Sui campi di Tiesi, in un’alba del Giugno 1796
All’alba — il carro d’oro per la via
Lattea scendeva, e un’aquila garria —
Fu visto — o fato! — Don Giovan Maria,
Il ribelle Alternos, qui cavalcare.
L’alto suo sogno, grave di avvenire,
L’impeto fatto di speranze e d’ire,
La forza di chi sorse a maledire
Egli vide dal sommo ruinare.
Errava triste e solo. Per il piano
Fuggiangli l’occhio e l’anima lontano:
Ché ancor vedeva quel suo sogno, invano,
Sui boschi, dietro i monti, balenare.
I monti della patria! Come veli
Di ninfe si svolgevano nei cieli
Le nubi antelucane: gli asfodeli
Svettavano al chiaror crepuscolare.
Or nella gloria di sue rosse aurore,
Cinto di lampi si levava il cuore,
Anelando. Or non più, dentro il fragore
Dell’armi, l’inno, soffio aquilonare!
Non dal pulpito più prete Muroni
— Legato ha il suo ronzino agli arpïoni,
E polveroso è ancora, e con gli sproni —
Rugge sui vili, ché non sa pregare.
Non più nel solco del mattino d’oro
Le urgenti turbe! O verde Logudoro,
Di che fiamme avvolgesti il nobil coro,
In ogni ovile e in ogni casolare!
Non più veglie animose fra le gole
Dei salti, e vaste fronti aperte al sole,
Non nei consigli più sensi e parole
Ardenti come fiamma sull’altare.
Ma non questo ribelle alla tempesta,
Se pur stride nel cielo la funesta
Ora dei vinti, la pensosa testa
Sconsacrata saprà, vinto, piegare.
Solo a te, Sarda Terra, come a madre
Egli piega! Le sue vindici squadre
Egli seppe per te scioglier dalle adre
Glebe, e agitarle come nembo il mare.
Tutto fu vano! Oh voci dell’avita
Casa deserta! Oh fiori della vita
Deserta, o figlie! Oh compagnia romita
Dei padri sardi intorno al focolare!
Or l’anima solinga sotto i grigi
Cieli vede l’esilio di Parigi;
Prone le turbe vede, e sui fastigi
Dei monti scender l’ombra secolare.
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