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Lorenzo Magalotti
Lettere odorose

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  • CANZONETTE ANACREONTICHE SUI BUCCHERI
    • BUCCHERI NERI
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BUCCHERI NERI

 

Latte appunto della notte!

Dico quel della Befana:

Metamorfosi più strana

Non sovvenne ad Astarotte.

 

Buccheretti, grand’eroi,

L’esser vostro non è quello,

Ch’un fantastico cervello

Ricavò da’ sogni suoi.

 

Nella pubblica udienza,

Che diè Febo stamattina

Al tirar della cortina,

Me ne fe’ la confidenza

 

Quando Pluto imbizzarrito

S’avvisò di voler donna,

Per fermar d’altra colonna

L’alto imperio di Cocito:

 

Fra le tante cose e tante

Ch’egli fe’ per gli sponsali,

Perch’in tutto fosser quali

Conveniansi a gran regnante;

 

Fece intendere a’ ministri

Della regia guardaroba,

Non pienissima di roba

Per affari suoi sinistri:

 

Che facesser fabbricare,

Quasi dissi in un momento,

Un real vasellamento

Di bacili, tazze e giare.

 

«Troppo, disse, è rilucente

Qui per noi l’argento e l’oro:

Vomateria, volavoro

Nobil sì, ma condecente».

 

Detto appena, un folto stuolo

Di folletti profumieri

A quegli ordini severi

Se n’uscì per l’aria a volo.

 

Con accette in fuoco ardenti

peboschi di Sorìa,

Del Giappon, di Tartarìa

Menan colpi onnipotenti.

 

L’aloe, ’l cedro, il calambucco,

E la pianta che profumo

Fa del suo sì nobil fumo

Sotto i baffi al Mammalucco,

 

Tutto in aria, tutto a terra

Cade in tronchi, o vola in schegge,

Ogni fiera ed ogni gregge

Fugge al campo aperto ed erra.

 

Del durissimo foraggio

Fatto fascio, ogni dragone

Sulla groppa se ’l ripone

E galoppa a suo viaggio.

 

Giunti appena al gran quartiere,

Scaricato il ricco legno,

Metton su senza ritegno

Le cataste intere intere.

 

Già gli orribili cammini

Stridon tutti in nuovo foco,

Densa è l’aria in ogni loco

D’alti fumi pellegrini;

 

Ma ’l gran foco appena spento

Delle legna preziose,

Le filigini odorose

Son raccolte in un momento.

 

E adunato in ampio monte

Il nerissimo polviglio,

Per conciarlo, in gran bisbiglio

Mille mani già son pronte.

 

Mustio in grana a carrettate,

Di bezoar lastri per once,

Nero balsamo a bigonce,

Ambra grigia a tonnellate:

 

Quel che staccia al Tago in riva

La Vestale in Santa Chiara

Gran polviglio, in più cantara

La gran concia qui ravviva.

 

Di pivetti e di pastiglie

Quattrocento monasteri;

Magazzini interi interi

Di scurissime vainiglie.

 

Per la dose de’ garofani

Da una parte, la gran libra

Leva il peso e l’equilibra

Su quell’altra Radicofani.

 

Tutto pesto e macinato

Sopra nero paragone,

Il ricchissimo sabbione

Per istaccio vien passato.

 

E perché la sciolta mole

Coll’umor si leghi in pasta,

Con bel sugo ecco s’impasta

Di gerani e di viole.

 

Fatto il ricco magistero

Di quel loto prezioso,

Soavissimo, odoroso,

Uom si cerca del mestiero.

 

La fortuna de’ regnanti

Sempre amica, in sul vassello

Del nocchier tutto rovello

Un ne scorge a Pluto avanti.

 

Era un povero Chinese,

Che con certa lega strana

D’alterar la porcellana

Dilettavasi in paese.

 

Ma per altro un barbassoro

De’ maggior di quel gran regno

In far vasi, ed un disegno

Da far astio a Polidoro.

 

Questi dunque in pochi giorni

Tanti fe’ nappi e orcioletti,

Tante tazze e baciletti

In bizzarre fogge adorni,

 

Che duemila e più fornaci,

Che cocevan giorno e notte,

Non suppliro a tante cotte

 E se’ n fêro in sulle braci.

 

Giunto al fin, quand’al ciel piacque,

L’amorosa e lieta sera,

Che ’l gran Re dell’aria nera

Con Proserpina si giacque:

 

Fatta pria con pompa immensa

Dell’anel la funzione,

In magnifico salone

Tutti volle i numi a mensa.

 

Per non dir delle vivande,

De’ trionfi, e sì del vino,

Ove fe l’Architriclino,

Quanto far si può di grande:

 

Dirò sol che, quando apparve,

Gli antremè già tolti via,

La novella piatteria,

L’atro inferno il ciel si parve.

 

Era tutta confettura

Di cacciù formato in grani

Con odori sovrumani,

acqua fresca pura pura;

 

Marte e Amore i più accaldati,

Senza far altro riparo,

Alle giare s’avventaro

Pria degli altri convitati.

 

O che bocche, o che smorfiette

Fa Cupido a quell’odore!

In qual estasi, al sapore,

Va quell’altro ammazzasette!

 

«Cosa è questa, Amor dicea:

Qual miracolo stupendo

E ne spruzza sorridendo

Sulle poppe Citerea.

 

Tosto quella in sulle furie

S’alza su per ceffatarlo,

Ma, sentito, con baciarlo

Vuol pagar le belle ingiurie.

 

Giove, Giuno, il Dio di Delo,

E colei dall’occhio verde,

Ognun gira, ognun si perde:

Momo in fin l’estolle al cielo.

 

Le tre d’Espero figliuole

Danno in smanie così fiere,

Che ben danno a divedere,

Ch’un rametto han di Spagnole.

 

Tanto dissero fra tutti,

Che Pluton, ch’è poi gentile,

Fatti porre in un bacile

Di que’ nappi ben rasciutti:

 

«Questi, disse, prenderete

Per mio amor, se non vi pute,

E talor la mia salute

In ambrosia vi berete».

 

Eran tutti ben legati

In superbe filigrane,

Da maestre peruane

Vagamente arabescati.

 

Filigrana un po’ brunetta,

Ma sottil quanto un capello,

Di un acciaro del più bello

Colorito in mammoletta.

 

Terminato colle feste

Il riposo de’ dannati;

Ch’assistêr tutt’allindati

Alle mense in ricca veste;

 

«A noi», dice, in guardo bieco,

Rivestito in nero manto

L’implacabil Radamanto,

E tremar fe’ il vasto speco.

 

Ecco Aletto, ecco Megera,

E Tisifone l’atroce,

D’Acheronte in sulla foce

Rinnalzar l’atra bandiera.

 

Pedolenti ombrosi giri

Delle bolge dolorose

Colle guance lacrimose

Ognun corre a’ suoi martìri.

 

Oh miracolo, oh portento!

Ecc’ogn’anima più fella

Nel patir si rifà bella,

E s’addorme sul tormento.

 

La sua ruota Issioncello

Quasi gira per trastullo;

Più non pena ogni fanciullo

In girare un molinello.

 

Col suo ’ncarco Sisifetto

Corre via sul suo dirupo:

Più leggier non leva il lupo

Sulla spalla un agnelletto.

 

Più tranquillol dormiglione,

A chi ’l gratta i piè non porge,

Di quel che fidar si scorge

Tiziol core al suo falcone.

 

Così ognuno dolcemente

Succia su la sua tortura

Qual se stesse alla verzura

Non è ’n ciel più allegra gente.

 

Che cos’è, cosa non è?

Egli è l’alito vitale

Di quel loto magistrale

Ch’a Pluton tant’onor .

 

Egli è quel che sì travìa

Ogni spirto dal suo senso,

Che ’l tormento, benchimmenso

Non lo giugne a mezza via.

 

«Ah canaglia maladetta»,

Pluto allor d’immensa rabbia

Gonfiol cor, gonfie le labbia:

«Or v’aggiusto: aspetta, aspetta»

 

Ed alzato col forcone

Quant’alzar poteva il braccio,

Di que’ vasi altro Testaccio

Sorger fe’ nel suo voltone.

 

Indi ’l piè ritratto addietro

Tal gli move orribil guerra,

Che squarciatane la terra

Qual se fosse fragil vetro,

 

Quel monton, che smesse ha l’ale,

E su quelle vola in posta,

Fendel mare, e s’erge in costa

Sulla spiaggia occidentale.

 

Sulla spiaggia, che s’innarca

Tra Panama e Santa Fe,

Ch’a tant’oro il passo diè,

Per Siviglia allor ch’ei sbarca.

 

Quivi poi rammorbiditi

Que’ rottami preziosi

Da bei nembi rugiadosi,

Che ’l ciel versa in su que’ liti,

 

Quegli avanzi di rovine

Venner vergine miniera

Di una terra fosca e nera,

Gran regalo di regine.

 

Buccheretti rilucenti,

Quest’in tutto è l’esser vostro:

Sincerissimo è l’inchiostro,

Che ve ’l scopre in questi accenti.




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