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Sebastiano Satta
Canti

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      • AI RAPSODI SARDI
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Ai rapsodi sardi

AI RAPSODI SARDI

 

O fratelli, rapsodi dalla chiara

Voce, dal cor soave più che il fiore

Della melissa, ai canti ed alla gara

Aneli, come indomiti morelli

All’invito del vento emulatore,

Là nel pianoro bianco di olivelli:

O poeti, se all’anime che adoro,

— Anime tristi ardenti nel silenzio

Come lampe — sonasse nel canoro

Accento dei miei padri la canzone

Della speranza mia, monda d’assenzio

E pura d’ogni fosca visïone,

Anch’io alla pensosa turba assorta

Tal inno innalzerei che alle parole

Alate, trionfante aquila al sole,

Si leverebbe l’anima risorta.

 

Ma fu negato a me questo celeste

Dono, d’un pietoso nume dono,

Molcer gli acerbi affanni e le funeste

Cure col canto. E amati e venerati

Siete perciò, fratelli, e senza trono

Né spada, siete re: ché allor che ai prati

Ritorna il nuovo april cinto di foglie

E prìmule, recando sogni e grate

Ombre ai pastori, all’erme vostre soglie

Batte con una rama d’asfodelo

Il sole e v’incorona, e l’umil vate

Fatto è re della terra e re del cielo.

E andate per l’antica isola, aedi

Erranti, a dispensare larghi il canto

Ad ogni cuore: al mietitore affranto

Tra le messi, e al pastore tra’ suoi redi.

 

O gioja in rimirarvi alti rapiti

Sulla festosa folla che vi abbraccia

Rinfiammandovi in cuor gli estri sopiti,

Col suo palpito immenso! Ecco, un’ebrezza

Visibile v’inebria: arde la faccia

Alla sùbita febbre, e la lietezza

Dell’anima trabocca in inni e in canti

Meravigliosi. Ed è come stillante

Favo la vostra bocca, dei fragranti

Favi il più colmo e ambrosio: e il vostro cuore

È un montanello sulla onduleggiante

Vetta del pioppo, quando il giorno muore,

E ridon d’oro i colli e vien la sera

Silenzïosa, e dalla rosea rama

Immoto pia pia e canta e chiama

Tutte le melodie di primavera.

 

Oh gioja udirvi allora, quando piena

Vi sale l’onda delle rime al labbro

Grazïoso! Da quale ignota vena

Tanta dolcezza? Il mesto che vi ascolta

Si rallegra: gli par che un ventilabro

D’oro nel cuor gli ventoli una folta

Messe di speme incognita. E va lento

Per piane verdi d’orzi, alla sua tanca

Vermiglia e azzurra sospirante al vento.

Ambia col grave ritmo delle ottave,

In sogno sulla sua cavalla bianca

Stellata, in groppa avvinta la soave

Compagna. Monte Spada ecco dimoia:

Acque d’argento scendon con serene

Rime: il mesto indugia e affanni e pene

Dimentica, e si abbevera di gioja.

 

Ché la vostra camena è una fanciulla

Bellissima che vien dalla fontana

Balda e dolce, la rossa anfora sulla

Sua testa d’aquiletta: il cuor le vola

Lieto innanzi, la bella filograna

Tinnisce il riso dell’aperta gola.

Il pellegrino stanco chiede un sorso

Per la sua sete, inclina ella la brocca

Ròscida, e quegli beve e il cammin corso

Oblìa e benedice. Ella sorride

E lontanando, dalla rosea bocca

Versa motti d’amore. Tal ne arride

La vostra musa ingenua, a cui l’antico

Idïoma del forte Logudoro

Cinge doppia corona: una d’alloro,

L’altra di rose e d’olivastro aprico.

 

O sacro idioma, nato tra nuraghi

E tombe e selve in cuore alla pianura,

Lieta di messi d’opre e branchi vaghi:

Maschio eloquio fiorito perché i padri

Ti parlassero gravi sull’altura

Quali profeti, puro a che le madri

Ninniassero i figli, o uccisi o morti

Li piangessero: accento alto d’impero

Sul labbro a Leonora: urlo di forti

Schiuso in un inno dal deserto grembo,

Madre, minace tuo, inno del nero

Tuo cuor, Sardegna, quando il breve nembo

Folgorò su’ tuoi sonni. Oh bel picchiare

All’alba, di quel verso che ruggì,

Martellando i battenti, «Cando si

Tenet bentu est prezisu bentulare».

 

Gloria, fratelli, al fabbro di quell’inno

Che per nere capanne e spersi ovili

Cercò i cuori, e col suo fiero tintinno

Li trasse verso il sole a le vendette.

Oh! i cavalier di soga e i bianchi e vili

Lacchè, incontro ai menghi e alle berrette!

E gloria ai padri aedi, gloria al sacro

Coro che dal Limbara al mare azzurro

Di Spartivento, insino al solco macro

Di Aritzo, per l’intera taciturna

Isola, sospirò come un sussurro

Di primavera sulle fosse. E un’urna

Di miele versò sulla tristezza

Dell’uomo. Quando Luca, in aspre selve,

Ai banditi cantava, quelle belve

Si scioglievano in pianti di dolcezza.

 

Voi siete buoni come si conviene

All’uomo amico delle muse, e i giorni

Trascorrete nell’opere serene

Del monte e della valle. Tu profondi

Il solco tuo diritto, e i canti adorni

Ti aleggiano d’intorno come ai biondi

Frumenti, stormi garruli. Tu il branco

Guidi, pastore aedo, alle sorgenti

Benignamente: la verga di bianco

Tamarisco è il tuo scettro, poiché sdegni

Il rissoso bastone, e nei lucenti

Silenzi della notte — quando i segni

Del ciel ridon più belli, e il cor che sa

Ode sperse armonie — l’anima carca

D’innocenza, tu incedi, patrïarca

D’antico tempo nella nostra età.

 

Tu nella rosea nitida pietraia

Batti sui ferrei cogni col mazzuolo,

In pugna col granito. La giogaia

Ti avvolge col suo anelito e con grandi

Velari d’ombra, e in quel silenzio, solo,

Con la tua mazza nella selce scandi

Picchi tìnnuli, sì che un’armonia

Pare anch’esso quel tuo rude lavoro.

Ma negli ozi leggiadri in solatìa

Piazza, o in ampio cortil, la gara arguta

Adùnavi. Dinanzi vi sta il coro

E l’ansia turba: chini sull’irsuta

Criniera dei cavalli, i mandriani

Odon, e voi cantate. Il canto è fede:

E l’anima selvaggia ora vi chiede

Se debba amare od odiar domani.

 

Ammonitela voi, coi vostri carmi,

O fratelli! Cantatele dei padri

Che contro Roma caddero con l’armi

In pugno: celebrate la perversa

Virtù dei vinti, cui scovò dagli adri

Covili di Belvì, la rabbia avversa

Dei mastini famelici: dei vinti

Che nei fôri dell’Urbe, presso i templi

Marmorei, di ferrei ceppi avvinti,

Parevan di sì mala domatura

Che nessun li comprava, sì dagli empi

Cuor la vendetta tralucea sicura.

Glorificate l’odio secolare,

L’amore eterno, avvalorate i cuori.

O poeti, cantate gli splendori

Della Sardegna libera sul mare.

 

Madre fatale e bella a tutti ignota

Anche ai tuoi figli, chi ti adorerà

Com’io t’adoro! Agli strani remota

Io ti vorrei: sinistra sanguinosa

Coi tuoi banditi, con le tue città

Morte, ingioconda atroce febbricosa,

Ma tutta sola e oprante e senza pianti.

Io ti vedrei mandriana ai dolci maggi

Salire, coronata di ronzanti

Pecchie, il tuo monte acceso dall’aurora,

Dietro i branchi, e passar sui bai selvaggi,

Prima nell’àrdia, ardita corridora.

Oh nei sereni monti in cime e in grotte,

Alte fiamme di pace, quando i cieli

S’imbrunan vasti, e dormon i fedeli

Armentari alla virginëa notte!

 

Io ti vedrei nel vespero di giugno,

Sugli aerosi miei colli sereni,

Bella e discinta con la falce in pugno,

Mieter cantando quell’ultima randa,

E spulare coi zeffiri tirreni

Il frumento sull’aja veneranda.

Spartiresti il tuo pane ai tuoi figlioli

Giustamente, ché lungo fonti chiari

E verdi vigne e sussurranti broli,

Gli elcini carri carichi di grano

Tu guideresti ai nostri limitari

Fioriti di giaggioli e zafferano.

E siederesti poi, madre, sul monte,

In cuor secura con la certa fionda

E la scure. Chi toccherà la fronda

Di quercia che ti ombreggerà la fronte?

 

Ma ti vedo raminga nella tanca

Sterpigna, lungo il lido, ad ascoltare

La gran voce del flutto che s’imbianca

Ululando: lì presso un branco bela

Melanconico, e tu guati il tuo mare

Deserto. Dimmi, quale amica vela

Navigò a te dalle felici prode,

Recando una speranza alla tua pena,

Un nettareo nepente al tuo cuor prode,

Una facella d’oro a questa nera

Tua notte, o taciturna? Il ciel balena

Tacito e cala tacita la sera

Obliosa. — Da qual vermiglia vetta

Ti vestirà l’aurora di splendore?

Tu l’aspetti nell’ombra, ed hai nel core

Sogni di gioja e sogni di vendetta.

Eppur, fratelli, io m’inebriai di questa

Triste patria che sta sola sul mare,

E nutre come l’aquila rubesta,

I figlioli di sangue. Ed il mio cuore

Risorto palpitò d’una solare

Letizia nel suo seno, e il mio dolore

Si tramutò in un sogno di speranza.

L’anima si confuse nella luce

Sulla montagna, e seppe la fragranza

Dei fiori agresti nati sulle tombe

Dei primitivi, e nella selva truce

Degli orgolesi apprese, tra le rombe

Del ponente, l’urrà del sanguinario

Pallido e triste come un sire, e in Monte

Rasu, sentì sull’erba e sul bel fonte,

Sotto l’elce e il ginepro solitario,

 

Sparsa la santità di San Francesco.

E venerò nei boschi d’oleastri

Un dio pellita, e navigò nel fresco

Mattino, dalla rada umile, bianca

Di greggi, alla Caprera cinta d’astri

E d’inni; e là dove più chiara e franca

Risuona l’onda sull’azzurro abisso,

La scogliera mirò donde le sarde

Donne traeano il prezioso bisso

Per vestire l’Eroe. E nel tepente

Vernal meriggio — oh come dolce m’arde

Quel ricordo! — solcò, tra la clemente

Selva di glauchi ulivi, l’armoniosa

Onda del Temo: su, tuona la caccia,

E giù, ai battelli le flessuose braccia

Protendono i rosai con una rosa.

 

E sognò lungo una deserta riva

Fra due rovine: il mare infaticabile

Abbracciava la terra che gli offriva

I suoi gigli languenti, e sole e cielo

Folgoravano flammei un immutabile

Riso alla terra e al mare. Là, tra i veli

Del Tirso, la città degli Arborensi

Dormìa: bella per sue case tacenti

Quali sepolcri, tra profondi incensi

D’orti, lungo silenziose vie

Cinte di palme: mesta di piangenti

Campane: soavissima per pie

Rosee mattine, in vago chiuso aulente

Di viole e di mandorli: solenne

E sacra per il tempio che contenne,

In faccia al mare, il dio di nostra gente.

 

Così sognò e sperò, sardi rapsòdi,

Il mio cuor rude chiuso sopra l’atro

Sen della madre mia: pur le melodi

Ignorò del mistero ond’ella è sacra.

O fratelli, vorrei esser l’aratro

Che morde il seno della tanca e l’acra

Viscera della rupe, a penetrare

Tutta l’ombra e le desolazioni

Che l’ammantano eterne. O focolare

Di porfido spazzato dalla morte,

Sepolcri di giganti, alti burroni

Degli aspri monti, dove alle risorte

Primavere, fremono chiomati

Teschi di mandriani e di banditi:

Sparsi nuraghi, e voi, santi graniti

Del limite, temuti e venerati,

 

È in voi questo mistero? O ne’ villaggi

Sepolti nelle valli come in bare?

O nei debbi notturni e nei selvaggi

Valichi, ove urge le spaurite torme

La bardana dal tacito calzare?

Non io lo so: ben so che questa enorme

Tristezza è sovrumana e ch’è divino

Questo silenzio, e che mia madre è dea!

Sia gloria a lei dal mare al cilestrino

Cerchio dei monti. O candidi fratelli,

Cinti di gioja, se alcun’ombra rea

Mai v’aduggi — ché ai nostri cuor rubelli

Voi siete come agli orti l’usignolo,

Ed all’arso oliveto la cicala,

Voci di gioja — in cuor temprate l’ala,

A un canto che convien sia forte al volo.

 

La mia terra cantate. E chi la gara

Vinca, si avrà in premio un bel poledro

Che Osilo domò, Osilo chiara

Altrice e domatrice di cavalli.

E in premio pur si avrà una di cedro

Cavezza adorna, e una di fior gialli

Ben oprata bisaccia, valorosi

Incliti doni. Ma più prezioso

Dono è il serto fiorito nei muscosi

Dirupi d’Ortobene; al vincitore

Fanciulla l’offrirà per radioso

Occhio insigne, nel pallido languore

Dell’amplesso divina. Ella, sul monte,

In vista all’Oleastra e alla Gallura,

Oh gloria! Cingerà con l’elce pura

Al vincitore la superba fronte.




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