LA MADRE DELL’UCCISO
Madre, nel grido della turba, il carro
Trainò l’ucciso figlio tuo dal monte;
E troppo lenti erano i gravi bovi
A portartelo al tuo solo dolore.
Or te lo senti ripassar sul core
Il sanguinoso carro.
E ti stai sulla pietra
Del focolare, ove spartivi il farro
Con la sua gioia; e inconsolata e tetra
Ti affliggi, o madre, nell’immota pena
Della tua vita; e ti discarna e adunca
Il dolore col suo ferreo ronciglio
Più d’allor che con lui, col dolce figlio,
Falciavi l’orzo per le chiuse valli.
Altra messe ora mieti:
La falce del pensiero
Taglia spighe di pianto;
Leghi i mannelli del gran sogno infranto
Nel tuo silenzio, sotto il cielo nero.
E non sola una madre con un solo
Dolor tu sei, ma sei
Ahi! tutta la Barbagia di Sardigna,
Sola sui tristi monti
Tra il singulto del mare
Tra il singulto dei venti,
In vista agli orizzonti
Seminati di pene,
Tacite e vive come fiamme ardenti
Di bivacchi notturni.
O Francesco, o fratello!
Da quali nostri cieli taciturni,
Errando per pianure d’oleastri,
Ti mosse incontro questa forma viva?
I tuoi sogni lontani eran come astri
Accesi sopra solitaria riva.
E a te venìa dall’ombra antelucana
La parola profonda
Di questa terra antica:
E ascoltasti l’insonne
Vento seminatore
Nella tanca lontana;
E adorasti il silenzio
Del ciel meridiano
Quando le selve pendon come cetre
E vibra sulle pietre
Dei vertici lo squillo
Del falco cacciatore.
Tutte accogliesti in cuore
Le melodie del campo e dell’ovile…
Del debbio e del viaggio
Dei nomadi pastori,
Della vendemmia e della tosatura,
E della domatura dei selvaggi
Torelli e dei poledri corridori.
Ecco: e tra questi accenti
Varcasti il limitare
Del tuo silenzio: e all’opra creatrice
Drizzasti il cuore con virtù nativa.
E fu puro il tuo gesto,
E casto come quello dell’uom che ara,
E della donna che apparecchia il pane,
E del pastor che guida, nella chiara
Notte di luglio, il branco alle fontane.
E fosti triste e solo al tuo lavoro,
Solo alla tua fortuna;
Con solo il tuo dolore,
Con solo il dolce amore
Che ti arridea dal Marghine lontano.
Ed ecco, la tua mano
Ora ha ghermito il sogno:
Ghermito lo ha, così, con giovanile
Impeto, come quando
Salivi l’erta cima a snidiare
I falchetti; così, come sapevi
Con la sicura fionda
Spiccar la pina dall’aerea fronda!
Ora lasciati a tergo il truce intrico
E gli striscianti sibili e l’esiguo
Aer dello speco: col sogghigno ambiguo
Nulla più ti domanda il gran Nemico.
Va’ per la tanca in fiore:
La terra è tutta bianca
Di greggie e di asfodeli;
Balzano su dall’artemisie d’oro,
Trillan da tutti i cieli,
Le allodole, o fratello!
Ah! sveneran l’agnello
Più grasso, oggi, i pastori,
E ti daranno il latte,
E parleran con te di questa loro
Madre, e avranno nel cuore
Il pianto del ricordo!
E l’anziano dirà: Sian benedette
O figlio, le tue mani.
Sardegna, o Madre, chi nella tua notte
— Non ebber mai più vasta notte i cieli —
Chi dirà il canto alla tua luce, il canto
Della tua primavera?
O Taciturna, o Sola!
La profonda parola
No, non l’udrai dai cento tuoi loquaci
Rabula, tronfî tra il plaudir dei fetidi
Subrostrani: né porpora alle rose
Della tua Primavera
Darà la cauta schiera
Degli onesti tuoi ladri e dei banditi.
Se l’aurora arderà su’ tuoi graniti
Tu la dovrai, Sardegna, ai nuovi figli.
A questo: a quanti cuori
Vegliano nella tua ombra, aspettando!
O fratello, e tu primo alla vittoria,
Da’ il grido dai vermigli
Pianori: Agita il palio…
O rosso cavallo,
O cavallo di gloria, hutalabì!
Aprile 1907
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