REGALO
D’UN FINIMENTO DI
BUCCHERO NERO
Questa goletta, questi polsi, e queste
Ampie roste da orecchi, e quest’anello:
Questo strano gioiello,
Questi bei cappi, e questo bel monile
Non aver Nise a vile.
Tutto è fango, ma fango prezioso,
Caro fango odoroso:
Fango gentil, fango salubre, e tanto,
Che sopra ogn’erba ed ogni pietra ha vanto
Mira come lucente
Dell’indiche vernici i più vivaci
Reflessi sfida ardito!
Mira come tornito
In bei grani, in perette,
In fosche lacrimette
Delle conchiglie i vani parti imita!
Le nari appressa, e di’ qual meglio odora:
Il pianto della Notte o dell’Aurora?
In questi giorni ardenti,
Che a forza ornai di respiranti vampe,
Tutto sfumato il radicale umore
Ne’ riarsi polmoni il sangue incaglia,
Né forza v’è che vaglia
A spigner per gli angusti obliqui seni
Quella pigra marea che allaga e stagna,
Se viver brami, o Nise,
Queste fragili gemme infondi e bagna
Entro una vasta giara
In gelid’acqua e chiara.
Lascia posarle un tratto, e in tanto mira
Alto mistero: dalla bruna terra
Sorger vedrai su pel tranquillo seno
Dell’acqua in un baleno,
Bizzarre e scherzosette,
Ricche girandolette,
Vaghissime a vederle,
Di finissime perle.
Perle d’aria beata,
Soave, profumata,
Cui mentre assedia e cigne
L’acqua, e a lasciar costrigne
I mal difesi pori ove s’annida,
Nella sua marchia la sorprende, e infida
Tutte quante le toglie
Le sue odorate spoglie,
E tutte in sé le serba
Fatta ricca e superba.
Or falle tu quel ch’essa ad altri feo.
Fa’ della sete tua degno trofeo
L’iniqua usurpatrice
D’una Arabia novella e pur felice.
Nell’appressarti a i labbri
La mistica ricchissima bevanda
Oh che fragranza, Nise!
Fragranza alta, ineffabile, ammiranda,
Né sol fragranza all’odorato, all’alma.
È odore, è cibo, è vita, è gloria, è vena,
Vena perenne, sempre mai durabile,
Fresca, soave, limpida, serena
Di una beata eternità potabile.
Bevi, e non sei più quella.
Altre viste, altre cure, altri desìri
Nascer ti senti, e ammiri
In te di te vita e virtù novella.
Non sì tosto hai rovesciato
Giù nel petto a piena mano
Quel perlato,
Quel gemmato
Bel giulebbo americano;
Non sì tosto in sen ti guazza
Quella manna occidentale,
Che ti netta, che ti spazza
Di ogni cura aspra e mortale.
E mentre vanne in volta,
E per le vene e per l’arterie svicola,
Confusa e mista alla vermiglia salsa,
Ch’or sua mercè corre allungata e sciolta,
Chi ti rammenta più Sole o Canicola?
Tu ti senti per le vene
Correr proprio un ventilabro,
Qual se zeffiro dal labro
Vi soffiasse a gote piene:
Ed in soffiare v’alitasse tutte
Le droghe di Ponente da mattina:
Balsami, bezoari, e fuse, e strutte
Lacrime di ricchissima cuincuina:
Socunusco onde ricco è Guatimala.
Né sol del suo Ponente,
Ma quel se avesse attratto
Col respirar possente
Tutti quanti ad un tratto
Dell’Aurora i profumi,
Delle meschite e de’ serragli i fiumi.
E ragunato nel polmon gentile,
Come in un bel tamburlanetto d’oro,
Lambiccato v’avesse in nuovo stile
Delle due plaghe il gemino tesoro;
E trattone uno spirto a cui simile
Giugner non può basso mortal lavoro,
Con mantice indefesso a tutte l’ore
Quel ti spirasse in mezzo mezzo al core,
Io non so dirti, Nise,
Con qual senso, in che guise
Il cor, dell’indistinto
Incognito profumo
Ad un ad un discerna
Ogn’alito, ogni fumo.
Certo è sol ch’ei raffigura,
Qual s’ei fusse il naso istesso
Del mirabile complesso
Ogn’essenza pura pura.
Il bitume prezioso
Onde ’l gran padre Oceano
S’incatrama di sua mano
La gran barba e ’l crine algoso,
Se talor si mette in gala
Su’ lidi di Melinda o di Sffala.
E ’l vergin musco in grani, e ’pria sì
aspretto,
Poi dolce odorosetto
Indico magistero, onde ’l palato
State e verno è beato.
E la secca verdetta intorta fronde
Che sciolta a caldo bagno in sua tintura
Col giallo aurino suo smacca e confonde
Nel suo color la mammoletta oscura;
Né il brio sol del colore,
Ma il vezzo ha del sapore.
E la vital misteriosa Nisi
Pur f ìa che vi ravvisi,
Che a forza d’oro ipocondrìa chinese
Al venditor sulle bilance adegua.
E quel, cui sempre invan fia ch’altri segua,
Lungo la traccia di schiantati rami,
Abitator creduto,
Ma non già ancor veduto
Delle foreste estreme
Del tartaro Oriente;
Divino calambucco,
E l’odorata speme
Del sempre ignudo agricoltor Molucco.
Nise, veduto avrai
Nella dolce stagion che nasce il vino,
Dal raggirarsi intorno al Dio bambino,
Senza né pur baciarlo,
Senza né pur toccarlo,
Delle lacrime sue dal puro fumo
Cader sul mezzo giorno
Ebra la gente alla sua cuna intorno.
Più strano è il caso mio, perché più forte
Si fa sentir di quello
L’immaginato odor di cui favello.
Nise, non più: la testa
Più non mi regge, e questa
Mano, che già vacilla
Risoluta di gioia, appena stilla
Dalla penna quest’ultimo decreto.
Leggi, Nise gentile, e dagli fe’:
«Il Barro negro d’ogni Barro è il re».
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