I TRE
RE
A Clinio Quaranta
Fratello, un sasso, senza voci e serto
Di fonti, è sotto cielo algido e greve
Montalbo; e anch’essa sua sorella Neve
Lo sdegna, tanto pare aspro e diserto.
Dalle sue vene lucide di schisto
Qualche erba rada e poco cisto s’apre:
Tristi pastori spargono le capre
A pascer di quell’erba e di quel cisto.
Or una volta per i greppi impervi
Di questo monte c’eran tre pastori,
Tre fanciulli che avevan degli astori
Gli artiglietti e le brame, ed eran servi.
E un giorno — eran le capre per la frasca
Sul vertice — siedevan presso un botro
Senza più pane, ed era come un otro
Esausto e secco la lor vecchia tasca.
Ed uno sospirava: – Oh le lontane
Sere di maggio quando io pasco l’orzo,
Ch’è nelle spighe tenero, e poi smorzo
La mia piccola sete alle fontane! —
E l’altro sospirava: — Oh fosse giugno,
A smelar miele agreste, il miele nostro:
L’elce lo geme, simile a colostro,
Ogni ferula ronza come un bugno! —
E il terzo: — Oh andare, andare, a passi tardi,
Da tanca a tanca fino a Dïortoro,
E coglier l’erbe buone e i cardi d’oro
E mangiar di quell’erbe e di quei cardi! —
Ahi! la fame trebbiava come pula
Le lor voglie. Era il vespro di Natale;
Svariava oltre i lentischi, nel brumale
Fumar dei tetti, solitaria Lula.
— O fratres, disse e rise il più grandino
Dei fanciulli, io lo vedo e non lo vedo:
Ma in ogni focolare c’è lo spiedo
Oggi, e le olive col finocchio e il vino.
Ma noi siam sbrici, o cuoricin mio bello.
Lo spiedo, sì, ce lo può dare un’elce:
La fiamma, sì, ce la può dar la selce:
Ma chi, fratelli, ci darà l’agnello?
Ah l’agnello! Lo avremo nell’artiglio
Noi pure il nostro agnello, o fratellini.
Io so un branco d’agnelli trimestrini:
Uno stupore: bianchi come il giglio.
E li governa un vecchio di cent’anni
Che ci ha l’ovile dentro una spelonca;
Quando esce con la fune e con la ronca
Taglia le rame e si compone i manni;
Poi li raccatta, geme e si rimbuca:
Conta i mastelli e guarda la cannizza,
Rivoltola le forme, e riattizza
Il fuoco, e giace nella sua mastruca.
E il suo stramazzo sono sette agnelle,
E due montoni sono i capezzali.
Il vecchio, senza beni e senza mali,
Dormiglia e sogna pascoli e fiscelle.
Ma c’è il mastino a scompigliar la tana;
E alla spiga granita c’è la golpe;
A pollaio che canta va la volpe;
E a pastore che dorme la bardana.
Facciamo la bardana! Il mandrïale
È stanco, e dorme sodo, o miei fratelli.
Corriam sul vecchio, gli rubiam gli agnelli
E facciamo l’arrosto di Natale! —
Si mossero: e li vide San Francesco
Dalla sua casa e non gli disse nulla.
Il vento galoppava per la brulla
Landa, col suo sonaglio gigantesco.
Venivan dagli sparsi ovili i fischi
Dei pastori lontani ed il gannire
Dei cani. Tetro spasimava alle ire
Della bufera il salto dei lentischi.
Poi nell’ombra uno strido ultimo: il nibbio.
E sulle tanche il palpitar di un velo
Tenue pallido gelido, e dal cielo,
Da tutti i cieli, turbinò il sinibbio.
Il sinibbio… la neve giù dai monti
Al pianoro, da Corte a monte Spada;
La neve che asserraglia la contrada
Ai cavallari, e lega rivi e fonti.
La neve che sommessa dice ai cani
Di non rignare: l’inimico spettro
Dei branchi, che con sue dita di vetro
Scioglie alle morte pecore i campani:
La neve che con sue lame argentine
Taglia le carni, e coi suoi baci beve
Il pianto amaro; il turbine, la neve
Con tutte le sue sferze e le sue spine.
La neve muta e cieca, o cuor di mamma!
— Ah! un palmino di terra quanto basta
Per riporvi la paglia ch’è rimasta
In una greppia, e riveder la fiamma!
Mamma del cielo! —
Ed ecco alla randagia
Covata si offrì un’elce con sua veste
Di lutto eterno, come quelle meste
Vedove donne tue, sacra Barbagia.
E l’elce li raccolse con dolcezza
Di madre, nel suo pio grembo ospitale.
I tre cuori, dimentichi del male,
Sentiron rifiorir la fanciullezza.
Tremò nell’ombra un lumicino d’oro…
La stella… E nel silenzio delle valli
Squillò un vario nitrito di cavalli,
Un ambiar gaio, un fremito sonoro.
E non erano, Aritzo, i tuoi ben conti
Mercantuzzi, e non erano i tuoi rossi
Ronzini, scesi dai tuoi boschi mossi
Dal rifòlo, o Regina delle fonti.
Ma Gaspero, Melchior e Baldassare:
Erano i re d’Arabia, i tre re magi,
Cavalcavan per piani e per ambagi;
Avean passato il Logudoro e il mare.
E portavan bisacce con dovizie
Di balsami e di mirra e d’oro e gemme.
Andavano coi servi a Betelemme;
E i servi aveano i cibi e le primizie.
E videro i fanciulli, che nel sogno
Dormivan buoni, dolcemente avvinti:
I capelli sembravano giacinti,
E il molle volto un fiore di cotogno.
Sostarono i re buoni; e con un manto
Di broccato, coprirono i fanciulli;
Nelle lor mani posero trastulli
D’oro, e un balsamo ad addolcirne il pianto;
E accanto a loro posero un agnello,
E i bianchi pani e delizioso vino.
Così, fuori del male, il lor festino
Si ebbero anch’essi, i miseri, o fratello!
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