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Sebastiano Satta Canti IntraText CT - Lettura del testo |
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LA SPIA
— Giù dall’antro di Lino la bufera Si sferra, disse il vecchio, con lo sguardo Segnando il nembo. Entrammo: la capanna Tra i selvatici olivi come un nido, Tremava al vento. Un pargolo assonnava Cullato da una strana ninnananna. Accucciata dappresso era la madre, Bruna scarna: una schiava!
Oggi né mai Avrà pace la spia, Lino la spia, Disse il vecchio. Ché a lui per poco infame Prezzo, piacque tradir gli ospiti suoi. Eran banditi, e Dio spinse quei mesti Alla casa di Lino. Il vino e il pane Agli ospiti egli porse, poi nel sonno Li uccise: il sonno uccise!
Ahi! da quel giorno La sua casa ruinò. Sonava intorno D’opre e di canti la tranquilla casa. Tolto dai bugni candidi, nei ziri Chiariva il miele, e dentro saldi tini Di castagno fervea, gioja dei prandi, Il vino. Or tutto se ne andò sul vento, Come la piuma degli uccelli. Morta Senza pur quella pace che ai più mesti Destini Dio non nega, è la sua sposa, Già florida e ridente come un mandorlo In fiore.
Solo, misero, percosso Or dall’odio di mille anime, Lino Va per la terra, va per gli sterpigni Campi, sui monti, nelle solitarie Valli, tremando, ché implacata sente Sui passi suoi la pesta d’altri passi, Non visti mai, che sempre mai lo seguono, E non lo giungon mai.
Se mendicando A le nostre capanne egli si affaccia, Ogni cor lo respinge. Un pane d’orzo E poco latte, fuor della capanna, A lui porge il pastore, e Lino siede In un canto, lontan dal focolare Che solo splende ai buoni. Indi solingo Dagli ovili si toglie, e va col vento Per le tanche randagio, né l’acuto Assiduo gelo della mortal febbre, Che le misere sue membra raggriccia, Scioglier potrian pur quelle che sul folto Ortobene, nereggian elci annose, Se ardesser tutte tutte in un sol rogo.
Ora lassù nell’antro suo, che al vento S’empie di voci, Lino ascolta il nembo Folgoreggiando dirupare al piano, E fra l’èmpito sente, e il rotolare Grave dei tuoni, fremer con la nostra L’ira di Dio. —
Così dall’aquilino Reo sguardo, balenando l’implacato Odio, il vecchio parlò.
Dal vasto piano Fra il gemito e lo scroscio delle quercie, Passionate dai flammei abbracciamenti Del fulmine, salìa vario il tumulto Degli armenti e dei greggi, e voci e sibili Dei mandriani, e dei torrenti il tuono.
Ruppe allor dalla mia anima il grido Su la procella. O rivi che, dai vertici Fulminati, correte alacri al mare: E negri uccelli, voi che dei divini Cieli siete i pensier torbidi: e voi Venti, che siete degli aperti cieli Il palpito e la voce, con voi lungi Rapite il seme onde germoglia l’odio Che il cor ci strugge, e dolce sopra l’anima Scenda un sogno di pace, qual, su torva Fronte, scende una pia mano materna. |
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