di servire passivamente alla fantasia, o, per dir meglio, all’intelletto, delirando all’eroica con sua lode, come s’era creduto, ha accertato alla barbarica senza suo biasimo, operando tutto a forza di senso. Egli ha sentito quello ch’era: l’acqua di fiore d’arancio è diventata di ginestra, ed egli ha riconosciuto la ginestra, e l’istesso abbiamo fatto tutti noi altri ancora. Del resto qui non c’è gran cosa da speculare, né pe’ filosofi, né pe’ mistici profumati: non c’è altro, se non che, nello scioglimento di quest’acqua di fior d’aranci, alcune delle sue parti più volatili sono venute a lavorarsi e forse a ordinarsi di figure simili e con ordine simile a quello delle filiggini ch’escono, per insensibile traspirazione, dalle foglie del fior di ginestra. Il maravigliarsi di simili metamorfosi in natura, sarebbe un maravigliarsi che la natura fosse quella che ella è: un eterno passaggio d’una cosa in un’altra, e di quella in quell’altra, e va discorrendo, e poi rifarsi da capo. Con che in tutte le risoluzioni de’ misti è indubitato che, innanzi che i quadrelli di quel mosaico che si disfà piglino stato in un nuovo assortimento, non pare che ci sia alcuna repugnanza perché non possano accidentalmente passare per innumerabili correspettività fra di loro, in tutto o in parte simili a quelle nelle quali talvolta si fermano in altri composti, co’ quali (tanto che si tratteranno in quello stato passeggiero) si conformeranno in tutto ciò che risguarda le dependenze di quelle configurazioni similari, sia nell’odore, nel sapore, nel suono, nel tatto, nell’apparenza. Né solamente tra gli stati passeggieri de’ misti, ma tra i fissi e permanenti si troveranno di sì fatte simiglianze d’odori in cose diversissime. Che cosa è il moscado delle frutte? Odore di muschio. Il muschio nasce dalla corruzione del sangue d’un animale, accolto in una postèma fatta ad arte: e il moscado nasce dalla spontanea maturazione (che non è poi altro che una tendenza alla corruzione) del sangue dell’uve e delle pere. Vedete che differenza da sangue a sangue; e pure che simiglianza tra odore e odore. È tanta che se insinuerete in un granello d’uva dolce, ma non odorosa, un granello di muschio, e ve lo lascerete stare una notte, la mattina non lo distinguerete da un granello di moscadello o d’uva seralamanna. Ci può egli esser maggior simiglianza d’odore di quella ch’è tra ’l garofano spezie e il vivuolo? Basti dire che da Firenze in poi, dove sempre piacque il raffinare, in tutto il resto d’Italia questo fiore si chiama garofano; e pure uno fa qui e uno alle Molucche, uno sotto la Zona temperata, uno sotto la torrida. E la pera paradisa così bella, grossa, gialla, brizzolata di color di ruggine, e che sa di fior d’arancio, diremo noi che le siano state medicate le barbe con dell’essenza di fior d’arancio, come si dice che fossero medicate quelle del pesco venuto velenoso d’Oriente? Io imparai a conoscer la pera paradisa a Bona nel giardino dell’Elettore, il giorno dopo la resa di quella piazza, il novembre del 1673, e mi par gran cosa che abbia a esser sovvenuto l’attentato della profusione di questo unguento; e però mi do ad intendere che, se questa pera avesse avuto a profumarsi a forza d’essenza di fiori, sarebbe stata un pezzo. Una cosa io so di certo, che né il moscadello sa di muschio, né il vivuolo di garofano, né la pera paradisa o quell’uva bianca di Bertinoro di fior d’arancio, come l’erba appia sa di mela appiola a passarvi sopra leggierissimamente la palma della mano. Ora, siccome è certo che questa traspira sull’aria della mela appiola senza che nessuno si sia mai avvisato di concimar le barbe colle scorze di questo pomo, così viglio credere che possano naturalmente quegli altri traspirare sull’aria del muschio, del garofano, del fior d’arancio, senz’essere stati mai alla loro scuola. Ma più assai; non venn’egli fatto a me di fare senza pensarlo quell’acqua magica di giacinti, dove tanto avevano che fare i giacinti quanto ci avevano che fare l’arsa fetida o il bitume ebraico? E pure, a sentirla abbruciare sulla paletta, era cosa da stordire. Maraviglie tutte, sorelle carnali di quella che sarebbe che una nuvola, la quale contorniata in forma di figura umana se ne posasse quieta nel mezzo dell’aria, combattuta poi e stracciata da’ venti passasse a drago, a leone, a albero, a vascello. Quel poco di rarità ch’è nel caso della nostr’acqua, e che lo rende più scherzoso che considerabile, si riduce all’essersi abbattuta un’acqua d’odore decrepita a morire per una maniera di resoluzione odorosa, e odorosa d’una fragranza a noi nota: accidente che dà un poco di sfregio al comune assioma: Corruptio optimi pessima; se non quanto qualche zelante Peripatetico si mettesse a pretender di sostenere pessimo l’odore della ginestra; nel qual caso l’averebbe a fare con esso noi. Più scherzoso ancora, se non più considerabile, direi che fosse che, avendo noi poi iersera fatto schizzare dell’acqua di ginestra stillata dalla ginestra, questa non aveva che fare a mille miglia colla verità, che si riconosceva dall’istesso fiore, in quella trasmutata dal fior d’arancio, con tuttoché a odorare e l’una e l’altra nella boccia, quella di ginestra si riconoscesse assai bene per quella ch’ella era, e quella di fior d’arancio né punto né poco. Né solamente nello sbruffo di questa si riconosceva la verità del fior di ginestra, quale egli è; ma vi si riconosceva la verità di quello ch’egli averebbe a essere s’ei fosse depurato da qualche cosa che si vede che l’imbarazza. Che però, se ci avete badato quando dianzi ho voluto mettervi sotto il naso la soavità di quella fragranza, vi ho detto che pareva d’esser sotto vento a un ginestreto fiorito, non nel ginestreto medesimo. Molto meno v’averei detto che pareva di grufolarsi con tutto il viso in un bacile di fior di ginestra, avendo la ginestra in modo molto distinto questa proprietà, che sentita assai da vicino non par mai possibile ch’ell’abbia a esser quella che si fa poi sentire così di buona grazia da una certa discreta lontananza. Or fate conto che in quello spolvero di finissima e quasi impalpabile rugiada ch’esce dalla siringa, ella compariva in tutta la sua maggior gala, e tanta che il fiore non ci arriva mai. Onde si può dire che quell’aspergine fosse uno di quei ritratti aiutati con un’arte così giudiziosa che alle volte mi moverebbero a dire che somigliano più del naturale. Il che non è sempre talmente iperbole che in qualche modo non possa talvolta essere anche verità, potendosi dare il caso che la gagliarda immaginativa del pittore finisca di cavar fuori sulla tela certi lineamenti solamente abbozzati in un viso, e finisca di spiegare certe fattezze, dirò rannicchiate, che non si lasciano raffigurare così da tutti gli occhi per quello che sono. Un servizio simile può aver fatto all’odore della ginestra il ritrattista, che l’ha ricavato così di chiaro oscuro, con quell’acquerello di fior d’arancio, sciogliendo e spiegando le sue fattezze nel ritratto un poco meglio che non si trovano al naturale. Da questo considerabile teorema, direi tuttavia che se ne potesse dedurre un corollario di qualche conseguenza, ed è: che gli oggetti dell’odorato hanno così bene il punto, per così dire, della loro prospettiva, come quei della vista; tanto potendo tornar male il troppo vicino che il troppo lontano, più o meno, secondo la loro varia costituzione. Anzi direi di più, che il punto degli occhi fosse meno rigoroso di quello del naso, e che in conseguenza il godibile dell’odorato fosse più limitato, o diciamo più schizzignoso del godibile della vista. In un teatro vi sono di molti luoghi anche assai lontani dal punto, da’ quali tutto quello che io scopro della scena, almeno a parte a parte, lo raffiguro per quello ch’è; e bisogna bene che la spostatura dell’occhio sia grande, a voler che mi faccia una tal violenza che quello che io veggo arrivi a non dilettarmi. Molto meno si può dare il caso che vi sia oggetto tra’l quale e il mio occhio si possa tirare una linea retta, e che io non lo vegga non è vero? Nell’odorato, ad uscir del punto si dà in delle scene più schiribizzose assai. Alcune mutano in meglio, altre in peggio, altre si fanno invisibili, anche senza mandar giù il proscenio e senza spegnere i lumi. Le due prime le vedemmo in quello che seguì irsera. Quell’acqua di ginestra per trasmutazione, a tirarle a fermo con mettere il naso nella boccia, era un incognito indistinto, come già v’ho detto, e di poco di buono; a tirarle per aria, già avete inteso. Quell’altra di vera ginestra, nella boccia fiore schietto, spruzzolata, un’altra cosa affatto, e anche non molto buona. Chi vuol conoscere un dappoco, gli faccia accendere il lume e il fuoco, dice un trito assioma di famiglia. Appresso di noi non è meno corrente un altro di profumeria: chi vuol conoscere gl’ignoranti, dia a fiutar loro pastiglie e guanti. Vedete certi, come veggono abbruciare una pastiglia, in cambio d’uscirne, di quella camera, per tornarvi dopo che l’odore ha preso luogo nell’aria, andare e cacciar subuito il naso sopra quel fumo; e l’istesso fare a un guanto, in cambio di aprirlo gentilmente, investir con buon ordine colla bocca, alitarvi dentro e accorrer subito col naso a pigliare il ritorno di quel respiro caldo e profumato, che se ne vien, come per canale, su per la gola della manopola. Gli oggetti degli altri sensi, o non sono così sdegnosi, per esempio quelli della vista o dell’udito, che un po’ più qua o un po’ più là non fa gran variazione; o sono sdegnosissimi, come quelli del gusto e del tatto, che per essere nel punto bisogna averci sopra il palato e le dita. Di grazia, senza stare a perderci nell’eroico de’ delirii del naso, e senza profondarci nel misterioso de’ ratti dell’immaginativa, chi non vede, caro Cavaliere, che questa singolarità di genio, questa delicatezza di mire, quest’umor puntiglioso degli odori sono la ragione chiara, liscia e naturale dell’accidente dell’altra sera? Il male è che arrivano a intenderlo questi altri ancora, e già cominciano a sfringuellare e per le anticamere e per le conversazioni, lodandoci soprattutto di quella nostra franchezza, colla quale a dritto o a traverso rendiamo ragione d’ogni cosa, applicandoci quei versi del Satirico Fiorentino
Se alcuno afferma che l’alma svanisce Al dipartir di questa spoglia frale, O l’esser suo mortal costituisce; Ha detto parimente bene e male Il Testo Aristotelico.
L’Assessore poi, il ciel ne liberi, egli cerca, ma non trova, di mettere insieme degli spiriti nequiores se, non largheggiando la natura co’ secoli niente più a eroi nel male che a eroi nel bene; che però il poveretto s’ingegna in quello scambio di replicare il suo spirito in corpo al terzo e al quarto, mettendo in bocca agli amici di quelle satire più velenose, delle quali anzi la vergogna che l’onestà lo tratttiene dal darsi per autore. Il maggior male però, contentatevi che io vi dica, l’avete fatto voi col fargli confidenza della mia Lettera dell’altro giorno; a ridosso della quale essendogli balzata questa palla in mano di mettere in ridicolo la dilucidata ineffabilità di tanti misterii della nostra liturgia, lasciate pur fare a lui, né vi dubitate ch’egli non sappia farsi valere in nostro disavvantaggio il venerabile di quella dignità, colla quale, colpa della nostra connivenza più che della nostra elezione, questo secondo Castruccio, messosi in potenza da sé, pretende in oggi di ristrignere tutta la nostra autorità alle sole materie di fatto, riserbando a sé solo il decider pettoralmente sopra il quid juris; e tutto questo, come sapete, per essergli riuscito due o tre volte con un prospero errore di dar nel segno in caso di controversia tra di noi. Intendo però che al Capitolo delle sue lodi egli abbia dato quartiere, anzi ch’ei supplisca del proprio, dove gli pare che io sia riuscito o sobrio o difettoso; ragione forse per la quale, tenendosi la sua ingegnosa ingratitudine per dispensata dal mostrarne gradimento, va dicendo per tutto che io ho preteso di ripigliarlo per la paura che tutti abbiamo di lui. Quanto poi al resto della Lettera, egli mi fa grazia di mettere in Cielo Empireo l’ingegno, la fantasia, tutto quello in somma che non ha che far niente col mirabile dell’arte e coll’eccellente dell’intelligenza di chi la maneggia, deducendone da ultimo questo galantissimo corollario: che io senza avvedermene ho fatto in quella Lettera una ingenuissima confessione del nostro ordinario modo di fare fondato tutto sulla forza dell’immaginativa, che in sostanza vuol dire sull’opinione; unico diritto sul quale abbiamo usurpato quest’autorità e alzato questo nuovo tribunale, misto di filosofico e di voluttuoso, decidendo sovranamente del buono e del cattivo, omni appellatione remota. In ordine a che intendo ch’egli si sia dichiarato in una conversazione, che ogni volta che noi non pretendiamo altro che ideare una nuova scienza o sia una nuova superstizione per una Repubblica da formarsi, quando che sia, negli spazii immaginarii per quivi trionfare sulla docilità di quelle nuove creature, egli si sottoscrive, e non ha più che dire. A me stanotte è venuto in testa di chiarirlo con fargli vedere che, senza uscire del mondo materiale, la scienza (o com’egli la chiama), la superstizione degli odori può servire di grande scuola di politica e di morale; e che la profumeria è almeno così buona a fornire d’uomini di garbo le conversazioni, e forse d’uomini di stato i gabinetti de’ principi, quanto sia creduto buono il giuoco degli scacchi a fornir l’armate di generali. Questo, come vedete, è negozio un poco lungo; che però prima di perderci maggior tempo di quello che ci ho perduto stanotte, voglio mandarvene un saggio, perché me ne diciate il vostro parere, per poi compilare l’istesso sistema, e, riuscendomi di condur l’opera, dedicarla al nostro derisore. Per farmi dalla prima considerazione messami in testa da quella gran variazione, ch’è capace di far apparire in un odore l’uscir del punto di prospettiva l’odore medesimo, o l’uscirne i nasi, io andava osservando come in questo Mondo non vi è uomo, né così grande che non possa esser messo in ridicolo, né così debole che non possa diventare alla moda. Il Conte Duca d’Olivares, da giovanetto studente in Salamanca, ebbe de’ lucidi intervalli sulla grandezza e sulla splendidezza. Ritornò, è vero, ma non parve che arrivasse mai a consolidarsi perfettamente, se non dopo ch’ei si vide nel favore e nel ministero. Dopo la caduta restò massima certa tra i cortigiani ch’ei non fosse guarito mai della prima pazzia, che gli prese in Salamanca; solamente che per sua buona fortuna fosse stata una sorta di pazzia da poter rimaner come stemperata, allungata, anzi pur totalmente assorbita e dissimulata nella grandezza del fasto, dell’autorità e de’ modi di spendere; che però egli aveva potuto continuare a esser sempre pazzo in confidenza. Io non dirò che il posto, dove si trovò costituito questo cervello, bastasse a farlo apparire per un originale di saviezza; dico che non è poco l’averlo salvato, per tutto il tempo ch’ei vi si resse, dall’esser riconosciuto per pazzo; come verisimilmente gli sarebbe riuscito in ogni altra correspettività a i nasi degli osservatori. Fra Ottavio Piccolomini Duca d’Amalfi, per ridursi un miserabile originale a Malta o a Siena, non aveva altro scampo che il diventare luogotenente generale dell’armi dell’Imperatore. Ci arrivò, e morì grande. Datemelo arrenato in un altro posto subalterno, tra il niuno studio e l’incapacità d’ogni altro mestiero che quello della guerra, tra la grandezza del cuore e la larghezza della mano, lo facevano morir di fame e discreditato. Quegli uomini che hanno un talento solo in grande, sono molto pericolosi di farla male. Perché se le cose non rigirano loro in modo da poter far giuocare quel talento in tutta la sua distesa e da ricavarne tutto l’utile e la gloria che conoscono di meritare, secondoché si trovano corti in tutto il resto del loro capitale, o vogliono farsi largo col mestiero che non sanno e si rendono ridicoli, o con quello che non lavora e si muoiono disperati. Veramente certi odori semplici, ma oltre modo pieni, ricchi e fumosi, che per rendersi godibili hanno di bisogno di tanti correttivi, in oggi che i gusti sono venuti così delicati, si considerano più per medicine che per odori; si stimano più di quello che s’amino; s’adoprano una volta in cento più per lusso che per diletto, e se ne sta sempre con apprensione. Questa non si può dire che sia loro colpa, essendola piuttosto o delle teste deboli o della svogliatura, che vuole lo scherzo, il gentile, la non suggezione, e anche la non grande spesa. Ma tutto questo non serve a fare che non si lascino stare piuttosto ne’ giardini che per le camere, più spesso negli studioli che su i tavolini. Poco innanzi la fine del Congresso di Colonia, il Marchese di Grana, ch’era rimaso Governatore di Bona, venne insieme colla Marchesa a stare quattro dì in quella città per sentire la compagnia de’ Commedianti francesi, che era buona assai. Una mattina il Marchese mi domandò se voleva rimanere a desinar da lui; gli domandai chi c’aveva. Nominatimegli tutti, dissi di no. «Oh perché?» mi disse. «Perché siete tutti soldati; ed io non mi veggo con gusto in conversazione, dove so di certo che ognuno m’ha da guardare de haut en bas: perché, contuttoché io vada d’accordo che hanno ragione, in ogni modo con vostra licenza la cosa non mi piace.» «Voi fate troppo onore alla guerra, e troppo a i soldati, rispose Grana. Che credete, come dire, che Montecuccoli, Bornonville, Taaffe, Chavagnac, io, trattiamo più volentieri e stimiamo più un animalaccio come N., o un frenetico come N., che un galantuomo come voi? Si riducono a poche quelle ore della vita di costoro nelle quali agisce la loro virtù. Per una dozzina di volte che battono il nemico, sono infinite quelle che ammazzano il padrone, gli uguali, gl’inferiori, gli amici.» Non diceva male Grana; perché il puro militare è una specie di vivente più incomodo assai del puro legale. Il non esser buono, scrive un amico mio, se non a ammazzare degli uomini, l’essere miglior maestro degli altri in desolare la società civile e in distruggere la natura, questo è un esser eccellente in un’arte molto funesta; a graduarla a virtù ci vogliono di molte cose. Che però diceva benissimo il nostro marchese Pier Francesco Vitelli a uno de’ suoi figliuoli che da bambino non voleva studiare: «Perché (diceva coll’istinto naturale ereditario della Casa) come io son grande, voglio andare alla guerra.» «Benissimo, figliuol mio, tu vuoi andare alla guerra; fa’ conto d’esserci. Ecco una partita di nemici: tu monti a cavallo, vai, li ammazzi. Torni, bravo Vitelli, bravo Vitelli. Un altro all’arme: voi, ammazzi anche quegli. Finiti questi, per quel giorno non ne vien più. Come vuoi tu finir la giornata? Ammazzar sempre non si può; e però bisogna dunque studiare per poter discorrer di qualche cosa in quell’ore che non s’ammazza.» Questo pregiudizio non è solamente della virtù militare: tutte le virtù grandi, quando sono sole, riescono gravi, odiose, e di poco uso o nessuno. Si può egli sentire cosa più singolare dell’ambra? E pure sola, da vicino e a lung’andare, chi la può soffrire? Non perché noi altri abbiamo proscritto le rose e disautorato l’essenze, le rose e l’essenze lasciano d’essere di grandi odori. E perché e il muschio, e lo zibetto, e i gigli, e i tuberosi, e i caracolli, e tanti altri odoroni sono tra gli odori quello che tra i colori il rosso, il giallo, il verde, il turchino, che dubbio? Questi sono i colori cardinali, quelli gli odori. Ma i nasi non vogliono essere da meno degli occhi: gli occhi mutano le loro mode ogni giorno; anche i nasi vogliono i loro amaranti, i loro grisdelin, i loro grisdeperle, i loro grisdefer, i loro color di principe, e che so io. Il mondo è svogliato, e non si può dire che ciò venga da cattiva disposizione, perché la svogliatura cresce e il mondo sta meglio che mai. Chiamiamola una nuova moda di sanità, che gli fa fare un gusto migliore in tutte le cose. I prìncipi ne’ loro consigli non vogliono più Rodrigoni; i conquistatori non vogliono più allori; i soldati non vogliono più concioni; infino i barcaiuoli di Venezia non vogliono più recitativi. Tutto quello ch’è serietà, sodezza, regolarità nel vestire, nel mobilare, nel divertirsi, nel negozio medesimo, a tutto si dà lo strillo e passa per all’antica. Io sono stato sei mesi a un Congresso generale di pace, e me n’andai senza aver avuto la grazia di vedere la sala della conferenza, che non so se in tutto quel tempo arrivasse ad aprirsi due volte, per riconoscervi, se mal non mi ricordo, colle dovute formalità, non so che poteri. Tutto il forte del negozio si faceva al giuoco, al ballo, alla caccia, alla commedia, alla conversazione; e guai a quello sventurato ministro, che per colpa d’anni, di genio, d’acciacchi o di paragrafi non si trovava in un tale equipaggio. Non è per questo che chi aveva più cervello e esperienza, non avesse vantaggio sopra gli altri; ma in pari grado, e anche un poco a svantaggio di sapere, io vidi prevaler sempre lo sfarzo, la disinvoltura e la galanteria. In somma negli odori vuol esser varietà di conce; negli uomini vuol essere universalità di genii. In quelle ci vuole il ricco, in questi il sodo, non ce n’è dubbio; ma bisogna allungar l’uno e raggentilir l’altro; altrimenti quello invasa e questo stracca. Voi sapete che a noi altri riesce alle volte il far propriamente le nozze co’ funghi. Un danaro di ambra nelle nostre mani si fa più onore che, chi potesse vedere, non se ne sarà fatto un’oncia in quelle d’Antonio de Cobos e di Francesco Vizar, che sono stati de’ primi profumieri di Madrid. E per verità, che cosa non s’arriva egli a fare coll’uso anche sobrio di questo materiale, maneggiato e accompagnato con un poco di giudizio? Nell’ambra l’ottimo si fa maggiore, il buono divien mirabile, grazioso il mediocre, l’indifferente si getta al buono, l’indisciplinato si morigera; e delle volte anche il cattivo si corregge. C’è egli bestia tale, come il zibetto? E pure, con questa alleanza vedete quello ch’ei diventa per sé, e quello ch’ei fa diventar quell’altra. Lavorateci poi su di fiori, e sentite, arbitrate, ghiribizzate con erbe, con legni, con boli, con lacrime, sto per dire, con porcherie, e farete le maraviglie. Ci vuol però quel primo fondamento dell’ambra; ma né anche sempre basta da principio rendersi ammirabile per ragione, da ultimo un si mantiene a forza d’armi; ognuno ci sta, chi non intende sedotto dalla vostra franchezza, chi intende dalla propria immaginazione, e talvolta, come il medico di Moliere: il vous passe aiujordhui volre saignée a fin que vous lui passiez demain son émétique. «Dichiaratela amaranto, e sarà alla moda», disse pochi anni sono il Contestabile al Principe di Belvedere, che non si risolveva a comprare una carrozza di velluto rossigno pel figliuolo sposo, per altro assai buona. Fate un poco di letto a una nuova concia con vantarla per cosa prelibata quattro giorni innanzi che la mettiate fuora, e non vi dubitate che non diventi subito la moda e che tutti i nostri giovani viaggiatori non ve ne chieggano i saggi per mandarne a Brusselles, a Londra, a Parigi, a Roma. Dite, Cavaliere, c’è mai caso che certa gente intinga nelle nostre tabacchiere e che, subito che hanno tirato su, la loro prima parola non sia: «dell’ambra di molta»; quando quel povero polviglio non si sarà mai sognato di vederla passar per camera. Fate conto che in tutti i mestieri è così. Quando io cominciai a strapazzare il nostro, pigliava tutte le ricette per l’appunto; e quando in quelle dell’Infanta Isabella e di D. Florensa de Ullhoa trovava: quarta de ambar, media onza de ambar, otratanto de almiscle, otratanto de algalia, m’erano tante stilettate al cuore, considerando che la mia borsa non ci poteva arrivare. Mi ricorderò sempre tra l’altre di certi coscinetti d’odore, che fatti bene i conti s’avvicinavano a 400 pezze da otto. Io vedeva, è vero, voi e ’l Saracinelli far maraviglie con manco assai; ma diceva tra me: se questi col poco fanno tanto, che si farà egli col molto? In questa sospensione m’occorse di fare un terzo viaggio in Fiandra, e trovato il Duca di Montalto in Brusselles, e presoci servitù, un giorno, in occasione di lodargli certo polviglio, intesi aver egli al suo servizio un aiutante di camera tirato su da ragazzo dal Cardinale suo padre per la profumeria. Pensate, l’amicizia subito fu fatta; e secondoché il Duca abitava la casa di Bournonville, ed io vicino la grosse Tour, la state, in cambio di dormire, Francisco, che così si chiamava l’aiutante (il cognome non me lo ricordo; ma adesso mi sovviene che possa essere Mercader), se ne veniva da me a lavorare qualche galanteria. Cresciuta la domestichezza, Francesco mi porta un giorno il libro di tutte le ricette del suo vecchio padrone, e m’offerisce cortesemente di poterne far fare una copia. Potete credere che io quella sera non me n’andai a letto che non l’avessi scorso da capo a’ piedi, ma la soddisfazione del nuovo acquisto mi venne amareggiata dal considerare che m’avrebbe servito poco, la dramma essendo il peso più minuto al quale in tutto quel manoscritto io trovassi tassata l’ambra. Il giorno, suto che Francesco arriva: Amigo, me parece que tus memorias me valdrán muy poco. Y como esto, Señor? Pienso que por allá toman el ambar gris por ánime, o por menjuí. M’accorsi che quel buon Castigliano durò qualche fatica a dissimular lo scandolo ch’ei prese della mia semplicità. E se ancor io era di quelli che credevano che il suo padrone spendesse 40 o 50 mila pezze in odori; e se mi dava ad intendere che quelli che dettano le ricette, facciano quello che dicono, o dicano quello che fanno. Che nessuno buttava via il suo allo sproposito; tanto più che in tutte le cose c’è una certa giusta proporzione, oltre la quale l’eccedere non serve a niente, poiché, o nol sopporta la cosa, o non lo porta, o non lo raffigura il naso; e concluse la sua declamazione (la terrò sempre a mente) con questa bellissima similitudine: «Tenga per sicuro che gli odori sono come i profumieri. Quando il profumiere lavora, sta da garzone, in farsetto, sbracciato, i capelli legati di dietro; quando ha da llevar los guantes, el cuerpo, el avanico, la cazoleta al Cardenal, al Duque, a mi Señora la Duquessa, luego su espada, y su caga, se pone mui de Cavallero. Tutti gli odori a vederli nelle ricette compariscono sotto il baldacchino. Dramme, quarte, once: Señor, todo es lucimiento; todo es grandeza; todo es misterio: in fatto sono poi più correnti assai. Vuol che io le cavi di sotto il baldacchino, e le faccia passare in anticamera tutte queste memorie? Mi faccia grazia di scrivere in margine, secondo che io le dirò. Questa è una ragazzata; questa non val niente; questa il mio padrone non la volle né meno provare; qui basta una mezza dramma; qui avanza di due denari»: e così via, ricetta per ricetta, m’andò dettando una critica economica a tutte, conforme avete veduto nella copia postillata di mia mano sotto la dettatura di quel galantuomo. Voi vedete quanto vasta da questo apologhetto potrebbe cavarsi l’applicazione alle materie morali e politiche, precisamente in ordine, dirò, a ricettarle, che [è] quello che comunemente si fa con certe preparazioni troppo sontuose. Ma la cosa è tanto facile che, ognuno potendola ritrovare da sé, mi contenterò di farci semplicemente la chiusa, dicendo: come certe azioni degli uomini, in iscritto o da lontano, come ce le rappresenta o l’istoria o la fama, compariscono esse ancora sotto il baldacchino: la prudenza v’è a libbre, il disinteresse a cantàra, e la pietà quasi sempre a tonellate. In fatto poi e da vicino non fanno poco, quando non sono come quella mia acqua magica di giacinti, che non era altro che una larva dell’odore del giacinto ricavato dal fior d’arancio e da quattro scorze secche di cedrato. Nella disperata incorrigibilità della nostra Italia, sul punto delle buone feste, ho inteso dire che una volta, non so se a Roma o dove, si discorresse di ridurre questa sorta di lettere a forma di lettere patenti con farle stampare e mandarle con una semplice firma. Non tornerebbe male il fare in tutti i paesi l’istesso della maggior parte delle lettere di congratulazione, e pigliar la minuta di quella che scrisse il General di Grammont a Monsieur di Rochefort, quando fu fatto Maresciallo di Francia: La fortune t’a fait autant que le merite: et suis ton serviteur mon petit Rochefort. «Crediatemi, signor Lorenzo», mi disse una volta da ragazzo quell’onorato vecchio di Siena, fratello del Duca di Amalfi, «che per apparire un gran Principe basta essere un assai mediocre uomo.» Il giudizio ci vuole, non ce n’è dubbio: questo nelle profumerie mistiche è l’ambra. Il sapere, il più delle volte, ma non sempre, è quello, come il muschio del buono, ma che non scopra troppo. L’esperienza non è propriamente ingrediente, ella è piuttosto l’aggiustata prescrizione della dose, e quella s’impara meglio col fare che colle ricette. C’è un altro gran materiale, al quale tra gli odori sensibili non trovo il corrispondente, che è l’aria del Cavaliere. Dico l’aria, vedete, non dico cosa di maggior corpo, perché con questo ancora, a allargar troppo la mano, si dà in quel ricco che offende chi lo sente e chi lo porta addosso. Su questo fondo poi, tutto quello ch’è fiore, farà maraviglie, e di quante più sorte, tanto meglio. Avvenenza, gioventù, buona mina, buona grazia, brio, disinvoltura, barzelletta, mettete pure: né solamente questo, ma un po’ di franchezza, un po’ di satira, un po’ d’andare a i versi, e cert’altre erbe aromatiche su quest’andare, le quali però vogliono essere accennate; altrimenti, niente che scoprano, si cacciano sotto tutto il resto; ma torno a dire, vuol esser giudizio. In un uomo di guerra ci può egli essere ingrediente più odioso d’un principio di rilassamento nel coraggio? e pure, corretto con una dose aggiustata di quest’ambra, può far miracoli. Questa concia, confesso che non mi sarebbe mai sovvenuta, ma trovandola ricettata e praticata da qualcheduno, bisogna metterla coll’altre. Alla battaglia di Seneff un semplice soldato a cavallo, che si trovava nella prima fila d’uno squadrone postato a diritto filo d’una batteria di cannoni, che a ogni scarica portava via una fila intera di cavalli, dopo essere stato saldo a più d’una, alla fine una volta si sconcertò un poco. Accortosene Monsieur di Fourville, che comandava in quel posto: «Che vergogna, gli disse con un’aria brusca, sconcertarti a questa foggia!» «Monsieur, gli rispose colui con un viso più brusco del suo: non si può durar tanto a esser bravo.» Questa risposta piacque tanto a Fourville, che ne fece un rumore grande per l’armata, e alla barba della passata intrepidità di colui, che non gli aveva fruttato mai nulla, lo fece fare offiziale. Fa anche bene assai lo strapazzare di molti mestieri, o almeno averne quella tintura che basta a saperne discorrere; perché, come c’è il giudizio, uno si fa onore con poco assai: ma in questi casi bisogna fare come quello ambasciatore di Moscovia spedito al Gran Duca Ferdinando: messa fortunatamente la prima freccia nel bianco, contentarsi e non tirar la seconda. «Orsù, diceva il Padre del nostro Assessore dopo averci letto la sera un paio de’ suoi Dialoghi, facciamo un poco il nostro verso.» Questo nel suo linguaggio voleva dire, diciamo quattro minchionerie: il verso dell’uomo, diceva quel buon vecchio, non è il discorso; il discorso è propriamente il canto, che s’impara collo stare in gabbia; il suo verso naturale è il dir delle minchionerie. E che sia il vero, quando queste son dette a tempo e con giudizio, si cava forse da esse più frutto che da’ discorsi serii. Io vi posso dire di me che i polvigli, le pastiglie, le cunzie, l’acqua di gelsomini, i sorbetti, il latte, il cioccolate di fiori e gl’intingoli m’hanno dato modo di moltissime volte ottener delle cose che la morale, i sonetti, la filosofia non vi sono arrivati. Esclusi quegli odori semplici che ammazzano, ci vuol anche riguardo e discrezione nell’uso de’ composti che dilettano. Tal profumo comporta una sala dove si balla, che non lo comporta una camera dove si giuoca, e molto meno un gabinetto; e in questo gabinetto ancora bisogna distinguer le persone. Mi fece venir collera l’altro giorno il Vannini, che a certe donne amiche della Maria, che avevano fatto dire di voler essere da lei, voleva fare un panlavato di cacciù. O Vannini caro, che daremo noi alla vostra Serenissima Padrona, un giorno ch’ella si risolva di venire a merenda nel mio orto? Dite, dite a Maestro Agnolo che gli faccia buona provvisione d’uova fresche e d’un buon prosciutto di Casentino; e se volete regalar la conversazione di qualche galanteria di vostra mano, fate pure un panlavato, ma lavatelo con buon moscadello, con di molto zucchero sopra e di molto diaccio sotto. Bel pensiero sarebbe, se una sera che io aspettassi a veglia nel mio gabinetto un’orda di questi nostri Tartari domestici; per esempio, un Cerchi, un cavalier Del Bene, un marchese Nerli, e per impossibile, un Paolo Falconieri, un marchese Teodoli, e mettiamoci pur anche il nostro dignissimo Assessore spogliato di quella irradiazione ascitizia ch’ei riceve nel passare per gli occhi di chi lo considera per nostro subalterno; bel pensiero, dico, se io mettessi a bollire in un bucchero della Maya con dell’acqua di Cordova quattro o sei rottami di bucchero di Guadalaxara tenuti a profumare tutto l’anno in una pelle d’ambra con un danaro di lacrima di quinquina: oh non sarebbe egli un regalo gettato via? A questa gente il maggior regalo non consiste nell’odore, consiste nel far loro l’onore di mostrar di credere che si dilettino d’odori; che però per loro ogni cosa è buona. «Recipe: una scorza d’arancio vota, con un poco di belgioino pesto, due garofani acciaccati, uno stecco di cannella; copri il tutto con acqua rosa secondo l’arte, e metti a bollire sul braciere.» Ci sono ancora delle teste, chiamiamole delicate, che, non dico a spruzzolar per aria, ma ad annaffiare semplicemente con un poco d’acqua di triboli, risentono subito de’ giracapi. In questi casi bisogna aver pazienza, e tener ben sigillati i vasi della fonderia, e contentarsi di non fare odore. E se saranno dame, che si dilettino della carabe e di carta abbruciata, regalarle di carabe e di carta abbruciata, che ci fareste voi? L’interesse della nostra stima e della nostra pace merita bene il sacrifizio della nostra vanità in sopprimere di quei talenti che, conosciuti a mezzo, ci rendono ridicoli, e che, conosciuti a fondo ma non pareggiati da quei degli altri, ci rendono odiosi. Bisogna intendere che le virtù umane sono come i gusti: questi in tanto son gusti, in quanto son rimedii o cessazioni di mali; quelle in tanto paion virtù, in quanto son rimedii o cessazioni di vizii. Infin tanto che non mettete in sul tappeto altre virtù che di questa categoria, secondoché ha esser ben disgraziato colui che non abbia o che non si dia ad intendere di averne qualcheduna addosso, potrà darsi caso che la vostra virtù vi venga approvata. Guardatevi solamente che non vi venga voglia d’esporre al pubblico culto una virtù non relativa, una virtù che non sia sempre rimedio al male, né preservativo di peggio, ma pura, ingenua, essenziale, assoluta. Siccome di questa quasi nessuno ne ha, né si cura d’averne; così né anche nessuno né ve l’approva, né ve la crede. E però chi si sente d’averla, ha in apparenza una gran disgrazia se non ne fa mostra, è infelice; se la fa, è sicuro di pagar cara la compiacenza. Se, non avendola, si mette a volerla conseguire e gli riesce, non ha mai a esser quella, perché quella non c’è, né ci può essere: se non gli riesce, allora quella diventa subito non solamente possibile, ma facile, per farsi un pretesto d’aggravarvi una pena di non aver conseguito o la vendetta d’aver tentato; non avendo gli uomini ira maggiore che contro di chi, avendo una virtù che gli altri non hanno né si curano d’avere, la professa; non avendola, la crede, e credendola, si mette per volerla acquistare. Se non mi paresse d’aver ciarlato troppo vorrei disimpegnarmi da quell’ultimo assunto: che ci sono odori che, a pigliarli fuori di prospettiva, sparisce la scena senza mandar giù il proscenio e senza spegnere i lumi; ma n’uscirò in due parole. Di questo non me n’accorsi se non pochi anni sono una mattina che dalla mia villa di Belmonte me n’andava alla messa alla badìa di Ripoli. Passato il Ponte a Ema, sento a un tratto una fragranza. Che cosa può ella essere? Per farla corta, non era altro che una quantità d’alberi fruttiferi ch’erano in quel poco di piano, tutti coperti di fiori. Al primo che mi viene a tiro, ne colgo una ciocca; odoro, e non sa di niente. Prova questo, prova quello, meli, peschi, susini, non sapevano se non d’erba. Mi ricordo che dissi tra me: bisogna che i fiori di questa sorta tutti siano ovipari, ch’espongano sulle loro foglie il loro odore chiuso in uova per lasciarle covare al sole; e che l’odore, subito rotto il guscio, se ne voli via e non cominci a farsi sentire se non lontano dal nido. Cavaliere, ci sono delle virtù di quest’istessa natura, credetemelo; e, quello ch’è più di strano, non solamente diverse, ma opposte diametralmente fra di loro: le cristiane e le politiche. Da vicino le prime paiono derisibili, le seconde esecrabili. Da lontano l’une e l’altre diventano un’altra cosa. Le cristiane dopo morte, le politiche dopo la felicemente consumata iniquità, si fanno sentire d’una grandissima fragranza. Orsù, comincio a accorgermi ch’è un pezzo che leggete; ma consolatevi, che la fatica è già fatta, perché non m’avete a rispondere, sapendo io benissimo quello che mi potreste dire. Mi potreste dire, anzi non mi potreste dir altro che quello che disse una dama in una commedia spagnuola a una sua cugina, la quale, fidata sulla propria indifferenza, si dava troppo poco pensiero di certe dimostrazioni che le faceva il Conte di Barzellona suo sovrano: Que eres mucho para dama, y poco para muger. L’istesso direte voi di questa cicalata, che per una buffoneria è troppo, e per una cosa seria è poco; non so che mi ci fare: oramai è fatta; vedremo di far meglio quest’altra volta. |
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