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Sebastiano Satta
Canti

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  • CANTI BARBARICINI
    • Leggende pastorali
      • I TRE RE
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I TRE RE

A Clinio Quaranta

 

Fratello, un sasso, senza voci e serto

Di fonti, è sotto cielo algido e greve

Montalbo; e anch’essa sua sorella Neve

Lo sdegna, tanto pare aspro e diserto.

Dalle sue vene lucide di schisto

Qualche erba rada e poco cisto s’apre:

Tristi pastori spargono le capre

A pascer di quell’erba e di quel cisto.

 

Or una volta per i greppi impervi

Di questo monte c’eran tre pastori,

Tre fanciulli che avevan degli astori

Gli artiglietti e le brame, ed eran servi.

E un giorno — eran le capre per la frasca

Sul vertice — siedevan presso un botro

Senza più pane, ed era come un otro

Esausto e secco la lor vecchia tasca.

 

Ed uno sospirava: – Oh le lontane

Sere di maggio quando io pasco l’orzo,

Ch’è nelle spighe tenero, e poi smorzo

La mia piccola sete alle fontane! —

E l’altro sospirava: — Oh fosse giugno,

A smelar miele agreste, il miele nostro:

L’elce lo geme, simile a colostro,

Ogni ferula ronza come un bugno! —

 

E il terzo: — Oh andare, andare, a passi tardi,

Da tanca a tanca fino a Dïortoro,

E coglier l’erbe buone e i cardi d’oro

E mangiar di quell’erbe e di quei cardi! —

Ahi! la fame trebbiava come pula

Le lor voglie. Era il vespro di Natale;

Svariava oltre i lentischi, nel brumale

Fumar dei tetti, solitaria Lula.

 

— O fratres, disse e rise il più grandino

Dei fanciulli, io lo vedo e non lo vedo:

Ma in ogni focolare c’è lo spiedo

Oggi, e le olive col finocchio e il vino.

Ma noi siam sbrici, o cuoricin mio bello.

Lo spiedo, sì, ce lo può dare un’elce:

La fiamma, sì, ce la può dar la selce:

Ma chi, fratelli, ci darà l’agnello?

 

Ah l’agnello! Lo avremo nell’artiglio

Noi pure il nostro agnello, o fratellini.

Io so un branco d’agnelli trimestrini:

Uno stupore: bianchi come il giglio.

E li governa un vecchio di cent’anni

Che ci ha l’ovile dentro una spelonca;

Quando esce con la fune e con la ronca

Taglia le rame e si compone i manni;

 

Poi li raccatta, geme e si rimbuca:

Conta i mastelli e guarda la cannizza,

Rivoltola le forme, e riattizza

Il fuoco, e giace nella sua mastruca.

E il suo stramazzo sono sette agnelle,

E due montoni sono i capezzali.

Il vecchio, senza beni e senza mali,

Dormiglia e sogna pascoli e fiscelle.

 

Ma c’è il mastino a scompigliar la tana;

E alla spiga granita c’è la golpe;

A pollaio che canta va la volpe;

E a pastore che dorme la bardana.

Facciamo la bardana! Il mandrïale

È stanco, e dorme sodo, o miei fratelli.

Corriam sul vecchio, gli rubiam gli agnelli

E facciamo l’arrosto di Natale! —

 

Si mossero: e li vide San Francesco

Dalla sua casa e non gli disse nulla.

Il vento galoppava per la brulla

Landa, col suo sonaglio gigantesco.

Venivan dagli sparsi ovili i fischi

Dei pastori lontani ed il gannire

Dei cani. Tetro spasimava alle ire

Della bufera il salto dei lentischi.

 

Poi nell’ombra uno strido ultimo: il nibbio.

E sulle tanche il palpitar di un velo

Tenue pallido gelido, e dal cielo,

Da tutti i cieli, turbinò il sinibbio.

Il sinibbio… la neve giù dai monti

Al pianoro, da Corte a monte Spada;

La neve che asserraglia la contrada

Ai cavallari, e lega rivi e fonti.

 

La neve che sommessa dice ai cani

Di non rignare: l’inimico spettro

Dei branchi, che con sue dita di vetro

Scioglie alle morte pecore i campani:

La neve che con sue lame argentine

Taglia le carni, e coi suoi baci beve

Il pianto amaro; il turbine, la neve

Con tutte le sue sferze e le sue spine.

 

La neve muta e cieca, o cuor di mamma!

Ah! un palmino di terra quanto basta

Per riporvi la paglia ch’è rimasta

In una greppia, e riveder la fiamma!

Mamma del cielo! —

Ed ecco alla randagia

Covata si offrì un’elce con sua veste

Di lutto eterno, come quelle meste

Vedove donne tue, sacra Barbagia.

 

E l’elce li raccolse con dolcezza

Di madre, nel suo pio grembo ospitale.

I tre cuori, dimentichi del male,

Sentiron rifiorir la fanciullezza.

Tremò nell’ombra un lumicino d’oro…

La stella… E nel silenzio delle valli

Squillò un vario nitrito di cavalli,

Un ambiar gaio, un fremito sonoro.

 

E non erano, Aritzo, i tuoi ben conti

Mercantuzzi, e non erano i tuoi rossi

Ronzini, scesi dai tuoi boschi mossi

Dal rifòlo, o Regina delle fonti.

Ma Gaspero, Melchior e Baldassare:

Erano i re d’Arabia, i tre re magi,

Cavalcavan per piani e per ambagi;

Avean passato il Logudoro e il mare.

 

E portavan bisacce con dovizie

Di balsami e di mirra e d’oro e gemme.

Andavano coi servi a Betelemme;

E i servi aveano i cibi e le primizie.

E videro i fanciulli, che nel sogno

Dormivan buoni, dolcemente avvinti:

I capelli sembravano giacinti,

E il molle volto un fiore di cotogno.

 

Sostarono i re buoni; e con un manto

Di broccato, coprirono i fanciulli;

Nelle lor mani posero trastulli

D’oro, e un balsamo ad addolcirne il pianto;

E accanto a loro posero un agnello,

E i bianchi pani e delizioso vino.

Così, fuori del male, il lor festino

Si ebbero anch’essi, i miseri, o fratello!




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