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Sebastiano Satta
Canti

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  • CANTI BARBARICINI
    • Le selvagge
      • I GRASSATORI
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I GRASSATORI

 

Anelavano ai boschi dell’altura,

Arsi, felini. Il vento dell’aurora

Agitava i lor velli irti e le chiome.

I cavalli, già vinti dalle some

Inique, procedean stanchi. Era l’ora

Dell’adunata e della partitura.

 

E con loro era Liba, il mandrïano

Di molte greggi, Liba, il domatore

Di giovenchi e poledri. Ora non più:

Ché già sulla sua forte gioventù

Scendeva l’ombra; e aveva rotto il cuore

E bianco il viso e debole la mano.

 

Li avea seguiti a lungo. Or su per l’erta

Mal reggeva al cavallo il duro freno,

E invan chiedeva balsami alle fonti.

Or si moriva. E, in sogno, udìa dai monti

Un tinnir di campani al ciel sereno…

Ahi! forse era la sua mandria diserta.

 

Ma sul monte al ferito, a pié degli elci,

Ecco i giovani stesero il giaciglio

Di molli fronde; mentre gli anzïani

Sceglieano i tronchi e, con le accorte mani

E col ferro, destavano il vermiglio

Seme del fuoco dalle acute selci.

 

E brillarono i fuochi. Ed: O fratelli,

— Disse il più vecchio — io spartirò le prede,

E ognun se l’abbia come vuol la sorte.

Faremo come quando, posti a morte

I cervi che la caccia ilare diede,

E le carni si spartono e le pelli. —

 

Tacquero e si segnarono. E dai sacchi

Caprini ei tolse le orerie, tesori

Ignoti, e molti calici e boccali

Di argento, e gli otri e i roridi fïali

E le pelli, conforto ai tuoi pastori,

O Barbagia, nei gelidi bivacchi.

 

Tolse i rasi e i damaschi, e con le mani

Sanguinose li svolse. Eran giardini

Di gigli d’oro, fiori di malìa…

Li avean portati all’arsa Baronia

Sulle devote barche i levantini,

In tempi antichi, da lidi lontani.

 

Mostrò i broccati, simbolo di gloria

Alle aspettanti vergini, ed i freni

E l’armi ed i monili ed i coralli.

E monete istoriate di cavalli

Non mai visti: cavalli saraceni,

Lievi, chiomati, cari alla Vittoria.

 

Or guardavano intenti e avean nei tetri

Cuori l’empia follia dello sparviero

Selvaggio. Era tra l’erbe un lucer d’astri.

Non mai quelle lor mani, che i vincastri

Stendevan dolcemente sull’impero

Delle greggie errabonde, come scetri,

 

Non mai — né pur nei sogni — avean ghermito

Cose sì belle. Trassero le sorti,

E spartiron le prede. E nei boccali

E nei calici voller gli augurali

Vini mescere: i giovani ai più forti

Davan le tazze, come in un convito.

 

Beveano in cerchio. E a Liba anche, in quel loro

Gaudio, porsero il calice di argento,

Augurando. Egli bevve con un riso

Estremo. Erano i cieli di narciso;

Bianche mandre di nubi sopra il vento

Migravano al lontano Logudoro.

 

— Liba, mio piccol cuore, — parlò allora

Un antico, che degli Evangelisti

Aveva il grave eloquio — o Liba, noi

Sovra un letto di quercia ai luoghi tuoi

Ti porterem stanotte, e là, non visti,

Ne verranno i tuoi vecchi sull’aurora.

 

Or prendi, intanto: è tuo questo dipinto

Freno e quest’armi, che ti pongo a lato;

Tuo questo miele; tuo questo boccale;

Tuo questo drappo che non ha l’uguale:

È a palme d’oro, un palio di broccato,

Il più bello di quanti tu ne hai vinto. —

 

— Oh! disse lui, non l’armi e non il freno,

E null’altro io più voglio. Già minaccia

L’astore e il nido plora su la frasca!

O piccol zio, voi solo date a Paska

Quel drappo d’oro, e, come le mie braccia,

Quelle palme le avvolgano il bel seno. —




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