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Lorenzo Magalotti
Lettere odorose

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  • SELVA D’UNA LETTERA INEDITA SU GLI ODORI AL PRINCIPE DI TOSCANA
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SELVA D’UNA LETTERA INEDITA

SU GLI ODORI

AL PRINCIPE DI TOSCANA

 

Tardi mi avvedo d’essermi messo con V. A. in un impegno da poterne difficilmente riuscir con onore, perché se bene io so che V. A., in una materia tanto opinabile come quella degli odori, né pretende, né aspetta ch’io le venga con dimostrazioni geometriche, in ogni modo fo una gran differenza fra opinione e opinione, parendomi che se bene la geometria non può accompagnarci, o, per dir meglio, noi non sappiamo accompagnarci con la geometria in tutti quei viaggi che ci mettiamo a fare dietro all’inchiesta delle cognizioni fisiche, ci sia in ogni modo una gran differenza tra le probabilità che appagano un ingegno insegnato a reputarsi grande dalle adulazioni e dagli applausi strepitosi de’ circoli, e fra quelle che arrivano a far qualche caso a uno di quei cervelli che hanno avuto in sorte di portar il giogo delle matematiche dalla adolescenza loro.

A chi non s’è più trovato in mare pare una bella cosa in una burrasca il riconoscersi su ’l far del giorno vicino a terra, giudicando che terra e porto sia una cosa medesima: ma il savio ed esperto piloto, che sa di quant’acqua sotto ha di bisogno il suo vascello per star a galla, grida a’ timonieri che si buttin allo mare, perché sa che in quel caso terra e naufragio è una medesima cosa. Voglio dire che, se bene dove si tratta di questioni naturali può assai francamente assicurarsi che fuori del seno della geometria non vi è verità, o se pure un vi si abbatte a caso, non può mai dire ch’ella sia dessa: fa in ogni modo molto l’averla imparata a conoscer per lo meno di vista in casa della geometria, per saper dire nel numero innumerabile dei verisimili, che tutti si fan parenti della verità, quali gli rendano un po’ d’aria o no, e per sì fatta guisa venire appress’a poco in cognizione in qual grado ciascheduno le attenga. Non è dubbio che tanto erra chi piglia per una stella un pianeta quanto chi piglia una lucciola. Con tutto ciò a parlar come si parla in terra fra gli uomini, si dirà sempre che sia le migliaia di leghe più lontano dal vero il secondo del primo, con tutto che possa darsi benissimo il caso che simboleggi assai più con le stelle fisse la lucciola che il pianeta. È ben vero che per salvar me dal non pigliare per stella la lucciola, basta ch’io abbia veduto una volta che cosa è stella, dove a fare sbucar uno dal buio dell’antro platonico una notte nuvolosa del mese di maggio, dopo averlo tanto quanto ammaestrato di quel ch’ei troverà nel mondo esteriore, e’ sarà miracolo s’ei non s’avvisa subito di veder le stelle in veder le lucciole che van pecampi. Un simil pregiudizio corre ordinariamente a tutti coloro, i quali si mettono a filosofare senza cognizione della geometria, lasciandosi determinare da ogni leggera apparenza a creder di veder in viso la verità, dove il geometra non arriva a vedergli cosa che l’assomigli.

Un altro inganno pigliano ancora questi tali allora eziandio che voglion mostrarsi più circospetti: ed è quello di dire ch’e’ non pretendono d’aver trovato la verità con le loro speculazioni, ma bensì d’aver imaginato uno di que’ tanti e per avventura infiniti modi co’ quali potrebbe la natura operare quel tale effetto. Qui c’è da dire due cose: la prima, ch’ell’è sempre una gran presunzione il dir che la natura potrebbe senza scomodarsi far quella tal cosa secondo ch’ei pare a’ lor cervelli, ed è questo in buon linguaggio un dire che se Iddio prima della creazione del mondo gli avessi ammessi al segreto di quel ch’egli intendeva di fare, e gli avesse consultati del modo di venirne al fine, essi, se non quel per appunto ch’egli giudicò di tenere, gli averebbono almeno saputo suggerire un altro modo egualmente atto a poter fare le medesime cose. La seconda, che s’egli intendono che quel tal modo che vien loro in mente potess’esser atto a far quell’effetto secondo qualche ordine di natura possibile, il loro ardire è meno intollerabile; ma se l’intendono atto a operarlo secondo quest’ordine di natura creato, io ho per una solenne baia il credere che alcuno di quegl’effetti che abbiamo in questo universo possa prodursi, e prodotto sussistere, per altra via o in altro modo da quest’uno in fuori, col quale è effettivamente prodotto, e dependentemente dal quale ha la sua sussistenza.

 

Fu, s’io bene ho in mente, un villanello, in alcune case poste alle radici della Falterona, il quale fin dalle fasce sordo mutolo divenuto era, [o] per altra sua infirmità, ma in cui aveva riposto la madre natura ingegno troppo più ch’ella non è solita con persone di sua condizione. E in fra l’altro, siccome noi veggiamo per lo più avvenire, così chiari ed acuti gli altri sensa avea, e in particolare quello dell’odorato, che, aggiunto quest’eccellenza naturale [e] squisitezza al proprio talento e curiosità di sapere, si diede tutto ad una rozza contemplazione intorno agli accidenti di questo sentimento nel quale era stato dalla natura sopra degli altri privilegiato. Il che per poter più acconciamente fare, andò un suo piccolo giardino coltivando di que’ fiori e di quell’erbe odorifere che l’asprezza di quell’aere poteano meglio sostenere: come sarebbe, e gigli, e mughetti, e viole mammole, e persa, e timo, e giaggiuolo, e mortella, ed altre spezie di piante, le quali non solamente all’occhio facessero piacere, ma all’odorato principalmente rendessero godimento.

Da sì fatto esercizio e coltura continua, volonteroso divenne oltrammodo di rinvergare una volta che cosa quest’odor fosse, e per qual maniera da sì piccole e delicate foglie senza calo visibile cotanto spargimento se ne facesse, e per tanti giorni; cosa maravigliosa al suo intuito, che per chiaro ch’ei si fosse non discerneva tant’oltre. Ora avvenne che, essendo già il garzone d’età di diciottanni, vedendo avviare alcuni suoi compagni alla Vernia, con esso loro si mise anch’egli in cammino, ed arrivarono appunto che si celebrava la messa solenne. Ora veggendo che il sacerdote traeva da una navicella d’argento alcuni piccoli grani, e quelli sopra il fuoco mettendo si levavano in fumo, maravigliossi forte, ma più quando, appressandosi a poco a poco, sentì che quello odorifero era; e tutto a suo intendimento volgendo, parvegli così a un tratto d’aver capito che in simigliante guisa facessero le sue piante, le quali al caldo del sole o del tiepido aere mandando fuori sottilissimi fumi e invisibili spandessero d’ogni intorno soave fragranza. Del qual pensiero sovvenutogli, prese così gran piacere che, addimandati con cenni due di que’ grani, gli ottenne, con essi tutto lieto a casa tornandone. Quivi appena giunto non si vide contento s’ei no gli ebbe messi in sul fuoco, ma dopo che uscitone il fumo e l’odore non gli ritrovò fra’ carboni, quasi attonito e di fuori rimase, accorgendosi come, altrimenti di quello che succedeva ne’ fiori, i grani quivi se n’erano in brevissimo tempo andati tutti in odore e svaniti. Per lo che, ritiratosi in sé stesso, e conoscendo che s’ei non s’abbatteva a veder tal effetto, egli non avrebbe mai imparato che v’erano in natura due diverse maniere di corpi odorosi, l’uno che se ne va con l’odore, l’altro che resta, seco deliberò di quanto prima allontanarsi da casa, e andar per quei contorni, e per quelle terre circonvicine, cercando se s’avveniva in qualch’altro simile effetto, che più gli aprisse la mente intorno al modo onde si fanno gli odori. Né molto andò che, entratosene in una città, venne a passar davanti alla bottega d’un profumiere, dalla quale avendo sentito uscire un incognito indistinto di ben mille odori, così s’avvisò di poter quivi per avventura ritrovare quel ch’egli andava cercando, per lo che, entratovi dentro, tosto recossi innanzi al padrone, al quale facendo suoi atti come i mutoli fanno, s’ingegnava di dimostrargli la voglia di rimanersi seco tra quegli odori, il che gli riuscì così bene di saper fare, che quello, tra per la propria curiosità e la grata avvenenza del giovane, che vinceva il naturale suo difetto, di leggieri si dispose a ritenerlo a’ servigi della bottega. Perché, messolo incontanente alla cura di dar i fiori a’ guanti e all’altre pelli odorifere, seguitando il garzone l’istinto del natural suo genio, non lasciava di maravigliarsi come da una mattina ad un’altra i gelsomini perdessero affatto ogni odore. E come che più volte osservato avesse esser solito il maestro con le bilance diverse cose pesare, ed egli con la sua sagacità l’uso di tale strumento penetrato avesse, così gli cadde nell’animo di poter per tal via ritrovare se per la perdita dell’odore il peso de’ gelsomini s’alterasse punto. Ma quando in capo a parecchi si fu accorto che quello tornava sempre l’istesso, e che il simile ebbe osservato nell’ambra, nel zibetto, e nel muschio, qual fosse il suo stupore giudichilo chi ha fior d’ingegno e partecipa della curiosità che quegli avea. Or mentre ch’egli si viveva sconsolatissimo e fuori d’ogni speranza d’esser mai più per intendere il modo di cui si val la natura per formar gli odori, accadde che quella sua infermità a cura della quale né consiglio di medico, né virtù di medicina parea che valesse, o fosse che nel crescer degli anni rasciugandosi il soverchio umido del celabro lasciasse aperto le vie dell’udire, o per altra simile natural cagione, in brevissimo tempo di grandissimo miglioramento mostrò segni, tanto che senz’altro aiuto che quello della natura gli ritornò l’udir chiaro e perfetto. Maravigliosa cosa ad udire d’un giovanetto si può dir senza sentimento, nudrito, e allevato, e accresciuto sopr’un monte salvatico e solitario! Colui che mai più per l’addietro alcun suono udito non avea, appena cominciò ad udire i canti d’uccelli, e organi, e flauti, e trombe, e tant’altri strumenti da fiato, o da corde, che tralasciato il pensar o vero il ruminar su gli odori, si mosse subito a fantasticar sopra i suoni, intorno a’ quali l’assaliva la medesima maraviglia, come sì piccoli strumenti potessero mai reggere e dar fuori tanto suono, senza che mai apparisse calo immaginabile nella loro mole. Sopra di che, di mutolo e sordo ch’egli era, di suono e di voci subitamente giudice divenuto, sentì destarsi un pensiero, il quale nella materiale e grossa mente gli ragionava non dover andar per avventura diversamente la faccenda de’ suoni da quella degli odori, laonde ritrovata l’una sarebbe ritrovare l’altra ancora. Avvenne intanto che questo concetto gli rigirava pel capo, che volendo egli rifiatare per bocca con le labbra un po’ troppo strette, gli venne, senza pensarlo, zufolare, la qual cosa com’ei sentì, più e più volte riprovandocisi, accadde che sempre gli veniva fatto lo stesso suono, di che fu il più contento uomo del mondo, avendo in questa prima lezione subito bello e apparato che con un simile artifizio gli uccelli tutti, senza de’ loro corpi, in particelle sonore, la minima iattura fare, con la medesima aria con cui respirano vengono a formare canti soavissimi e tanto diversi. Lo stesso parimente s’immaginò avvenir dovesse agli organi, e tutti gli altri strumenti da fiato: cioè l’aria esser quella che, introdotta per occulte vie per entro le cavità de’ loro corpi, venendo poi su a riuscire per le loro gole, trapassando e filtrandosi per qualche non dissimile ingegno pigliasse forma di suono, giusto come se egli avesse letto in Dante

 

Sì come il suono al collo della cetra

prende sua forma: e sì come al pertugio

della sampogna vento che penétra.

 

Non altrimenti s’indovinò dover andar la faccenda degli odori: non dover esser eglino in alcuni corpi consumamento di parti odorose, sì come non è il suono ne’ musicali strumenti perdimento di corpicelli sonori, ma quelli sì come questi altro non essere che una tal materia, la quale, come l’aria negli strumenti, passando per vari andirivieni delle sustanze che odorifere chiamansi, in questa o in quell’altra forma si figurasse, secondo che gli andirivieni sono dalla natura con varie cavità scanalati, da’ quali uscendo improntati, così o colà facessero quella o quell’altra impressione nell’organo dell’odorato. Ma basti infin qui della presente novella.

Noi veggiamo, Seren.mo Principe etc.

 

Ognuno si maraviglia come un granello di muschio gettigrand’odore senza calo sensibile del proprio peso. A me pare che questo sia uno sproposito, e che convenga dire che, poiché il muschio non cala, non odora e che quell’odor che si sente non sia che venga dalla materia del muschio, ma un’altra cosa diversissima da lui.

Il fondamento del mio discorso è questo: Io veggo che alcuni corpi de’ quali si dice ch’egli odorano, nell’atto di mandar fuori l’odore scemano, e si consumano, e quando non iscemano, e non si consumano, non odorano; adunque se il muschio o altra simil cosa odora, e non iscema, non è egli che odora, ma un’altra cosa è quella che odora.

E la ragione è assai chiara: dov’è odore bisogna che sia effluvio di parti, adunque dove non è effluvio di parti non è odore. Né mi si dica, che tal’effluvio può essere insensibile all’occhio, e al peso, e con tutto ciò esser sufficientemente sensibile all’odorato, perché il nostrorgano è anzi un po’ grossetto che no, e a muoverlo ci vuol altro che insensibili esalazioni. E poi si vede che l’alito odoroso, tal qual’ei si sia, non è così fino e sottile ch’ei passi i pori del vetro, o del cristallo, essendosi veduto per esperienza che una starna sigillata ermeticamente in una palla di vetro non arriva a ferir lo odorato d’un bracco, e pure dall’altro canto vi son de’ liquori chimici di tal sottigliezza che se ne vanno da’ pori del vetro. Diremo dunque che l’odore sia un corpo assai crasso e da render sensibilissimo all’occhio e alla bilancia il suo calo.

Ma che se ne vuol egli di più: l’acque, i profumi come l’incenso, il belgioè, la pastiglia, lo storace, e tant’altri, i bitumi, gli zolfi non son’eglino tutti odori, e pur, se non s’ardono non odorano, e, ardendosi, scemano, e non ardendosi, non iscemano, ma non anche odorano? L’acque parimente gettate su che che sia si rasciugano, andandosene in vapore odorifero. Che poi vi sia un’altra spezie di corpi da’ quali esce odore continuamente senza loro calo, bisogna dire che tal odore non sia parte di essi, mentre se fosse parte doverebbono anch’essi come fanno gli altri calare, e non calando non odorare.

Esempio ci sia il muschio. Questo odora sempre e mai non scema. Che cosa può egli esser dunque il suo odore, se non d’una parte che si vada separando e risolvendosi sottilissimamente in una tal nebbia di aliti, misti ad esalazioni finissime, che incontrando l’organo atto a muoversi da’ suoi titillamenti ecciti in esso quel senso che si chiama odore?

Prima di dire il mio concetto mi bisogna alcuni postulati, e prima:

Che l’aria vicina alla superficie terrena è un mezzo dove i piccolissimi raggi della luce e le altre particelle del fuoco fanno un continuo flusso e riflusso.

Che tali raggi sieno d’una sottigliezza, che non tenga loro portiera sustanza che sia in natura.

Che tutti i corpi sieno continuamente trafitti, e passati fuor fuora per ogni banda da simili raggi, o atomi di fuoco.

Che l’odor muova solleticando l’organo con un corpicello d’una tal figura, sì che non ogni esalazione o corpicello toccante il nostrorgano non sia odore, ma che per esser odore vi voglia una figura, o moto, o velocità particolare.

Dato che un atomo figurato d’una tal figura, o moventesi con tal moto e con tal velocità sia odore, ogni volta ch’io abbia un atomo figurato nella stessa maniera, moventesi etc., con tutto ch’e’ sia d’un’altra sustanza, rappresenta il medesimo odore.

Che se si troverà una sustanza figurabile, in una tal figura, e mobile con un tal moto, e con una tal velocità, qual figura, moto, e velocità si richiede a improntare e mover l’organo dell’odorato in quella guisa che si richiede perch’ei senta quel senso ch’ei chiama odore, tal materia sarà atta a rappresentare gli odori e a essere in certo modo materia prima di tutti gli odori.

Dicamisi adesso in che modo si pretende che sia fatta la esalazione o sal volatile del muschio, nel quale a poco a poco sciogliendosi esso muschio, si sente l’odor del muschio. Perché se io troverò una materia vastissima e che si ritrovi per tutto, la quale ogni volta che l’è vicino il muschio si figuri come l’esalazione che averebbe a uscir dal muschio, mentre il muschio non isciema, sarà più verisimile che l’odore venga da tal materia, nella quale non può osservarsi né esser calo che da quella dalla qual se venisse sarebbe necessario che il calo apparisse.

Ma noi diciamo che gli odori son parti esalate da’ corpi, e che ogni corpo abbia particelle particolari, e con certa figura figurate, le quali fanno sentire la diversità degli odori. Diciamo noi lo stesso per avventura de’ colori e delle spezie, che di essi vengono agli occhi nostri? Così, verbi gratia, i corpi turchini esalar atomi turchini; i verdi, verdi; i gialli, gialli; e così via via, tanto che altri sieno gli atomi del turchino, altri quei del giallo, o pure crediamo né dal turchino uscir cosa che turchino sia, né dal verde verde, ma tutto questo giuoco farsi con una sola materia, la qual nulla ha che far cocorpi da’ quali ella parte, e che per parere uno o un altro colore non fa altro che in varia dose mescolarsi con l’ombra?

Anche la sentenza d’Epicuro intorno a’ simulacri staccantisi dagli oggetti ci pare strana atteso la gran copia che continuamente ne doverebbe fluire, onde più volentieri ci acquietiamo nell’opinione di quelli che dicono le immagini altro non essere che la configurazione di raggi riverberati da’ corpi. E qui ponga mente V. A. che né meno per la vista vi è una sorta di atomi proprii che renda visibili le cose, ma la luce è quella che, diversamente ricevuta, imbeuta e riflessa da’ corpi, serve a rappresentarci le forme di tutti, e mi maraviglio grandemente come, considerando il continuo effluvio d’immagini che si fa da essi, non sia mai venuto ad alcuno da maravigliarsi come si potesse fare questa grand’espansione senza notabil calo di mole e di peso di quei corpi da’ quali si parte. Ma gli è che in questa speculazione siamo stati più fortunati o avveduti che in quella degli odori, considerando esservi una materia universale, la quale poteva esser il caso a portarci le immagini, senza che se n’avesse a fare scorporo dagli oggetti medesimi. Il che giudicherei esser avvenuto dal vedere come senza di quella non si veggono più tali immagini, e al suo ritorno anch’esse tornano ad apparire, onde è stato assai facile a rinvenirsi, che non da’ corpi ma dalla luce vien quel flusso perenne delle visibili spezie. Né son lontano dal credere, che se noi non sapessimo quel che il buio fosse, ma dal primo nostro nascere ci fossimo assuefatti a vedere tutte le cose sempre ugualmente illuminate, per modo che l’una l’altra non s’impedissero la diretta illustrazione del sole, onde non vi fossero né ombre, né altri sbattimenti, chi avesse voluto persuaderci tal’opinioni, che dagli oggetti si partono indefinitevolmente i loro simulacri, e tutta l’aria esserne piena, averebbe durato gran fatica a darcelo ad intendere, o per lo meno ci sarebbe, non meno che de’ corpi odorosi, venuto il dubbio come potesse farsi così gran dispendio d’immagini reali per finissima e leggierissima che fosse la loro pasta, senza osservarsi mai calo sensibile di peso, o visibil diminuzione di mole in que’ corpi dondelle a guisa di sottilissime sfoglie di talco a mano a mano si staccano. Ma questo non è nulla; gli è che la luce istessa non è sempre luce; non trovandosi una sorta d’atomi di lor natura rilucenti, de’ quali si possa dire ch’e’ sieno atomi di luce; ma fassi anch’ella dalla configurazione d’un’altra sustanza, la quale il fuoco si è, qualora si accomoda in certa maniera ch’e’ si rende visibile agli occhi nostri mediante i suoi raggi, che in tal caso appelliamo luce. Ma quando il fuoco non è aggiustato in quella maniera, o che per qualch’accidente si rimuove da quello stato, come si vede nello spegnersi d’una fiamma, vedesi in un subito sparire la luce, e non ostante che il fuoco rimanga sempre fuoco, ad ogni modo non so come (mi perdoni V. A. questa proprietà) si rimette incognito, lasciandosi sentire bensì ma non vedere. Del qual effetto s’io dovessi addurne alcuna similitudine non saprei trovar meglio di quella di uno, che si ritrovasse in una camera da ciascuna parte della quale scappassero artifiziosamente zampilli d’acqua, i quali non ha dubbio che, venendo schizzati con impeto nel mezzo dell’aria, si discernerebbon benissimo, ma a poco a poco allagando il pavimento, e incominciando ad alzar l’acqua nella camera tanto che quello vi rimanesse sepolto, non discernerebbe più acqua, nella stessa guisa che noi non discerniamo l’aria in cui siamo immersi. Così la luce, infinch’ella viene schizzata in raggi dalla sua sorgente, questi, venendo con impeto negli occhi nostri, hanno forza di muoverli in quella guisa che si ricerca perché l’anima riceva quella tal sensazione che si chiama vedere, ma serrando la finestra, interrompendosi gli zampilli, que’ raggi troncati si disordinano e sciolgonsi in particelle di fuoco, le quali spargendosi così sciolte per l’aria non son più visibili, come non è più visibile l’acqua, nella quale uno è sommerso. Ecco dunque, come né meno per muovere il senso della vista vi è una sorta d’atomi fatti apposta, i quali non servano ad altro, avendo veduto che le immagini ci son riportate dalla luce variamente moventesi, o vero diversamente alterata con l’ombra, e come la stessa luce non è fatta di una sorta di atomi suoi proprii, e sempre mai rilucenti, ma dagli atomi del fuoco, il quale può non rilucere, e per rilucere non fa altro che accomodarsi in una tal foggia, la quale non muta la figura de’ suoi proprii atomi, ma solo li varia in ordine alla situazione.

Veduto ora de’ colori e della luce, è conseguentemente da vedere del suono e del concetto che di esso comunemente abbiamo.

Strana e difficile a credersi è quell’immensa esalazione che dicon farsi da’ corpi odorosi senza loro (in)visibil calo di mole o di peso.

Per isfuggire quest’incredibile, potria dirsi per avventura i corpi odorosi avere una tale forza di raggi odoriferi e formarsi una sol volta da un alito sottilissimo invisibile, e agghiacciati dall’aria, come se i raggi elettrici, po’ ch’e’ sono una volta estratti per istrofinamento, non isvanissero o tornassero in dentro, ma d’intorno all’ambra gialla si congelassero come fanno que’ fili di ceralacca, che liquefatti dal fuoco si rappigliano. V’è un’esperienza per la quale se si versi acqua forte sopra un po’ di mercurio esposto al sole, fa sì che il mercurio si fila in raggi rossigni formando come un riccio armato di reste. Potria essere nell’aria un alito analogo alle acque forti, che gelasse d’intorno al corpo odoroso un alito spirato da quello in invisibile raggio. Così si risparmierebbero moltissime di quelle esalazioni che altrimenti dovriano essere senza novero. E l’odore d’un corpo saria sempre l’istesso perocché ogni volta che, raggirandosi il naso in quella sfera di raggi, venisse stimolato da alcuno di essi sentirebbe odore.

Ma che diremo del sito che lascia, exempli gratia, il muschio in una scatola dove sia stato lungo tempo?

Diremo l’istesso, cioè che si spolveri di quell’odore, e da ciascuna di quelle polveri sia spirata una sferolina di raggi, che son quelli che ci fanno sentire, toltone il corpo odoroso e altre simili coglionerie [?]

Che diresti se i spiriti andassero a trovare il corpo, e si facesse l’odorato per extramissione?

Diremo che fusse una bestialità!

Sentito un poco ecc.

Se non fusse l’improbabilità dell’immenso esalare che doverebbe fare un grano di muschio senza notabil calo di mole e di peso, tornerebbe molto a proposito il dire che il sal volatile de’ corpi odorosi sia quello che fa sentirsi all’odorato, come il sal fisso dee credersi aver gran parte ne’ sapori, e dalle diverse affezioni eccitato dalla diversa applicazione di quegli atometti in riguardo delle varie figure questo o quel senso d’odore derivarsi. Parmi di sentire una certa concordanza tra’ sapori e gli odori delle cose. E perciò se mi si portasse un frutto odoroso da me non gustato mai più, tengo per certo che dal solo odore ne raccorrei qual dovesse essere il suo sapore: se agro, se amaro, se dolce etc. Evvi dunque una consonanza. L’ottava accorda sempre nell’istesso modo, benché il tuono grave sia più grave in un cembalo di corde d’oro che d’ottone, etc.; nondimeno intesa la prima, mi figuro subito la seconda perch’io so ch’ella gli ha ad accordare. Così tra il sapore e l’odore benché siano diversi etc.

Le varietà delle figure de’ sali volatili, le quali sono sempre l’istesse che quelle de’ sali fissi, paiono molto confacevoli a vellicare i nervi dell’odorato più che l’esalazioni vaporose o viscose non fanno, o ponno fare.

Che il sal volatile faccia sentirsi all’odorato si fa manifesto perché niun sale de’ fissi ha odore alcuno e solo il sal armoniaco che è volatile è parimente odoroso.

Questo odore è proprio del sale, sì che non possiamo dire quest’altro non essere che l’istesse particelle di sale. Onde bisognerebbe cavare il sal volatile da un altro corpo il di cui odore fusse noto, e poiché noi vegghiamo il sal armoniaco volatile avere odore, riscontrare se quel sal volatile, exempli gratia, di fior d’arancio ha il medesimo odore che ha il fiore; ed avendolo si potria concludere ecc.

Per aver un modo di invenire perfettamente l’odore d’ogni sal volatile, pare che la natura mostri una via bellissima. Questa è l’infusione de’ suddetti sali nell’olio di vetriolo, il quale probabilmente doverà operar l’istesso con gli altri sali volatili, che fa col sal armoniaco, facendoli esalare in fumo senza punto alterarli, non esalando punto d’olio, e non avendo in sé odore alcuno.

Saremmo certi che l’odore cagionato da quel fumo sarebbe il vero odore del sale, che tale appunto è quello del sale armoniaco fatto svaporare con l’olio suddetto. Saria bella cosa con una semplice infusione di sali volatili profumar le stanze di qualsivoglia odore di fiori, e, quel ch’é più, andar componendo conce d’odori, in qualsivoglia stagione.

Dentro una scatola di piombo dove sia stato lungo tempo del muschio, vuovedere quello che ci ha lasciato il muschio sì ch’ei faccia odorare il piombo. L’abbrucio e cavone il sale fisso e volatile, lascio lapillare; se troverò mescolato col sal di Saturno lapilli di sal di muschio volatili, e quelli, messi a svaporare nell’olio di vetriolo, daranno odor di muschio, siamo a cavallo etc.

Mettasi qualsivoglia sustanza dissolubile o corrosibile in infusione nell’olio e se nel mangiarla ecciterà anche odore di quel tal corpo, sarà qualcosa etc.

Con questo supposto diremo che i fiori bagnati dalla pioggia, o dalla rugiada sono meno odorosi perché il sale esalato o si liqua su l’umor delle foglie, o non viene scagliato, overo, svaporando mescolato con quell’umidità, meno punge perché questo brodo da naso essendo troppo allungato con umidità soverchia riesce sciapito.

Nell’istessa guisa che, riempiendosi senza discrizione la pentola, il brodo scema di sapore, ed è meno salato, onde si chiama anzi che brodo, acqua pazza.

 

Un granello di muschio che fosse stato in su la poppa della nave Vittoria, averebbe lasciato la traccia dell’odore suo per tutto il viaggio, senza visibil calo di peso, mole ecc.

Insensibilissime adunque è forza dire che siano le particelle, le quali si sciolgono dal corpo odoroso, e pure sono così sensibili al nostro odorato.

Supposto che questa affezione dell’anima si faccia per via di contatto e vellicamento di nervi, vi potrebbe essere alcun modo per eccitarla, senza che dal corpo odoroso si faccia alcuna traspirazione di parti.

Nell’opinione di coloro che vogliono questa traspirazione che abbiamo detto, bisogna dire che da’ pori del corpo odoroso fluiscano raggi di odore, come dal corpo luminoso, dalla calamita e dall’ambra derivano raggi lucidi, magnetici ed elettrici.

Dunque dall’attività di questi raggi si fa il senso, e perciò ogni volta che quell’organo sarà percosso in quella istessa guisa che fanno i raggi spirati dall’ambra, sentirà odor d’ambra, benché i raggi che lo percuotono fossero d’altra cosa che d’ambra.

Potrebbe farsi questo da linee d’aria mossa, le quali chiameremo raggi o zampilli d’aria.

Vedesi per esperienza che l’aria mossa fa senso, ed il vento si distingue dall’aria quieta. Adunque, se soffiando nel volto mi fa quel senso che può, e di che è capace quella parte, se penetrasse filato in raggi a vellicare i nervi che servono all’odorato, se s’abbattesse a ferirli come fanno le esalazioni della rosa, farebbe odore di rosa, se come quelle del fior d’arancio, di fior d’arancio.

Così chi portasse in faccia al vento una visiera di cristallo minutamente traforata a gigli, i raggi di vento che per quei fori passano, arrivando in sul volto vi riporterebbono con le loro cuspidi quell’istesso lavoro traforato su la visiera, la quale se si cangiasse in un’altra traforata a rose, cangierebbesi anche il riporto che si fa in sul volto del lavoro della visiera, per lo che ricercata la superficie di esso volto da diverse stampe, or di gigli, or di rose, diverse affezioni di senso ne sentirebbe; a tal segno che dopo lunga assuefazione arriverebbe colui a distinguere dalla qualità del senso eccitatogli, qual fosse lo spolvero traforato su la visiera.

Simili effetti fa l’acqua, e più chiaramente si può vedere in una fontana di Castello, dove l’istessa polla di acqua, cacciata per diversi organi, diversamente zampilla: ora distesa in un velo forma una gran coppa di cristallo arrovesciata, ora salendo per una canna tagliata a spina, butta dalle fessure in sembianza d’un velo avvolto a chiocciola, ora empiendo una palla ne risalta d’ogni intorno, come i raggi del sole fanno, e finalmente ora in un modo, ora in un altro, per modo che non meno il pilo che le frondi vicine che se n’aspergono, doverebbono oramai, se senso avessero, dalla diversa maniera di spruzzolo riconoscere da diversi organi derivare, e quelli chiamare con diversi nomi.

Dico che que’ diversi sensi fanno a colui i raggi di vento spirati per la visiera, e che farebbono al pilo e alle frondi i diversi spruzzoli di quell’acqua corrispondere alle varietà degli odori, che per diversi appulsi et ondeggiamenti d’aria intorno a’ nervi dell’odorato, cotale diversità di senso vengono ad eccitare. Qual sia poi la cagione che alcuni corpi la movano, quali noi chiamiamo odorosi, ed alcuni altri no, l’anderemo ora esaminando.

Supposto adunque che varii ondeggiamenti d’aria faccino varii odori, bisogna vedere in qual maniera i corpi odorosi movano diversamente l’aria.

Dico muoverla colle loro superficie. Sia, per modo d’esempio, accostata alle narici una lastra di cristallo, la quale per esser piana fa che quell’aria che vi si posa arriva ai nervi dell’odorato senza pungerli più in una parte che nell’altra, quindi è che, sendo presi dappertutto ed egualmente affetti, non sentino odore, ma se si poserà su quella lastra una foglia di rosa subito quell’aria che prima posava in piano bisognerà che s’adatti squisitamente alla superficie della rosa, sì che subito quella superficie piana d’aria subito si muterà, in alcuni punti abbassandosi, in altri sollevandosi, secondo che è il letto che quella fronda gli appresta, alla forma del quale adattandosi l’aria vicina al nervo, dove lo pugnerà, dove no, e in questo luogo anderà a ritrovare le cavità et i piccoli seni di quella foglia impressa nell’aria, e sì pigliando il nervo in sé quel sigillo sentirà quell’oggetto che se gli rappresenta, mutisi la rosa in gelsomino, in muschio, in aloe, l’aria ancora dalle diverse loro superficie prendendo diversa imagine, l’organo dello odorato diversamente sigillerà.

Di qui avviene che gli odori più sentono da presso che da lontano, perché la stampa che porta l’aria è tanto più fresca quanto è più vicina al conio, che portata in gran lontananza inlanguidisce e viene meno: quindi ancora è che assuefatto per lungo tempo l’odorato ad una sorta d’odore più non lo sente, perché il senso si fa per la violenza dell’impronta, la quale ricevuta non è più tanto sensibile, mentre che v’è sempre il sigillo d’aria che sostiene e regge il nervo in quella tal positura, e, quello levato via, torna il nervo a distendersi, perché gli spiriti che entro vi permeano [?] torna a (s)gonfiarli e distenderli per lo che si perdono e cancellano quelle ammaccature e pieghe, che nel pigliare l’imagine in sé riceve, come se su la pelle di un pallone si imprimessero con un sigillo diverse forme, che poi, per la tensione delle pelli che si faria gonfiando dall’aria compressavi, si perderebbero. E che sia vero che la stampa che ricevono i nervi dell’odorato sia più tosto in cotal guisa che in un’altra più stabile e permanente come quella che piglia la ceralacca agghiacciandosi è manifesto dal vedere che non prima si rimuove il corpo odoroso, che subito quell’idea viva di quell’odore si perde; cosa che degli altri sensi non accade, i quali ritengono più salda l’imagine, ma degli odori non va così, perché posso io bene eccitarmi, specie vivissimamente de’ suoni, sì ch’e’ mi paia sentirli, e dopo aver sentito un liuto

 

La sua dolcezza ancor dentro mi suona...

... O immaginativa che ne rube

Talvolta sì di fuor, ch’uom non s’accorge

Perché d’intorno suonin mille tube

Chi muove te, se il senso non ti porge?

 

Tanto posso risvegliarla l’immaginativa de’ sapori e così viva che se io penso a cose agre subito si umetta il palato e la lingua di quell’umore che suol venire a temperare e a allungare quella acidità quando cotali cose veramente si mangiano.

Ma più d’ogni altro sentimento la vista è tenace di quel che sente, ond’è ch’e’ ci paia vedere quello che una volta veduto abbiamo. Ma chi ci rifletterà potrà avvertire che degl’odori niuna specie ci rimane, onde a quelle degli altri sensi possano di gran lunga compararsi. Adunque egli è che, levato il sigillo, si ridistende l’imagine.

Egli è l’odore un confuso e rozzo modo di vedere. Non tutte le cose odorano. Quando le superficie riflettono aria con quell’armonia che sola s’intende dall’anima, si fa l’odor buono; quando v’è dissonanza, il puzzo. Ve ne sono delle indifferenti, ossia che l’odorato vi sia assuefatto.

 

L’acqua di mortella verbi gratia spruzzata per aria con lo schizzatoio profuma più una stanza, che gettata sul pavimento in copia dieci volte maggiore. Perché c’è la differenza da un giaco disteso a un giaco ammucchiato. Quell’acqua sparsa è un aggregato di infinite molecole che ciascheduna di esse è una formetta e per così dire siringa per dove, passando le particelle del fuoco vagante per l’aria, le forma in quella tal maniera, che divengono atte a vellicare aggradevolmente l’odorato, e così ogni molecola prima che ricaschi in terra può abbattersi ad avere un tratto successivo di siringature e così formare milioni di molecole odorifere. Dove, gettata in terra, che è a dire posta come un giaco avviluppato, non lavora se non con le parti superficiali che sono serve [?] a quest’altre molecole vaganti, perdendosene infinite nelle porosità, sicché la luce non vi può passare, né giocolar dentro e, non giocolandovi, non viene a formarsi. Esempio del cedro il quale riceve per appunto quello istesso umore che, ove dite, certo di lui farebbe un arancio, ma siringato per le sue fibre fa un cedrato e ha un altro odore, un altro sapore etc., sì che la varia configurazione non solo varia l’odore, ma anche il sapore; e nell’odore è più facile, perché come cosa più sottile, o siasi luce o etere o qual’altra cosa si voglia, certo è che la sua espansione dimostra essere una cosa sottile e adattabile a passar pebuchi grandi e piccoli.

Una pelle di gelsomini odora perché atta a imprigionare moltissime di queste parti siringate [illeggibile] gelsomino; e mentre l’aria le riesce dai pori, nel continuo profluvio di essa, sin che ce n’è dentro n’esce. Può anch’essere, quando paresse che questa conserva fosse scarsa alla durata, che queste tali siringhe, che a guisa di madreviti stampano nelle madreviti il loro cavo, formino l’istessa pelle a foggia di cavi delle foglie del gelsomino, sì che non sempre tutto l’odore che n’esce sia di quello lasciatovi dal fiore, ma del nuovo vano battuto su l’istesso conio delle nuove configurazioni de’ pori della pelle, che anche in questo caso non può pretendersi perpetuo, per l’istessa ragione che non è perpetuo nel gelsomino, mentre nell’appassirsi si guastano le stampe odorose delle sue foglie e la pelle nel portarsi si guasta anch’ella, e tanto più facilmente quanto che quella configurazione non l’è naturale.

Il bucchero di Portogallo odora rotto e macinato, e, rimpastato e riformato, torna in apparenza il medesimo, ma perde l’odore. Se l’odore fosse un profluvio della medesima sustanza sin che c’è di quella sustanza [illeggibile]. Adunque se perde l’odore, l’odore è altro che la propria sostanza e conviene dire che sia guasto quell’organo dove si batteva il metallo dell’odore. Così mentre il cristallo intero è trasparente; pesto, non lo è più, essendosi perduta quella configurazione di pori che danno libero il transito al raggio visivo. L’istesso succede nel bucchero, [per] la macinatura e rimpastatura perdendo quella configurazione che condizionava la luce verbi gratia a diventare odore.

Dall’altro canto il bucchero che ha perso l’odore per essere stato un pezzo all’aria, se gli ritorna l’odore col tenerlo nel cipresso. Se l’odore fosse nell’espansione della sustanza, l’odore gli durerebbe, perché sempre gli dura l’effluvio delle medesime parti. E a chi dicesse che non tutte sono odorose, se gli risponderebbe: come gliele può rendere il cipresso facendo che diventino tali quelle che non lo erano? Gliene può ben rendere secondo la nostra posizione; mentre si può dire, che, come porato alla foggia di esso bucchero, le sue sirinighe sieno atte a ritrovare e, per così dire, a ricalcare quelle stampette del bucchero, o intasate da particelle estranee, o ròse e stracche dal continuo passaggio di tanta luce.

Pensa alla polvere come possa rendere l’odore.

Non sempre nel pestare o rimpastare una sostanza odorosa succede quel che nel bucchero, non essendo sempre necessario che in questi accidenti si perda quella struttura delle molecole. Anzi nel bucchero semplicemente macinato non si perde l’odore, ma sì in quello rimpastato e rifatto. Così pesta l’ambra e rimpastata, e l’istesso del muschio, conserva l’odore. Pesta il gelsomino, il mughetto, lo perdono. Non si può dir altro, se non che le molecole del primo sono a botta di cannone e queste d’un pinocchiato moscio e anche moscio bene.

Illustrar quelle del cipresso, che ravviva il bucchero, con l’esempio d’altri odori, che si cavano fuori quei che parevan persi o rendono più sensibili i manifesti.

 

Per sentire un guanto s’applica aperto alla bocca; vi si alita dentro, e si caccia sotto il naso per odorare. Che cosa fa l’alitarvi dentro? Che si mettano in moto le particelle esalabili, che stanno attaccate alla superficie interna del guanto? L’istesso averebbe a fare a soffiarvi, e pur vuol esser alito. E pure da’ polmoni di chi soffia non s’esprime particelle odorose di gelsomino, verbi gratia. Come dunque quella fiatata mi fa sentir maggior la forza del gelsomino? Eccola. Perché quando io fiato do una recluta di particelle odorificabili all’aria del guanto, le quali espresse con impeto vanno subito alla volta dell’uscio per uscire e, dovendo attraversar la pelle, questa essendo parata all’odorifera le forma subito della figura de’ suoi cavi; formate ch’elle sono, levo la bocca, e odoro, che vuol dire respiro col naso quel che avevo spirato con la bocca, e così ritornandomi su per esso tutti quei corpicelli ignei, o lucidi, o eterei espressi nel fiatare da’ polmoni, e ritornandomi vestiti da gelsomino, da arancia etc., sento meglio l’odor del guanto.

Mangio l’agresto ed è agro: perché? Le molecole del suo sugo sono d’una figura atta a ferire non a palpeggiare, verbi gratia. Diventa uva e è dolce: perché? Perché quelle molecole hanno mutato figura, e hanno smussato le punte, verbi gratia. Divien aceto, mi pugne: perché? Perché quelle molecole sono state rimesse, verbi gratia, in su la ruota, e hanno riacquistato il filo e la punta.

Cos’è dunque introdurre nuovità di parti: basta la varia figurazione di quelle che ci sono per far la varietà de’ sapori. L’istesso degli odori.

Quel gelsomino è in boccia strettissima e non odora: perché? Perché le molecole non sono ancora traforate a ragione come bisogna perché la luce vi si profumi. S’apre, e odora? Perché le molecole son finite di lavorare, e del continuo non fanno altro che conciar la luce, che vi passa fuor fuora. S’appassisce, e non odora: perché? Perché i trafori s’intasano, e non vi si può passare e ripassare con libertà. S’infradicia, e puzza: perché? Perché a poco a poco quelle molecole pigliano altra figura atta a formar la luce in figura disaggradevole al nostro senso.

Questo effluvio è a uso di girandola, dove non son sempre i medesimi razzi quei che mantengono viva la gazzarra, ma un tratto successivo di essi, e quando vengono i secondi, i primi son già molto allungati e imbudellàtisi, e impigriti, e quando escono i terzi, questi sono spenti e i secondi illanguiditi. Così non intendo che questi atomi di luce siringati dal gelsomino ricevano piega di ciambellotto, che non si disfà mai, ma come una ricotta assai liquida, che passando per la siringa all’uscire vien formata di questa o di quella figura, ma secondo che s’allontana dalle piastre sempre va perdendo di quel conio, e s’è stata per lungo tempo in un piatto, ritorna poco meno che fluida e guazzerella. Così la luce; e quando è uscita d’un poco, perde quella figura, che del resto l’odore crescerebbe in infinito, e si conserverebbe in infinito.




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