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Sebastiano Satta
Canti

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  • MUTTOS
    • L’automobile passa
      • L’AQUILASTRO
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L’AQUILASTRO

 

Smarriti, a notte, andavano. Melchiorre

Guardingo, innanzi. Rombava la voce

Della bufera, grande tra le forre.

 

Era l’ira di Dio in quell’atroce

Valle d’Orune. Ai lampi, camellieri

Servi e re si facevano la croce,

 

E gridavano: Siamo passeggeri

Sperduti a mezza strada. Aiuto, aiuto

Ai re magi, porcari di Marreri!

 

Chiamavano al deserto: ché l’irsuto

Guardiano, se infuria la bufera,

Più bada e pensa al suo verro sperduto,

 

Che non ai re. D’un tratto un’ombra nera

Scorge Melchiorre: un piccolo servetto

Pastore vede, in pelli e in ventrïera,

 

Un aquilastro, con un suo branchetto

Smunto, a un ridosso per la tramontana.

Dolce gli parla: — O bel sardignoletto,

 

Salute! Odi, fa opera cristiana:

Noi siamo forestieri e abbiam smarrita

La strada. Andiamo a Nuoro: è lontana

 

Nuoro? — Eh! fa lui, una bestia spedita

Vi giunge in un’oretta, ma un pedone

Ne impiega quattro, ché è tutta salita.

 

Ma voi chi siete? Da quale regione

Venite? Forse siete proprietari

In cerca di bestiame o di pascione?

 

E codesti animali straordinari

Che diavolo sono? — Son cammelli,

Questi a due gobbe, gli altri dromedari;

 

E noi siamo i tre re. Senza vascelli

Siam venuti dai regni d’oltremare,

A recare speranze e sogni belli.

 

Ora si va a Nuoro. Ci vuoi fare

La strada fino a Nuoro? Su, ride

Già l’astro, e abbiamo a cuore d’arrivare. —

 

Sì, la stella lucea su Puntafide,

Grande e chiara. La vede ed a cavallo

Baldo salta il fanciullo, il falconide,

 

E va coi re. All’alba, il nudo vallo

Tutto è desto; le mandre per gli ovili

Bianche vagan tra’ sondri di corallo.

 

Il bimbo trotta e ciarla: — Oh voi, fucili

Non ne avete… Mio padre n’avea uno

Lungo, di canne sottili sottili.

 

Mio padre? L’han sgozzato presso al pruno

Del limite: arava in Punta Fumosa

Arava: non facea male a nessuno!

 

Io son servo. Mia madre Graziarosa

È sola in casa, sola, ora. — Ed al pio

Ricordo della madre dolorosa

 

Tacque. Poi borbottò in quel natìo

Suo modo un canto che sembrava il pianto

Di un affanno che non conosce oblìo.

 

Ma ecco Nuoro: ecco il camposanto,

La tanca della morte, e la chiesetta

Sola: la Solitudine, e d’accanto

 

L’abituro di Lino, con l’erbetta

Argentea innanzi: e in fondo della via

Il dazïere nella sua garetta.

 

Nuoro squillava all’epifanìa.

— Eccovi giunti, disse l’aquilastro,

Io torno, e voi andate con Maria. —

 

— E tu con Dio, risposero, e che l’astro

Nostro ti segua, e dovunque tu vada

Ti si muti in olivo l’olivastro.

 

Però, prima, hai da sceglier ciò che aggrada

Di più a te, tra’ bei donuzzi ch’oggi

Noi portiamo ai bebè d’ogni contrada. —

 

E le oprate bisaccie a fiori roggi

Versâr tanti giocattoli, che il brullo

Piccolo spiazzo se ne empiva a moggi.

 

Ma l’aquilastro non trovò un trastullo

Alla sua pena: sempre ha fitto in core

Suo padre ucciso; il misero fanciullo.

 

Ah no! Tra quei balocchi, al suo dolore

Ride, disperso fuori dalla fida

Guaina, un bel pugnale a passacore.

 

Lo ghermisce, ché l’odio fratricida

Del suo perverso seme nel rubesto

Cuor ratto gli divampa, ed: — Ecco, grida,

 

Ecco il trastullo mio: datemi questo!




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