BUCCHERI NERI
Latte appunto della notte!
Dico quel della Befana:
Metamorfosi più strana
Non sovvenne ad Astarotte.
Buccheretti, grand’eroi,
L’esser vostro non è quello,
Ch’un fantastico cervello
Ricavò da’ sogni suoi.
Nella pubblica udienza,
Che diè Febo stamattina
Al tirar della cortina,
Me ne fe’ la confidenza
Quando Pluto imbizzarrito
S’avvisò di voler donna,
Per fermar d’altra colonna
L’alto imperio di Cocito:
Fra le tante cose e tante
Ch’egli fe’ per gli sponsali,
Perch’in tutto fosser quali
Conveniansi a gran regnante;
Fece intendere a’ ministri
Della regia guardaroba,
Non pienissima di roba
Per affari suoi sinistri:
Che facesser fabbricare,
Quasi dissi in un momento,
Un real vasellamento
Di bacili, tazze e giare.
«Troppo, disse, è rilucente
Qui per noi l’argento e l’oro:
Vo’ materia, vo’ lavoro
Nobil sì, ma condecente».
Detto appena, un folto stuolo
Di folletti profumieri
A quegli ordini severi
Se n’uscì per l’aria a volo.
Con accette in fuoco ardenti
Là pe’ boschi di Sorìa,
Del Giappon, di Tartarìa
Menan colpi onnipotenti.
L’aloe, ’l cedro, il calambucco,
E la pianta che profumo
Fa del suo sì nobil fumo
Sotto i baffi al Mammalucco,
Tutto in aria, tutto a terra
Cade in tronchi, o vola in schegge,
Ogni fiera ed ogni gregge
Fugge al campo aperto ed erra.
Del durissimo foraggio
Fatto fascio, ogni dragone
Sulla groppa se ’l ripone
E galoppa a suo viaggio.
Giunti appena al gran quartiere,
Scaricato il ricco legno,
Metton su senza ritegno
Le cataste intere intere.
Già gli orribili cammini
Stridon tutti in nuovo foco,
Densa è l’aria in ogni loco
D’alti fumi pellegrini;
Ma ’l gran foco appena spento
Delle legna preziose,
Le filigini odorose
Son raccolte in un momento.
E adunato in ampio monte
Il nerissimo polviglio,
Per conciarlo, in gran bisbiglio
Mille mani già son pronte.
Mustio in grana a carrettate,
Di bezoar lastri per once,
Nero balsamo a bigonce,
Ambra grigia a tonnellate:
Quel che staccia al Tago in riva
La Vestale in Santa Chiara
Gran polviglio, in più cantara
La gran concia qui ravviva.
Di pivetti e di pastiglie
Quattrocento monasteri;
Magazzini interi interi
Di scurissime vainiglie.
Per la dose de’ garofani
Da una parte, la gran libra
Leva il peso e l’equilibra
Su quell’altra Radicofani.
Tutto pesto e macinato
Sopra nero paragone,
Il ricchissimo sabbione
Per istaccio vien passato.
E perché la sciolta mole
Coll’umor si leghi in pasta,
Con bel sugo ecco s’impasta
Di gerani e di viole.
Fatto il ricco magistero
Di quel loto prezioso,
Soavissimo, odoroso,
Uom si cerca del mestiero.
La fortuna de’ regnanti
Sempre amica, in sul vassello
Del nocchier tutto rovello
Un ne scorge a Pluto avanti.
Era un povero Chinese,
Che con certa lega strana
D’alterar la porcellana
Dilettavasi in paese.
Ma per altro un barbassoro
De’ maggior di quel gran regno
In far vasi, ed un disegno
Da far astio a Polidoro.
Questi dunque in pochi giorni
Tanti fe’ nappi e orcioletti,
Tante tazze e baciletti
In bizzarre fogge adorni,
Che duemila e più fornaci,
Che cocevan giorno e notte,
Non suppliro a tante cotte
E se’ n fêro in sulle braci.
Giunto al fin, quand’al ciel piacque,
L’amorosa e lieta sera,
Che ’l gran Re dell’aria nera
Con Proserpina si giacque:
Fatta pria con pompa immensa
Dell’anel la funzione,
In magnifico salone
Tutti volle i numi a mensa.
Per non dir delle vivande,
De’ trionfi, e sì del vino,
Ove fe l’Architriclino,
Quanto far si può di grande:
Dirò sol che, quando apparve,
Gli antremè già tolti via,
La novella piatteria,
L’atro inferno il ciel si parve.
Era tutta confettura
Di cacciù formato in grani
Con odori sovrumani,
acqua fresca pura pura;
Marte e Amore i più accaldati,
Senza far altro riparo,
Alle giare s’avventaro
Pria degli altri convitati.
O che bocche, o che smorfiette
Fa Cupido a quell’odore!
In qual estasi, al sapore,
Va quell’altro ammazzasette!
«Cosa è questa, Amor dicea:
Qual miracolo stupendo!»
E ne spruzza sorridendo
Sulle poppe Citerea.
Tosto quella in sulle furie
S’alza su per ceffatarlo,
Ma, sentito, con baciarlo
Vuol pagar le belle ingiurie.
Giove, Giuno, il Dio di Delo,
E colei dall’occhio verde,
Ognun gira, ognun si perde:
Momo in fin l’estolle al cielo.
Le tre d’Espero figliuole
Danno in smanie così fiere,
Che ben danno a divedere,
Ch’un rametto han di Spagnole.
Tanto dissero fra tutti,
Che Pluton, ch’è poi gentile,
Fatti porre in un bacile
Di que’ nappi ben rasciutti:
«Questi, disse, prenderete
Per mio amor, se non vi pute,
E talor la mia salute
In ambrosia vi berete».
Eran tutti ben legati
In superbe filigrane,
Da maestre peruane
Vagamente arabescati.
Filigrana un po’ brunetta,
Ma sottil quanto un capello,
Di un acciaro del più bello
Colorito in mammoletta.
Terminato colle feste
Il riposo de’ dannati;
Ch’assistêr tutt’allindati
Alle mense in ricca veste;
«A noi», dice, in guardo bieco,
Rivestito in nero manto
L’implacabil Radamanto,
E tremar fe’ il vasto speco.
Ecco Aletto, ecco Megera,
E Tisifone l’atroce,
D’Acheronte in sulla foce
Rinnalzar l’atra bandiera.
Pe’ dolenti ombrosi giri
Delle bolge dolorose
Colle guance lacrimose
Ognun corre a’ suoi martìri.
Oh miracolo, oh portento!
Ecc’ogn’anima più fella
Nel patir si rifà bella,
E s’addorme sul tormento.
La sua ruota Issioncello
Quasi gira per trastullo;
Più non pena ogni fanciullo
In girare un molinello.
Col suo ’ncarco Sisifetto
Corre via sul suo dirupo:
Più leggier non leva il lupo
Sulla spalla un agnelletto.
Più tranquillo ’l dormiglione,
A chi ’l gratta i piè non porge,
Di quel che fidar si scorge
Tizio ’l core al suo falcone.
Così ognuno dolcemente
Succia su la sua tortura
Qual se stesse alla verzura
Non è ’n ciel più allegra gente.
Che cos’è, cosa non è?
Egli è l’alito vitale
Di quel loto magistrale
Ch’a Pluton tant’onor fè.
Egli è quel che sì travìa
Ogni spirto dal suo senso,
Che ’l tormento, bench’immenso
Non lo giugne a mezza via.
«Ah canaglia maladetta»,
Pluto allor d’immensa rabbia
Gonfio ’l cor, gonfie le labbia:
«Or v’aggiusto: aspetta, aspetta»
Ed alzato col forcone
Quant’alzar poteva il braccio,
Di que’ vasi altro Testaccio
Sorger fe’ nel suo voltone.
Indi ’l piè ritratto addietro
Tal gli move orribil guerra,
Che squarciatane la terra
Qual se fosse fragil vetro,
Quel monton, che smesse ha l’ale,
E su quelle vola in posta,
Fende ’l mare, e s’erge in costa
Sulla spiaggia occidentale.
Sulla spiaggia, che s’innarca
Tra Panama e Santa Fe,
Ch’a tant’oro il passo diè,
Per Siviglia allor ch’ei sbarca.
Quivi poi rammorbiditi
Que’ rottami preziosi
Da bei nembi rugiadosi,
Che ’l ciel versa in su que’ liti,
Quegli avanzi di rovine
Venner vergine miniera
Di una terra fosca e nera,
Gran regalo di regine.
Buccheretti rilucenti,
Quest’in tutto è l’esser vostro:
Sincerissimo è l’inchiostro,
Che ve ’l scopre in questi accenti.
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