— Giù dall’antro di Lino la bufera
Si sferra, disse il vecchio, con lo sguardo
Segnando il nembo. Entrammo: la capanna
Tra i selvatici olivi come un nido,
Tremava al vento. Un pargolo assonnava
Cullato da una strana ninnananna.
Accucciata dappresso era la madre,
Bruna scarna: una schiava!
Oggi né mai
Avrà pace la spia, Lino la spia,
Disse il vecchio. Ché a lui per poco infame
Prezzo, piacque tradir gli ospiti suoi.
Eran banditi, e Dio spinse quei mesti
Alla casa di Lino. Il vino e il pane
Agli ospiti egli porse, poi nel sonno
Li uccise: il sonno uccise!
Ahi! da quel giorno
La sua casa ruinò. Sonava intorno
D’opre e di canti la tranquilla casa.
Tolto dai bugni candidi, nei ziri
Chiariva il miele, e dentro saldi tini
Di castagno fervea, gioja dei prandi,
Il vino. Or tutto se ne andò sul vento,
Come la piuma degli uccelli. Morta
Senza pur quella pace che ai più mesti
Destini Dio non nega, è la sua sposa,
Già florida e ridente come un mandorlo
In fiore.
Solo, misero, percosso
Or dall’odio di mille anime, Lino
Va per la terra, va per gli sterpigni
Campi, sui monti, nelle solitarie
Valli, tremando, ché implacata sente
Sui passi suoi la pesta d’altri passi,
Non visti mai, che sempre mai lo seguono,
E non lo giungon mai.
Se mendicando
A le nostre capanne egli si affaccia,
Ogni cor lo respinge. Un pane d’orzo
E poco latte, fuor della capanna,
A lui porge il pastore, e Lino siede
In un canto, lontan dal focolare
Che solo splende ai buoni. Indi solingo
Dagli ovili si toglie, e va col vento
Per le tanche randagio, né l’acuto
Assiduo gelo della mortal febbre,
Che le misere sue membra raggriccia,
Scioglier potrian pur quelle che sul folto
Ortobene, nereggian elci annose,
Se ardesser tutte tutte in un sol rogo.
Ora lassù nell’antro suo, che al vento
S’empie di voci, Lino ascolta il nembo
Folgoreggiando dirupare al piano,
E fra l’èmpito sente, e il rotolare
Grave dei tuoni, fremer con la nostra
L’ira di Dio. —
Così dall’aquilino
Reo sguardo, balenando l’implacato
Odio, il vecchio parlò.
Dal vasto piano
Fra il gemito e lo scroscio delle quercie,
Passionate dai flammei abbracciamenti
Del fulmine, salìa vario il tumulto
Degli armenti e dei greggi, e voci e sibili
Dei mandriani, e dei torrenti il tuono.
Ruppe allor dalla mia anima il grido
Su la procella. O rivi che, dai vertici
Fulminati, correte alacri al mare:
E negri uccelli, voi che dei divini
Cieli siete i pensier torbidi: e voi
Venti, che siete degli aperti cieli
Il palpito e la voce, con voi lungi
Rapite il seme onde germoglia l’odio
Che il cor ci strugge, e dolce sopra l’anima
Scenda un sogno di pace, qual, su torva
Fronte, scende una pia mano materna.
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