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Lorenzo Magalotti Lettere odorose IntraText CT - Lettura del testo |
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TRIONFO DEI BUCCHERI
Alla signora marchesa Ottavia Strozzi
Lesbino, olà Lesbino, To questa chiave inglese: Va’ su nel gabinetto, e quell’arnese Tutto vernice, madreperla e oro, Ove si fa tesoro Della terra sì ricca e sì gentile Che manda a noi Guadalacara e Cile, Apri con essa: e quello Ripostiglio maggior, che in fondo giace, Tira fuori, e mi scegli Un Barro onnipotente. In questo giorno ardente Non ci vuol meno a respirare a vivere: Vada a monte lo scrivere.
Vafrino, annaffia, infradicia, E se non basta allaga. Versa; via, su, che l’acqua non si paga. Tanta ne versa e tanta Che satollo il matton ricusi il bere, E, ritornato fango, a mille a mille Vi covin rane e anguille. Aspetta, fa’ una cosa: Va’, portami una cesta Di quella, che sì in chiocca Là sul Decembre fiocca Candidissima lana, D’inverno sì molesta, Di state così umana. E mentre io qui mi sdraio Su questo galantuccio Brittannico lettuccio, D’indico giunco aggraticciato e intesto, Sotto vi getta quella brace algente, E soffiavi possente Onde l’aere agitato, Freddissimo, gelato, Qual viva fiamma vi penetri, e l’arse, E di sudor cosparse Carni amico ristori in ogni banda, E mi sventoli intorno Questo candido manto, e così adorno Di finissima Olanda.
Bravo Lesbino affè; Un Barro scelto m’hai, Che tal non l’ebbe mai Di Mecioaca il Re.
Caro Natan buono e vero, Di fuor lustro e dentro scuro, Caro Natan puro puro, Caro Natan nero nero.
Natan ricco, prezioso, Superbissimo, odoroso, Aromatico, vitale, Ch’un mortal rendi immortale; Leggiadretto, Graziosuccio, Gentiluccio, Bel moretto: Stretto stretto Mi ti serro sopra ’l petto. Alle labbra, alle narici, Alla fronte, agli occhi, al core Per conforto Mi ti porto, Giocondissimi, e felici Perché sieno a tutte l’ore. Il tuo fango, che fango non è, È una macchia, che cadde dal sol: E che in vece di dare in sul suol Die’ sul mare, e terra si fe’. E qual dall’Etna e dal Vesuvio accesi Bitumi o zolfi in infocati rivi Corrono al mare, e quivi Quagliati, e stretti in leggierose pietre Ritengon sempre col natio colore Di quel lor primo ardore: Tal anche il tuo gemmato Corpo (che gemma è quel che fango appare) Le doti illustri e chiare Tutte ritien, che colassù si bevve. Se non che quel che imbevve Moto, lume, calore, aura di vita, Fermato, spento ed ammortito in parte Discopre altro valore in altri effetti Lieti, salubri, accetti. Che quel che su nell’infocata stanza Fu luce, è qui tra noi alma fragranza Il moto è gioia, e pace Pienissima, verace: E quell’aura sì calda, e così viva Pur fredda e morta i nostri cori avviva. Via Lesbino, Su Vafrino, Una voce al bottigliere. Acqua fresca, Pria ch’egli esca Porti giù, ch’io voglio bere. Fresca tanto, Ch’abbia vanto Sulle brine più severe. Quanto stanno! Parmi un anno, Che son iti, sì l’arsura Mi straporta, Nella gelata aspergine A côrre il fior di questo Barro vergine. Quella boccia trionfale, Quel superbo ampio fanale Tutto asperso ancor di nevi, Che racchiude gelidette Le sì dolci lacrimette Della Naiade di Trevi, Su fanciullo, Per trastullo Versa, versa in questo Bucchero, Fa’ che cada La rugiada Senz’odore e senza zucchero, Ch’un odore, Ch’un sapore, Più superbo, più gentile Di quel dolce, Che sì molte Le riviere di Brasile, Questa terra in poco d’ora Ebra d’acqua manda fuora. E mentre poppa e succia Con gli assetati pori I gelidi tesori Del limpido purissimo elisire, Tutta in gioia si stilla, E in sibili dolcissimi Gli amori suoi castissimi Mentre palesa, e brilla, Con cortesi vicende Per l’umor che ne liba, odor le rende.
Su tuffiamo, Immergiamo L’arse labbra e le narici In quest’onda Sitibonda Di far l’alme e i cor felici. E mentre nel ricchissimo lavacro L’amaro sen di fredda gioia inzucchero, Gentilissima Ottavia, a voi consacro La boccia, il giel, la cantimplora, il Bucchero.
Or mentre io beo, Ricco trofeo Mi s’alzi intorno: Spoglie conquise In varie guise Rendanlo adorno. Cantinette, Sorbettiere, Bombolette, Templadere, Fiaschi, bocce ed inguistare, Gotti, nappi, tazze e giare, Bigoncie, botti e pevere, Quanti attrezzi mai del bevere La cantina ritrovò, E quanti n’inventò Gentilezza o ipocondria Di spagnola o d’italiana, Di brittanna o lusitana Signoril bottiglieria.
Presto, Ametto, Quel sorbetto Prendi tosto, e porta qua, Che mandato, Tutto ambrato, M’ha da Tripoli il Bassà. Corri, Alì, Reca qui Quel gran vaso di caffè: Quell’urnetta Lunga e stretta Colma in giro d’erba thè. E voi là fuori Andate in volta, Fate raccolta D’almi liquori Del trionfo a’ bei servigi. Venga in prima alle mie piante Quella cara, ma sprezzante Gran vendemmia del Tamigi. Piccola vecchia birra alquanto agretta, Che morde in un le labbra e ’l cor vezzeggia, Colla sirocchia sua sì fumosetta, Che nel suo sen col vin tanto gareggia, Che spesso in grossi vetri avvinta e stretta Di sì gelosa rabbia il cor le ondeggia, Che ’l sughero balzar fa dalla truffa, E di spumosa bile il palco sbruffa.
Dietro ne vengan in real cortaggio Gli Pseudobacchi in splendido equipaggio: Quelli che, con finissimo maneggio, Renderon nuovo all’altrui sete omaggio, Che tratto giù dal pampinoso seggio Quel Grande, che fe’ all’India il primo oltraggio, A mano a mano la bassarea pioggia Un gentil bevitor di rado alloggia. Che in quella vece a rallegrar le tavole Di più saggia letizia e salutevole, Infranti pomi ed ammostate fravole, Ribes sciolto in liquor poco durevole, Ma che pur vince quel che già le favole De’ Poeti ne finser sì aggradevole A color che apparecchian sulle nugole, Venner da Dovre a titillarci l’ugole.
Con sì bel sangue d’una state intera, Caro sangue odoroso ed innocente, Il latte d’una fresca primavera Per tisi uccise in fasce, e seti spente Già fastoso, ora umìle, in lunga schiera Di chicchere e cristalli, in tempra algente, Uno e diverso anch’ei ne venga e frema Costard, Curd, Milke, e Pyllibubb, e Crema.
Sopra gli omeri devoti De’ più illustri, de’ più grandi, De’ più antichi e venerandi, Cui la sete offra suoi voti: Sulle spalle de’ ministri Di real bottiglieria, In lietissima armonia Di gran pifferi e di sistri, Su feretro trionfale Tutto d’erbe e fiori ornato Suso in alto sia levato Quel fornello glaciale: Quell’argento smisurato, Che nel suo gelido seno Fresco serba e vivo appieno Un autunno sorbettato. Ch’ogni umor, che in bell’agrume O che in pomo il sole impasta, Ridisciolto lo rimpasta Almo giel con bel costume. Né ciò sol, ma lo mantiene Nel vital suo freddo velo Un miracolo del gielo Per gran gioia delle cene. Torno torno in ampio giro, Quasi in atto d’adorare, Un gran popolo di giare Col pensier già vi rimiro. Spume, nevi, alme gragnuole, Alterate di viole, Candidissime lattate. Quel superbo cioccolate, Quel terror del crudo inverno, Or mercè d’aspro governo Fatto vezzo della state.
Ma in vinosi ampi torrenti Per la posta, o a piene vele Venga venga quel crudele, Quel tiranno delle menti. Via figliuoli, Disserrate, Spalancate Scarabattoli e studioli. Quelle tazze, que’ bicchieri, Que’ sì alteri Calicioni smisurati, Que’ gran peccheri dorati, Ond’Auspurgh è sì superbo: Quel ch’io serbo Per far guerra al tramontano, Colmo in giro a vino ispano Cavo sasso trasparente, Indorato su’ Rifei, D’armi e trofei Scolpito a i giri Dell’aureo piede, Dov’hanno sede Perle e zaffiri.
Or che pronti sono i vetri Per la mistica sangrìa, Celebriamo in nuovi metri La real flebotomìa. Venga Bacco, venga, e tutti Gli consacri nel suo sangue, E ne versi in fin ch’esangue Ne rimiri i fonti asciutti. Venga Bacco pellegrino, Non d’Etruria, né del Lazio: Troppo è fral questo topazio, Troppo è duro quel rubino. Né men voglio quel diluvio, Che gorgoglia in sulla vite, Delle piagge sbigottite Pe’ gran rutti del Vesuvio. Son viaggi troppo commodi, Di più là vo’ ch’e’ si scomodi: Di là da’ monti, di là dal mare Vo ch’e’ venga, s’avesse a scoppiare. A Nume americano Troppo è vile in Europa ostia europea, Se lontananza almeno o rarità Degna non ne la fa.
Vengane per le poste in pochi istanti Con una frasca d’oro ad armacollo Dal persico Sciràs a rompicollo, Scorticando cameli ed elefanti.
O di là donde sorge a noi la sera Sarpi per dritto rombo in vêr l’aurora, Fatto zavorra alla superba prora Dell’ambra di Canaria o di Terzera.
Venga dalle montane auree pendici Dell’unghero Tokay egidarmato, A Cesare fedel, benché non grato, Suggendo i vetri al Tekelì felici.
O in vasselletto snello, a un bel sereno Ponente venga via da Frontignac: O profumato in pesche a Baccarac Sulla ciuca s’avvii del buon Sileno Venga, venga mai più questo briaco, E la pompa innocente Del trionfo gentile, Delicato trionfo, a cui simile Unqua non vide la dardania gente, Chiuda in lacci di rose intorno avvinto E di gran rabbia, e di rossor dipinto A piè di quest’altissimo trofeo Genuflesso, adorante A questo Barro messicano avante S’incurvi umile: e mentre lieto io beo Colle spalle vinose Al mio sinistro piè serva d’appoggio, Mentre coll’altro io poggio Sulla gelata pira, Ed a colei, che ’l nostro mondo ammira, Qual non fe’ mai altra Romana o Greca, In questa terra, sue delizie amate, Sua ricchezza, sua gioia, e suo riposo Fo un brindis odoroso; E ne’ suoi freddi profumati argenti, Mentre affogo la sete e spengo il foco, Sulla bell’alma ossequioso invoco, Quante in lor sono stille, anni, e contenti. Brindis Ottavia, e mentre io beo; ma che? Che desiarvi o che pregar potrei Dal ciel co’ voti miei, Se quanto dar potea, tutto vi diè? Voi di tesor possente, Voi di titoli altera e di virtute Sedete umìle in tanta gloria, e quindi Tra queste frali e brune Terre odorose ognora Profumate il pensier d’alti refllessi, Più ricca e più contenta in star con essi, Che tra’ parti del sole e dell’aurora.
Brindis dunque a un sì possente E sì caro terremoto, Che volar per l’aria a nuoto Faccia un brano d’Occidente. Io non chero il Potosì, Né que’ balzi del Perù, Dove più Natura i sassi in verde colorì. Fia contenta la mia brama, Se volar fa quella piaggia, Che viaggia Tra Parita e tra Panama. Ma la spinga così forte, Che qual bomba indiavolata Se ne venga di volata Di Bagnolo in sulle porte. quivi rammontata in gioghi altissimi Tocca da’ raggi ardenti Degli occhi onnipotenti Dell’ammirabil Strozza Si formi in pozzolana, in tavolozza, In fosco travertino ed in mattone, In nero paragone Per fabbricar palagi odorosissimi; In sul Sebeto il primo; ed il secondo Colà presso al delubro, ove d’incensi A Minerva il sembiante Annerì delirante La Reina del Mondo. Non lungi il terzo, ove l’Esquilio colle Se stesso in alto estolle: Un altro ancor de’ Tiburtini al Nilo, Ove ’l rapido filo Del cupo gorgo al dirupato sasso S’affaccia e spiomba al basso. Un altro in seno a Flora; un altro al Clivo, Da cui la figlia del superbo Atlante Più superba che mai, quantunque indarno, Pur signoreggia Flora: un altro d’Arno Sulla sinistra riva, Ove nel centro di real boschetto Su placido poggetto Sorge una sacra Oliva; Bisenzio abbia ’l suo, l’abbia anche l’Evola, Cotanto al vicin campo ognor malevola: E sì a dispetto della rima in ùccheri, S’ogni donna real s’estolle e pregia Di gran Buccheri aver nella sua regia, Ottavia la sua regia abbia ne’ Buccheri. |
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