O fratelli, rapsodi dalla chiara
Voce, dal cor soave più che il fiore
Della melissa, ai canti ed alla gara
Aneli, come indomiti morelli
All’invito del vento emulatore,
Là nel pianoro bianco di olivelli:
O poeti, se all’anime che adoro,
— Anime tristi ardenti nel silenzio
Come lampe — sonasse nel canoro
Accento dei miei padri la canzone
Della speranza mia, monda d’assenzio
E pura d’ogni fosca visïone,
Anch’io alla pensosa turba assorta
Tal inno innalzerei che alle parole
Alate, trionfante aquila al sole,
Si leverebbe l’anima risorta.
Ma fu negato a me questo celeste
Dono, d’un pietoso nume dono,
Molcer gli acerbi affanni e le funeste
Cure col canto. E amati e venerati
Siete perciò, fratelli, e senza trono
Né spada, siete re: ché allor che ai prati
Ritorna il nuovo april cinto di foglie
E prìmule, recando sogni e grate
Ombre ai pastori, all’erme vostre soglie
Batte con una rama d’asfodelo
Il sole e v’incorona, e l’umil vate
Fatto è re della terra e re del cielo.
E andate per l’antica isola, aedi
Erranti, a dispensare larghi il canto
Ad ogni cuore: al mietitore affranto
Tra le messi, e al pastore tra’ suoi redi.
O gioja in rimirarvi alti rapiti
Sulla festosa folla che vi abbraccia
Rinfiammandovi in cuor gli estri sopiti,
Col suo palpito immenso! Ecco, un’ebrezza
Visibile v’inebria: arde la faccia
Alla sùbita febbre, e la lietezza
Dell’anima trabocca in inni e in canti
Meravigliosi. Ed è come stillante
Favo la vostra bocca, dei fragranti
Favi il più colmo e ambrosio: e il vostro cuore
È un montanello sulla onduleggiante
Vetta del pioppo, quando il giorno muore,
E ridon d’oro i colli e vien la sera
Silenzïosa, e dalla rosea rama
Immoto pia pia e canta e chiama
Tutte le melodie di primavera.
Oh gioja udirvi allora, quando piena
Vi sale l’onda delle rime al labbro
Grazïoso! Da quale ignota vena
Tanta dolcezza? Il mesto che vi ascolta
Si rallegra: gli par che un ventilabro
D’oro nel cuor gli ventoli una folta
Messe di speme incognita. E va lento
Per piane verdi d’orzi, alla sua tanca
Vermiglia e azzurra sospirante al vento.
Ambia col grave ritmo delle ottave,
In sogno sulla sua cavalla bianca
Stellata, in groppa avvinta la soave
Compagna. Monte Spada ecco dimoia:
Acque d’argento scendon con serene
Rime: il mesto indugia e affanni e pene
Dimentica, e si abbevera di gioja.
Ché la vostra camena è una fanciulla
Bellissima che vien dalla fontana
Balda e dolce, la rossa anfora sulla
Sua testa d’aquiletta: il cuor le vola
Lieto innanzi, la bella filograna
Tinnisce il riso dell’aperta gola.
Il pellegrino stanco chiede un sorso
Per la sua sete, inclina ella la brocca
Ròscida, e quegli beve e il cammin corso
Oblìa e benedice. Ella sorride
E lontanando, dalla rosea bocca
Versa motti d’amore. Tal ne arride
La vostra musa ingenua, a cui l’antico
Idïoma del forte Logudoro
Cinge doppia corona: una d’alloro,
L’altra di rose e d’olivastro aprico.
O sacro idioma, nato tra nuraghi
E tombe e selve in cuore alla pianura,
Lieta di messi d’opre e branchi vaghi:
Maschio eloquio fiorito perché i padri
Ti parlassero gravi sull’altura
Quali profeti, puro a che le madri
Ninniassero i figli, o uccisi o morti
Li piangessero: accento alto d’impero
Sul labbro a Leonora: urlo di forti
Schiuso in un inno dal deserto grembo,
Madre, minace tuo, inno del nero
Tuo cuor, Sardegna, quando il breve nembo
Folgorò su’ tuoi sonni. Oh bel picchiare
All’alba, di quel verso che ruggì,
Martellando i battenti, «Cando si
Tenet bentu est prezisu bentulare».
Gloria, fratelli, al fabbro di quell’inno
Che per nere capanne e spersi ovili
Cercò i cuori, e col suo fiero tintinno
Li trasse verso il sole a le vendette.
Oh! i cavalier di soga e i bianchi e vili
Lacchè, incontro ai menghi e alle berrette!
E gloria ai padri aedi, gloria al sacro
Coro che dal Limbara al mare azzurro
Di Spartivento, insino al solco macro
Di Aritzo, per l’intera taciturna
Isola, sospirò come un sussurro
Di primavera sulle fosse. E un’urna
Di miele versò sulla tristezza
Dell’uomo. Quando Luca, in aspre selve,
Ai banditi cantava, quelle belve
Si scioglievano in pianti di dolcezza.
Voi siete buoni come si conviene
All’uomo amico delle muse, e i giorni
Trascorrete nell’opere serene
Del monte e della valle. Tu profondi
Il solco tuo diritto, e i canti adorni
Ti aleggiano d’intorno come ai biondi
Frumenti, stormi garruli. Tu il branco
Guidi, pastore aedo, alle sorgenti
Benignamente: la verga di bianco
Tamarisco è il tuo scettro, poiché sdegni
Il rissoso bastone, e nei lucenti
Silenzi della notte — quando i segni
Del ciel ridon più belli, e il cor che sa
Ode sperse armonie — l’anima carca
D’innocenza, tu incedi, patrïarca
D’antico tempo nella nostra età.
Tu nella rosea nitida pietraia
Batti sui ferrei cogni col mazzuolo,
In pugna col granito. La giogaia
Ti avvolge col suo anelito e con grandi
Velari d’ombra, e in quel silenzio, solo,
Con la tua mazza nella selce scandi
Picchi tìnnuli, sì che un’armonia
Pare anch’esso quel tuo rude lavoro.
Ma negli ozi leggiadri in solatìa
Piazza, o in ampio cortil, la gara arguta
Adùnavi. Dinanzi vi sta il coro
E l’ansia turba: chini sull’irsuta
Criniera dei cavalli, i mandriani
Odon, e voi cantate. Il canto è fede:
E l’anima selvaggia ora vi chiede
Se debba amare od odiar domani.
Ammonitela voi, coi vostri carmi,
O fratelli! Cantatele dei padri
Che contro Roma caddero con l’armi
In pugno: celebrate la perversa
Virtù dei vinti, cui scovò dagli adri
Covili di Belvì, la rabbia avversa
Dei mastini famelici: dei vinti
Che nei fôri dell’Urbe, presso i templi
Marmorei, di ferrei ceppi avvinti,
Parevan di sì mala domatura
Che nessun li comprava, sì dagli empi
Cuor la vendetta tralucea sicura.
Glorificate l’odio secolare,
L’amore eterno, avvalorate i cuori.
O poeti, cantate gli splendori
Della Sardegna libera sul mare.
Madre fatale e bella a tutti ignota
Anche ai tuoi figli, chi ti adorerà
Com’io t’adoro! Agli strani remota
Io ti vorrei: sinistra sanguinosa
Coi tuoi banditi, con le tue città
Morte, ingioconda atroce febbricosa,
Ma tutta sola e oprante e senza pianti.
Io ti vedrei mandriana ai dolci maggi
Salire, coronata di ronzanti
Pecchie, il tuo monte acceso dall’aurora,
Dietro i branchi, e passar sui bai selvaggi,
Prima nell’àrdia, ardita corridora.
Oh nei sereni monti in cime e in grotte,
Alte fiamme di pace, quando i cieli
S’imbrunan vasti, e dormon i fedeli
Armentari alla virginëa notte!
Io ti vedrei nel vespero di giugno,
Sugli aerosi miei colli sereni,
Bella e discinta con la falce in pugno,
Mieter cantando quell’ultima randa,
E spulare coi zeffiri tirreni
Il frumento sull’aja veneranda.
Spartiresti il tuo pane ai tuoi figlioli
Giustamente, ché lungo fonti chiari
E verdi vigne e sussurranti broli,
Gli elcini carri carichi di grano
Tu guideresti ai nostri limitari
Fioriti di giaggioli e zafferano.
E siederesti poi, madre, sul monte,
In cuor secura con la certa fionda
E la scure. Chi toccherà la fronda
Di quercia che ti ombreggerà la fronte?
Ma ti vedo raminga nella tanca
Sterpigna, lungo il lido, ad ascoltare
La gran voce del flutto che s’imbianca
Ululando: lì presso un branco bela
Melanconico, e tu guati il tuo mare
Deserto. Dimmi, quale amica vela
Navigò a te dalle felici prode,
Recando una speranza alla tua pena,
Un nettareo nepente al tuo cuor prode,
Una facella d’oro a questa nera
Tua notte, o taciturna? Il ciel balena
Tacito e cala tacita la sera
Obliosa. — Da qual vermiglia vetta
Ti vestirà l’aurora di splendore?
Tu l’aspetti nell’ombra, ed hai nel core
Sogni di gioja e sogni di vendetta.
Eppur, fratelli, io m’inebriai di questa
Triste patria che sta sola sul mare,
E nutre come l’aquila rubesta,
I figlioli di sangue. Ed il mio cuore
Risorto palpitò d’una solare
Letizia nel suo seno, e il mio dolore
Si tramutò in un sogno di speranza.
L’anima si confuse nella luce
Sulla montagna, e seppe la fragranza
Dei fiori agresti nati sulle tombe
Dei primitivi, e nella selva truce
Degli orgolesi apprese, tra le rombe
Del ponente, l’urrà del sanguinario
Pallido e triste come un sire, e in Monte
Rasu, sentì sull’erba e sul bel fonte,
Sotto l’elce e il ginepro solitario,
Sparsa la santità di San Francesco.
E venerò nei boschi d’oleastri
Un dio pellita, e navigò nel fresco
Mattino, dalla rada umile, bianca
Di greggi, alla Caprera cinta d’astri
E d’inni; e là dove più chiara e franca
Risuona l’onda sull’azzurro abisso,
La scogliera mirò donde le sarde
Donne traeano il prezioso bisso
Per vestire l’Eroe. E nel tepente
Vernal meriggio — oh come dolce m’arde
Quel ricordo! — solcò, tra la clemente
Selva di glauchi ulivi, l’armoniosa
Onda del Temo: su, tuona la caccia,
E giù, ai battelli le flessuose braccia
Protendono i rosai con una rosa.
E sognò lungo una deserta riva
Fra due rovine: il mare infaticabile
Abbracciava la terra che gli offriva
I suoi gigli languenti, e sole e cielo
Folgoravano flammei un immutabile
Riso alla terra e al mare. Là, tra i veli
Del Tirso, la città degli Arborensi
Dormìa: bella per sue case tacenti
Quali sepolcri, tra profondi incensi
D’orti, lungo silenziose vie
Cinte di palme: mesta di piangenti
Campane: soavissima per pie
Rosee mattine, in vago chiuso aulente
Di viole e di mandorli: solenne
E sacra per il tempio che contenne,
In faccia al mare, il dio di nostra gente.
Così sognò e sperò, sardi rapsòdi,
Il mio cuor rude chiuso sopra l’atro
Sen della madre mia: pur le melodi
Ignorò del mistero ond’ella è sacra.
O fratelli, vorrei esser l’aratro
Che morde il seno della tanca e l’acra
Viscera della rupe, a penetrare
Tutta l’ombra e le desolazioni
Che l’ammantano eterne. O focolare
Di porfido spazzato dalla morte,
Sepolcri di giganti, alti burroni
Degli aspri monti, dove alle risorte
Primavere, fremono chiomati
Teschi di mandriani e di banditi:
Sparsi nuraghi, e voi, santi graniti
Del limite, temuti e venerati,
È in voi questo mistero? O ne’ villaggi
Sepolti nelle valli come in bare?
O nei debbi notturni e nei selvaggi
Valichi, ove urge le spaurite torme
La bardana dal tacito calzare?
Non io lo so: ben so che questa enorme
Tristezza è sovrumana e ch’è divino
Questo silenzio, e che mia madre è dea!
Sia gloria a lei dal mare al cilestrino
Cerchio dei monti. O candidi fratelli,
Cinti di gioja, se alcun’ombra rea
Mai v’aduggi — ché ai nostri cuor rubelli
Voi siete come agli orti l’usignolo,
Ed all’arso oliveto la cicala,
Voci di gioja — in cuor temprate l’ala,
A un canto che convien sia forte al volo.
La mia terra cantate. E chi la gara
Vinca, si avrà in premio un bel poledro
Che Osilo domò, Osilo chiara
Altrice e domatrice di cavalli.
E in premio pur si avrà una di cedro
Cavezza adorna, e una di fior gialli
Ben oprata bisaccia, valorosi
Incliti doni. Ma più prezioso
Dono è il serto fiorito nei muscosi
Dirupi d’Ortobene; al vincitore
Fanciulla l’offrirà per radioso
Occhio insigne, nel pallido languore
Dell’amplesso divina. Ella, sul monte,
In vista all’Oleastra e alla Gallura,
Oh gloria! Cingerà con l’elce pura
Al vincitore la superba fronte.
|