Smarriti, a notte, andavano. Melchiorre
Guardingo, innanzi. Rombava la voce
Della bufera, grande tra le forre.
Era l’ira di Dio in quell’atroce
Valle d’Orune. Ai lampi, camellieri
Servi e re si facevano la croce,
E gridavano: Siamo passeggeri
Sperduti a mezza strada. Aiuto, aiuto
Ai re magi, porcari di Marreri!
Chiamavano al deserto: ché l’irsuto
Guardiano, se infuria la bufera,
Più bada e pensa al suo verro sperduto,
Che non ai re. D’un tratto un’ombra nera
Scorge Melchiorre: un piccolo servetto
Pastore vede, in pelli e in ventrïera,
Un aquilastro, con un suo branchetto
Smunto, a un ridosso per la tramontana.
Dolce gli parla: — O bel sardignoletto,
Salute! Odi, fa opera cristiana:
Noi siamo forestieri e abbiam smarrita
La strada. Andiamo a Nuoro: è lontana
Nuoro? — Eh! fa lui, una bestia spedita
Vi giunge in un’oretta, ma un pedone
Ne impiega quattro, ché è tutta salita.
Ma voi chi siete? Da quale regione
Venite? Forse siete proprietari
In cerca di bestiame o di pascione?
E codesti animali straordinari
Che diavolo sono? — Son cammelli,
Questi a due gobbe, gli altri dromedari;
E noi siamo i tre re. Senza vascelli
Siam venuti dai regni d’oltremare,
A recare speranze e sogni belli.
Ora si va a Nuoro. Ci vuoi fare
La strada fino a Nuoro? Su, ride
Già l’astro, e abbiamo a cuore d’arrivare. —
Sì, la stella lucea su Puntafide,
Grande e chiara. La vede ed a cavallo
Baldo salta il fanciullo, il falconide,
E va coi re. All’alba, il nudo vallo
Tutto è desto; le mandre per gli ovili
Bianche vagan tra’ sondri di corallo.
Il bimbo trotta e ciarla: — Oh voi, fucili
Non ne avete… Mio padre n’avea uno
Lungo, di canne sottili sottili.
Mio padre? L’han sgozzato presso al pruno
Del limite: arava in Punta Fumosa
Arava: non facea male a nessuno!
Io son servo. Mia madre Graziarosa
È sola in casa, sola, ora. — Ed al pio
Ricordo della madre dolorosa
Tacque. Poi borbottò in quel natìo
Suo modo un canto che sembrava il pianto
Di un affanno che non conosce oblìo.
Ma ecco Nuoro: ecco il camposanto,
La tanca della morte, e la chiesetta
Sola: la Solitudine, e d’accanto
L’abituro di Lino, con l’erbetta
Argentea innanzi: e in fondo della via
Il dazïere nella sua garetta.
Nuoro squillava all’epifanìa.
— Eccovi giunti, disse l’aquilastro,
Io torno, e voi andate con Maria. —
— E tu con Dio, risposero, e che l’astro
Nostro ti segua, e dovunque tu vada
Ti si muti in olivo l’olivastro.
Però, prima, hai da sceglier ciò che aggrada
Di più a te, tra’ bei donuzzi ch’oggi
Noi portiamo ai bebè d’ogni contrada. —
E le oprate bisaccie a fiori roggi
Versâr tanti giocattoli, che il brullo
Piccolo spiazzo se ne empiva a moggi.
Ma l’aquilastro non trovò un trastullo
Alla sua pena: sempre ha fitto in core
Suo padre ucciso; il misero fanciullo.
Ah no! Tra quei balocchi, al suo dolore
Ride, disperso fuori dalla fida
Guaina, un bel pugnale a passacore.
Lo ghermisce, ché l’odio fratricida
Del suo perverso seme nel rubesto
Cuor ratto gli divampa, ed: — Ecco, grida,
Ecco il trastullo mio: datemi questo!
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