Io dico questo canto a voi, Madri dolorose
Di Sardegna: oggi che rudi
Mani avvolgon all’elce verde le purpuree rose,
E riposan magli e incudini.
Fugge la notte, o Madri. Sul risveglio della
landa,
Nel gran cielo antelucano,
Solitaria ne brilla qualche stella: una ghirlanda
Di astri uscitale di mano.
E dall’ombra or il canto, o madri, va a chi spera
Va a chi sogna, a nunzïare
La luce, come uccello, figlio della Primavera,
Che improvviso vien dal mare.
Madri che dolorando il dolor di tutti i cuori
Guardavate i muti cieli;
Voi, che perdute nell’ombra degli antichi errori
Prone tra le fami e i geli,
Mormoraste: O Dio, sia fatta la tua volontà!
Che sentiste arder nel pio
Seno l’alta promessa che vi sorridea: Verrà
In terra il regno di Dio.
O Madri, o Madri! I cieli vi mentirono, e mentito
Vi ha Gesù mille e mille anni,
E vi ruinò dai ferrei taciti evi un infinito
Gorgo di odio e d’onte e affanni.
E vedeste per terre fosche di albatri e di
assenzio,
Dove dormon le remote
Stirpi, pur essi i figli spasimare nel silenzio
Delle assidue opere ignote.
Curvi sui torti aratri, iteravano il cammino
Delle glebe, oggi, domani,
Finché non traboccavano di quei solchi sul
confino,
Con la stiva nelle mani.
E guidavan nel debbio l’util fuoco come un cane,
Nell’aer vivo di ogni ardore,
Vigili a contenere quelle lor fiamme lontane
Dalla siepe del Signore.
E nelle notti, quando scende fra li orzi alle
fonti
Cauto a bevere il cignale;
Quando il cielo si annera vasto, e brontola dai
monti
Balenando il temporale,
Essi urgevan la greggia nomade e gli armenti bradi
Ai pianori dalle valli,
Avvolti in nere pelli, avventando ai torbi guadi
Con felino urlo i cavalli…
Oh! ma sempre nel cuore li seguiste voi, dolenti.
E se il fuoco d’olivastro
Garriva alla bufera; e se ardea nei cieli intenti
Presso il novilunio un astro,
Fu più vivo l’affanno. E a precorrere l’aurora
Spiavate dalle soglie
Fumide il cielo, e al vostro gemito tacea,
nell’ora
Grande, il vento tra le foglie.
Poi all’alba per loro voi tesseste il rude albagio
E torceste l’aspro lino.
E nulla fu per voi: non la lana del randagio
Gregge, non il miele o il vino.
E tutto fu per loro: e quel molto, e più quel poco
Che fu vostro. E in ogni giorno
Serbaste a loro un dono: quel giaciglio accanto al
fuoco
Per le sere del ritorno,
E il pane delle nozze, e la dolce uva vernina,
E le poma del cotogno,
E sovra tutto il vostro cuore, colmo di divina
Bontà, vivo di un sol sogno!
Ma pur i figli, reduci dagli ovili, nelle mani
Vi poneano umili un loro
Dono: un’util conocchia, istoriata sui lontani
Monti, in un ramo di alloro.
E brillò la conocchia per voi nel crepuscol
tetro
E nella serenità
Dell’alba, o Madri antiche: e fu il segno e fu
lo scetro
Della vostra deità.
Ma non sempre il lor ferro seguì docile, nel riso
Dell’ingenuo cor, la pace
Dell’opra onde scolpite si mesceano al fior
d’aliso
L’uva e l’edera seguace.
E non sempre le mani si snodarono innocenti
Al musar trepido e lieve
Dei redi, o nel soffolcere le ulivete mal gementi
Sotto il peso della neve;
Ma irroraron di sangue, di fraterno sangue, i dumi
Delle tanche: arsi, feriti,
Tra le voci del vento, discendeano ai verdi fiumi
A lavarsi, i cainiti!
Cupa l’eco dei monti iterò le fratricide
Voci ai glauchi anfiteatri:
E solcaron la terra torvi, con l’armi omicide
Annodate ai santi aratri!
E voi tutto sapeste, tutto voi sentiste, o Madri!
Ed appresero le balze
Anch’esse il vostro strazio quando, abbandonati i
quadri
Focolari, usciste scalze
A cercarlo il cuor vostro, Madri! Prefiche ed
Erinni
Che di canti e vaticinî
Ghirlandate le culle, di che tetri e vindici inni
Coronaste i letti elcini!
I letti che la scure strappò all’elce: dove i
morti
Furono stesi ad ascoltare
Gli ultimi canti: i letti dove giacquer biechi e
torti,
Volti i piedi al limitare.
Madri, d’allor sull’anima vostra fu tutto il
silenzio
Sconsolato che è nel piano
Flagellato dal sole, quando fiammeggia l’assenzio,
E il ciel sembra più lontano.
Le mani che infioravan come un canestro votivo
I presenti nuzïali;
Le mani che tremando stendean l’olio d’ulivo
Su le ferite mortali;
Le mani che poneano nei caprini sacchi il pane
Al pastore e all’aratore;
Le mani che versavano sulle nostre lotte insane
Tutti i balsami del core;
Quelle supplici mani si serraron stanche e scarne
Ahi! per sempre nella muta
Preghiera, e mai non ebbe altre pene più la carne,
Da quel pianto combattuta.
O Madri, o Madri! i cieli vi mentirono, e mentito
Vi ha nei secoli Gesù:
E il suo regno non venne, e quel suo sogno è
svanito
E non tornerà mai più.
E non da lui la gioia verrà a voi; ma vi verrà
Dalla montagna e dal mare,
Vasta e tacita come la luce; e non avverrà
Da quel vostro umil pregare;
Non dall’uomo o da Dio; ma sarà l’ardente figlia
Del cuor vostro e dell’umano
Volere, e saprà molcere quanti seni e quante
ciglia
Han pregato ai cieli invano!
Madri! col puro latte, odorato del rupestre
Timo, a quella gioia io libo.
Se vitale mi fu, come il primo soffio alpestre
Che mi avvolse, e come il cibo
Primo, il dolore, o Madri! se mi fu sacro ogni
vostro
Dolor, Madri, nel dolore
Di mia Madre (e salimmo, o fratello, il viver
nostro
Con quell’ombra dentro il cuore!)
Madri, io libo. Io non veda voi più curve, come
l’elce
Tòrta dal vento, su gli anni
Morti, dir alla fiamma che vi nasce dalla selce
E dal ferro, i vostri affanni:
Non vi veda con gli occhi fisi al muto limitare
Aspettare chi non torna,
E gemere e penare e plorare ed implorare
Quando annotta e quando aggiorna:
Non vi veda schiomate uggiolare sullo spento
Focolare nei villaggi
Taciturni. — Oh solinghe voci profughe sul vento
Nel delirio di selvaggi
Riti. Oh voci di Madri! monodie di prefiche ebbre
Di vendetta e mala sorte,
Sulle terre precinte dal silenzio della febbre,
Dal silenzio della morte —
Madri, io libo! La terra come voi ci sia materna,
E dia pane e dia letizia
Ai figli, ai vostri figli: e vi regni augusta
eterna
La Giustizia.
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