VI
Confesseremo sinceramente
che la gelosia del canonico Borda non era del tutto ingiustificata. Tornato di
Francia, Fabrizio apparve agli occhi della contessa Pietranera come un bel
forestiero conosciuto da lei in altri tempi. S'egli le avesse parlato d'amore,
l'avrebbe amato: non aveva già per la sua condotta e per la sua persona
un'ammirazione appassionata e per cosí dir senza limiti? Ma Fabrizio la baciava
con tanta effusione d'innocente riconoscenza e di cordiale amicizia che ella
avrebbe sentito orrore di se stessa, se avesse cercato un altro sentimento in
quell'affetto quasi filiale. «In fondo, — pensava la contessa — gli amici che
mi han conosciuta sei anni fa alla Corte del principe Eugenio posson trovarmi
ancora carina, e financo giovine, ma per lui io son già una donna
rispettabile... e se s'ha da dir la verità senza troppi riguardi all'amor
proprio, una donna attempata. (La contessa, cosí argomentando circa la propria
età, sbagliava, s'illudeva anche lei; ma l'illusione non era di quelle in cui
si lusinga il comune delle donne.) E poi — seguitava a dir tra sé e sé —
all'età di Fabrizio si è portati a esagerare un po' i guasti prodotti dagli
anni. Un uomo meno giovine...»
Passeggiava nel suo
salotto; si fermò un momento davanti uno specchio e sorrise. Bisogna sapere che
da alcuni mesi al cuore della signora Pietranera aveva posto l'assedio con
molta serietà di propositi un singolare personaggio. Poco dopo la partenza di
Fabrizio per la Francia, ella, che pur senza confessarselo cominciava già a
darsi molta cura di lui, era caduta in una profonda malinconia: non prendeva
piú piacere a nulla, le pareva che qualunque cosa facesse, tutto fosse, se cosí
può dirsi, scipito: fantasticava che Napoleone, per attrarre a sé l'animo
degl'Italiani, avrebbe preso Fabrizio per suo aiutante di campo. «È perduto per
me! — esclamava piangendo — non lo vedrò più: potrà scrivermi, ma che sarò io
per lui fra dieci anni?»
In questo stato d'animo
fece una gita a Milano; sperava di aver notizie piú dirette di Napoleone; e chi
sa? forse al tempo stesso di Fabrizio. Non avrebbe voluto confessarlo neppure a
se stessa; ma con quella sua vivacità di spirito cominciava a sentirsi stanca
della vita monotona che conduceva in campagna: questo non è vivere, diceva, è
cercare di non morire! Vedere tutti i giorni quelle grinte incipriate, il
fratello Ascanio, i camerieri! Che diventavano, senza Fabrizio, le passeggiate
sul lago? Unico conforto, le restava l'affetto per la marchesa; ma da qualche
tempo la stessa intimità con la madre di Fabrizio, maggiore di lei in età,
delusa ormai da ogni speranza, le riusciva meno gradevole.
Tale era il singolare
stato d'animo della signora Pietranera: partito Fabrizio, assai poco l'avvenire
le prometteva e il suo cuore aveva bisogno di conforti e di novità. A Milano
s'appassionò per l'opera in voga: andava tutte le sere a chiudersi sola, per
lunghe ore, nel palco del generale Scotti, un tempo innanzi suo intimo amico.
Gli uomini che cercava vedere per aver notizie di Napoleone e dell'esercito, le
parevan grossolani e volgari. Tornata a casa, improvvisava al pianoforte fin
verso le tre dopo mezzanotte. Una sera alla Scala, nel palco di un'amica
dov'era andata a chieder notizie, le presentarono il conte Mosca, ministro di
Parma: un simpatico uomo che parlò di Napoleone e della Francia in modo da
darle nuove ragioni di speranze e di timori. La sera dopo tornò in quel palco
dove anche il simpatico uomo tornò; ed ella, durante tutto lo spettacolo, prese
molto piacere a conversare con lui. Dalla partenza di Fabrizio in poi, non
aveva passato una serata cosí divertente. Il signore che la divertiva, conte
Mosca della Rovere Sorezana, era allora ministro della guerra, della polizia e
delle finanze del famoso principe di Parma, Ernesto IV, notissimo pe' suoi
rigori che i liberali milanesi chiamavan crudeltà. Il Mosca era sui quaranta o
quarantacinque anni, aveva tratto da gran signore, nessun sussiego, anzi un
fare semplice e gaio che disponeva in suo favore. Sarebbe apparso all'aspetto
assai piú giovane se una bizzarria del suo sovrano non l'avesse obbligato a
portar la testa incipriata, come guarentigia di retti sentimenti politici. In
Italia, dove non si bada piú che tanto a offender la vanità, si fa presto a
pigliar confidenza e a mettere il becco ne' fatti altrui. Correttivo di
quest'usanza è che se nasce un permale non ci si riparla più, e tutti pari.
La terza volta che la
contessa vide il Mosca gli domandò:
— Perché mai, conte, si
incipria? un uomo come lei, giovine ancora, simpaticissimo, e che ha fatto con
noi la guerra in Ispagna!
— Ecco, le dirò: in
Ispagna non rubai nulla, e vivere bisogna. La gloria mi inebriava, una parola
lusinghiera del generale Gouvion-Saint-Cyr, che ci comandava, era a quei giorni
tutto per me. Alla caduta di Napoleone, potei certificare che intanto ch'io
mangiavo tutto il mio al suo servizio, mio padre, uomo di molta immaginativa,
che mi vedeva già generale, mi fabbricava a Parma un palazzo. Nel '13 tutta la
mia fortuna si riduceva a un gran palazzo non finito e a una pensione....
— Una pensione? tremila e
cinquecento franchi, come mio marito?
— Il conte Pietranera era
generale di divisione: la pensione mia di povero capo-squadrone non ha mai
superato gli ottocento franchi; e notiamo che non mi riuscí di riscuoterla se
non quando divenni ministro delle finanze!
Poiché nel palco non c'era
altri che la proprietaria, dama d'opinioni liberali, la conversazione continuò
con la stessa libertà. Il conte, interrogato, parlò della sua vita a Parma:
— In Ispagna, sotto
Saint-Cyr, sfidavo schioppettate per guadagnarmi la legion d'onore e poi un po'
di nomèa: ora mi vesto come un personaggio da commedia per viver da gran
signore e metter qualche migliaio di franchi da parte. Una volta cacciatemi in
questa specie di giuoco di scacchi, irritato dalla insolenza dei superiori, ho
voluto occupare uno dei primi posti; e ci sono arrivato. Ma i miei giorni
migliori son sempre quelli che di quando in quando posso trascorrere qui a
Milano: qui palpita ancora, mi pare, il cuore del vostro esercito d'Italia.
La franchezza, la disinvoltura
con cui parlava questo ministro d'un principe cosí temuto, punse la curiosità
della contessa: stando al titolo, s'era immaginata di trovare un pedante pieno
di sicumera e vedeva invece un uomo che si vergognava della gravità del proprio
ufficio. Mosca le promise di parteciparle tutte le notizie di Francia che
avrebbe potuto raccogliere: grande indiscrezione a Milano, nel mese che precede
Waterloo, quando per l'Italia si trattava d'essere o non essere, e tutti
vivevano in uno stato febbrile di speranza o di paura. Fra questo general
turbamento, la contessa volle informarsi sul conto d'un uomo il quale parlava
cosí alla svelta di un ufficio tanto invidiato, che pur era la sua sola
fortuna.
Le furon riferite
curiosissime cose. Il conte Mosca delle Rovere Sorezana, le dissero, è in
procinto di diventar primo ministro favorito di Ranuccio Ernesto IV, signore
assoluto di Parma e per giunta uno dei piú ricchi principi d'Europa. Il conte
sarebbe già arrivato a questo ufficio supremo, sol che avesse voluto prendere
atteggiamenti piú confacenti al suo grado come il principe piú volte, con
opportuni predicozzi, gli vien raccomandando:
— Che importa a Vostra
Altezza il mio modo di fare, — rispose egli una volta liberamente — se regolo
bene le sue faccende?
La fortuna di questo
favorito, dicevano inoltre, non è senza fastidi. Ha da piacere a un sovrano di
buon senso e intelligente senza dubbio, ma che da quando è salito al trono pare
abbia perduto la testa e si mostra qualche volta sospettoso come una femminuccia.
Ernesto IV non è
coraggioso che in guerra: sui campi di battaglia venti volte fu veduto condurre
da prode una colonna all'assalto: ma dopo la morte di suo padre Ernesto III,
tornato nel proprio ducato, dove disgraziatamente ha un potere senza limiti, s'è
messo a declamare come un pazzo contro i liberali e la libertà. Poi s'è
figurato che l'odiassero; e finalmente in un accesso di malumore ha fatto
impiccar due liberali, probabilmente innocenti, cedendo alle istigazioni d'un
miserabile, certo Rassi, specie di ministro della giustizia.
Da quel giorno fatale la
vita del principe è tutt'altra: ora egli è tormentato dai piú bizzarri
sospetti. Non ha ancora cinquant'anni, e la paura l'ha cosí mal ridotto che
appena capita a parlare di giacobini e dei propositi del Comitato di Parigi,
prende una fisionomia da vecchio d'ottanta e ricade in terrori chimerici da
bambino. Tutta l'autorità del suo favorito Rassi, avvocato fiscale generale (o
gran giudice), non ha altro fondamento che la paura del principe: appena s'accorge
che il potere sta per sfuggirgli, s'affretta a scoprire qualche congiura nuova
delle piú nere e fantastiche. Trenta imprudenti si riuniscono per leggere un
numero del Constitutionnel, e Rassi li dichiara cospiratori e li caccia in
prigione nella famosa cittadella di Parma, terrore di tutta la Lombardia. Molto elevata — dicono centottanta piedi — e in mezzo a quella estesa pianura; si
scorge assai da lontano un po' per il suo aspetto orrendo, un po' per le cose
orribili che se ne raccontano, e signoreggia, con lo spavento, tutto il
territorio da Milano a Bologna.
— Lo credereste? — diceva
alla contessa un altro viaggiatore — la notte, nella sua camera al terzo piano
del palazzo vigilato da ottanta sentinelle che ogni quarto d'ora ripeton l’all'erta e rispondono, Ernesto IV trema dalla
paura. Con tutte le porte chiuse a dieci chiavistelli, con le stanze vicine
tanto nel piano di sopra che in quel di sotto zeppe di soldati, ha paura dei
giacobini. Se una tavola del pavimento cigola afferra le pistole e si figura
che sotto il letto ci sia un liberale nascosto. Squillano tutti i campanelli
del palazzo, e un aiutante di campo corre a svegliare il conte Mosca. E il
ministro della polizia arrivato a palazzo non si sogna neppure di negar la
congiura: anzi! Solo col principe, armato fino ai denti, fruga in tutti gli
angoli dell'appartamento, guarda sotto i letti, si lascia andare a una quantità
di ridicolaggini da donnicciuole. Queste precauzioni sarebbero parse indegne al
principe stesso, ai tempi fortunati nei quali faceva la guerra e non aveva
ancora ammazzato nessuno se non a schioppettate: e siccome è un uomo
intelligente, ne arrossisce; gli paion ridicole anche nell'ora stessa che non
sa farne a meno; e la ragione del credito grandissimo di cui gode il conte Mosca
sta in ciò ch'egli adopera tutto il suo accorgimento nel far sí che il principe
non abbia mai ad arrossire davanti a lui. È lui, il Mosca, quegli che, in
qualità di ministro della polizia, insiste per guardar sotto i mobili, e,
dicono a Parma, fin nelle custodie de' contrabbassi; ed è il principe quegli
che vi si oppone e canzona il ministro per quell'eccesso di zelo. — Ma questa è
una sfida; — risponde il Mosca — pensi, Vostra Altezza, alle satire dei
giacobini se noi la lasciassimo assassinare. Non difendiamo soltanto la vostra
vita, ma anche il nostro onore. — Pare tuttavia che il principe si lasci gabbar
fino a un certo punto, perché se qualcuno in Parma s'arrischia a dire che
quella notte a palazzo non hanno dormito, il Rassi manda il bell'umore in
cittadella. E una volta arrivati a quell'alta dimora «all'aria buona», come
dicono, ci vuole un miracolo perché qualcuno si ricordi di chi ci sta. Da
vecchio soldato, che in Ispagna venti volte si difese con le pistole alla mano,
fra ogni sorta d'imboscate, il principe preferisce il conte Mosca al Rassi che
è assai piú pieghevole e piú servile. Quei disgraziati prigionieri della
cittadella stanno nella piú rigorosa segregazione e sulle loro condizioni se ne
raccontano d'ogni specie. I liberali accusano a Rassi d'essere l'inventore di
questo trucco: carcerieri e confessori hanno ordine di far credere ai
prigionieri che, ogni mese o press'a poco, un di loro è messo a morte. E in un
dato giorno i prigionieri sono fatti salire sulla terrazza della gran torre alta
centottanta piedi donde infatti scorgono un corteo che segue una spia la quale
rappresenta la parte di un condannato che vada al patibolo.
Questi racconti e altri
venti della medesima autenticità interessarono vivamente la contessa
Pietranera, e il giorno dipoi essa chiese intorno a tali fatti qualche
ragguaglio al conte, canzonandolo argutamente; e dimostrandogli che, in fondo e
senza accorgersene, egli era un vero mostro.
Un giorno, nel tornarsene
all'albergo, il conte pensava: «Non solo questa Pietranera è una donna
attraente; ma quando io passo la serata nel suo palco, riesco a dimenticar
certe cose di Parma, che quando le ricordo mi pungono il cuore». Quel ministro,
a malgrado della sua apparente leggerezza e del suo brio, non aveva un'anima
«alla francese»: non sapeva «dimenticare» le proprie afflizioni. Quando il suo
capezzale conteneva una spina, egli doveva a ogni modo romperla o consumarla a
forza di configgervi le sue membra «palpitanti». Domando scusa per questa frase
tradotta dall'italiano. Il giorno che seguí la sua scoperta il conte trovò che
non ostante gli affari che lo trattenevano a Milano, il tempo non passava mai:
non poteva star fermo in nessun luogo e staccò i cavalli della sua carrozza.
Verso le otto montò a cavallo per andar sul Corso: aveva qualche speranza
d'incontrarvi la Pietranera; non avendola vista, si ricordò che alle otto la Scala s'apriva: e v'entrò, ma nell'immensa platea non c'eran dieci persone. Si vergognò quasi
quasi di trovarvisi. «Possibile che a quarantacinque anni sonati io faccia
sciocchezze delle quali arrossirebbe un tenentino? Fortunatamente nessuno le
sospetta» Scappò e tentò d'ammazzare il tempo passeggiando per le belle vie che
circondano il teatro: vie piene di caffè a quell'ora affollatissimi, davanti a ciascuno
dei quali una folla di curiosi seduti su seggiole messe in mezzo alla strada
prendono il gelato e criticano la gente che passa. Il conte non poteva rimanere
inosservato; infatti ebbe il piacere d'esser riconosciuto e avvicinato. Tre o
quattro importuni, di quelli che non si possono levar d'attorno alla spiccia,
colsero l'occasione per avere un'udienza dal ministro onnipotente: due gli
consegnaron delle petizioni, un terzo si contentò di dargli molto diffusi
consigli per la sua condotta politica.
«Chi è cosí intelligente,
— disse il Mosca fra sé — non può a quest'ora andare a letto: chi è cosí
potente non deve passeggiare a quest'ora.» Tornò al teatro, e gli venne l'idea
di prendersi un palco di terza fila: di lassù, lo sguardo suo avrebbe potuto
tuffarsi, senza che nessuno se ne accorgesse, nel palco di seconda, dove
sperava veder giungere la contessa. Due ore di attesa non parvero lunghissime a
questo innamorato: sicuro di non esser visto s'abbandonava allegramente alla
sua pazzia. «La vecchiaia — pensava — non consiste soprattutto nel non esser
piú capace di queste ragazzate deliziose?»
Finalmente la contessa
comparve. Egli l'esaminava entusiasta: «Giovine, leggera, gaia, vivace come un
uccellino, non ha venticinque anni. E la bellezza è ancora la sua minore
attrattiva: dove trovare un'anima cosí sincera, che non sa che sia la prudenza,
che si abbandona tutta quanta all'impressione subitanea, che non chiede se non
di esser trascinata dalla novità? Ora capisco perfettamente le pazzie del conte
Nani».
Il conte trovò buonissime
ragioni per iscusar la propria follia fino a che pensò unicamente a conquistar
la felicità che gli stava sotto gli occhi; non ne trovò più, quando prese a
considerar la propria età e le tristi cure che gli amareggiavan la vita. «Un uomo
avveduto, cui la paura fa perder la testa, mi circonda di magnificenze e mi da
denari assai perch'io sia suo ministro; ma se un giorno o l'altro gli piglia il
ticchio di licenziarmi, io resto vecchio e povero, ossia quel che ci può essere
al mondo di piú dispregiato: ecco proprio un leggiadro personaggio da offrire
alla contessa!» Questi pensieri eran troppo foschi e per cacciarli si rimise a
guardar la Pietranera: che di guardarla non si stancava, e per pensare piú
intensamente a lei, non andò nemmeno a trovarla nel palco. «Mi dicono che non
aveva preso il Nani se non per far dispetto a quell'imbecille del Limercati che
non volle saperne d'andar a dare un colpo di spada, o di far dare una pugnalata
all'assassino del marito! Per lei io mi batterei venti volte!» esclamò il conte
entusiasmato. E ogni tanto consultava l'orologio del teatro, il quale con cifre
scintillanti di luce sul fondo nero, ogni cinque minuti avverte gli spettatori
dell'ora in cui è lecito far visita in un palco d'amici. E pensava: «Nel suo
palco, io, conoscenza di fresca data, non posso restarci che una mezz'ora al
massimo; se mi trattengo di più, richiamo su di me l'attenzione e alla mia età,
con questi maledetti capelli incipriati, finisco a fare una figura ridicola».
Ma una riflessione lo decise a un tratto: «Se esce dal palco per andare a far
una visita, sarò proprio ben compensato della parsimonia con cui mi sto
risparmiando questo piacere». E si alzò per scendere nel palco della contessa:
ma poi, d'improvviso, non ne sentí quasi piú il desiderio.
«Oh, questa è bella! —
pensò ridendo di se stesso e fermandosi per la scala — è un vero accesso di
timidezza! Son piú di venticinque anni che non mi capita una cosa simile!»
Entrò nel palco, quasi
facendo forza a se stesso: e, approfittando da uomo intelligente della
condizione d'animo nella quale si trovava, non si studiò affatto di darsi
l'aria dell'uomo avvezzo o di far lo spiritoso mettendosi a raccontar qualche
piacevole aneddoto: ebbe il coraggio di esser timido e del suo spirito si valse
per lasciare scorgere il suo turbamento senza incappare nel ridicolo. «Se la
piglia male, — pensava — io son rovinato addirittura. Come? timido coi capelli
incipriati, e che sarebbero grigi anche senza l'aiuto della cipria! Ma insomma
il fatto è questo; e non può esser ridicolo che esagerandolo e facendone
pompa.» La contessa s'era tante volte seccata a Grianta, davanti alle teste
incipriate del fratello, del nipote e di qualche altro noioso «ben pensante»
dei dintorni, che non badò piú che tanto all'acconciatura del suo nuovo
adoratore.
Corazzata cosí contro la
risata che avrebbe potuto provocare l'ingresso del Mosca, la contessa prestò
attenzione soltanto alle notizie di Francia, molto particolareggiate, ch'egli
aveva da darle. Senza dubbio inventava un po'. Nel discuterne con lui, notò
quella sera il suo sguardo, ch'era bello e benigno.
— M'immagino — gli disse —
che a Parma, fra i vostri schiavi, non darete ai vostri occhi cotesta
espressione di dolcezza: sarebbe compromettente e lascerebbe loro qualche
speranza di non essere impiccati.
La contessa si
meravigliava che un uomo il quale era stimato il primo diplomatico dell'Italia,
fosse cosí scevro di gravità nell'aspetto: anzi, che quell'aspetto fosse non
senza grazia. E, poiché era parlatore squisito, non le dispiacque che per una
sera egli stimasse opportuno di restringersi nella parte di ascoltatore.
E fece cosí un gran passo
avanti. Fortunatamente per il ministro, che a Parma non sperimentò mai crudeltà
femminili, la contessa era arrivata a Milano da pochi giorni soltanto e l'animo
suo era tuttavia infastidito dall'uggia della dimora campagnola. Dello scherzo,
della giocondità di tutto ciò che è elemento necessario alle consuetudini di
una vita elegante e leggera, fra la noia di Grianta aveva smarrito persino
l'idea: ora tutto ciò ritrovava a Milano e le appariva come un delizioso dono
del cielo: tutto, perché nuovo, le piaceva: anche un innamorato di
quarantacinque anni e timido per soprassello. Otto giorni dopo la temerità del
conte sarebbe stata forse accolta diversamente.
Alla Scala chi va a far
visita in un palco non vi rimane, di solito, piú di una ventina di minuti. Il
conte nel palco dove aveva avuto la fortuna di trovar la signora Pietranera
passò tutta quanta la serata.
«Per questa donna — pensava
— io ritorno giovine e commetto le stesse sciocchezze che si commettono in
gioventù.»
Ma sentiva il pericolo.
«La mia qualità di pascià
onnipotente a quaranta leghe di distanza, basterà a farmela perdonare? Mi secco
tanto a Parma!» Ciò nonostante, ogni quarto d'ora faceva proponimento di
andarsene.
— Debbo confessare,
signora, — disse sorridendo alla contessa — che a Parma io muoio di noia; e mi
deve esser compatito d'inebriarmi di piacere quando mi avviene di trovarmi sul
suo cammino. Cosí, senza impegni e per una sera, mi permetta di recitare con
lei la parte dell'innamorato. Ahimè! fra pochi giorni sarò tanto lontano da
questo palco che mi fa scordar tutti i dolori, e perfino, dirà lei, tutte le
convenienze.
Otto giorni dopo questa
visita lunghissima nel palco della Scala e altri piccoli incidenti il cui
racconto parrebbe forse lungo del pari, il conte Mosca era innamorato pazzo, e
la contessa dal canto suo considerava che quando un uomo è simpatico e piace,
l'età non può fare impedimento. Questi pensieri le si volgevano nella mente,
quando dispacci da Parma vi richiamarono il Mosca: si sarebbe detto che il
principe aveva paura a star solo. La contessa tornò a Grianta; ma il luogo
incantevole, non piú abbellito dalla sua fantasia, le parve un deserto. «Ma
come? — si domandò — mi sarei dunque affezionata sul serio a quest'uomo?» Mosca
scrisse; e non ebbe nessun bisogno di fingere, perché la lontananza gli aveva
essiccata la sorgente di tutte le sue preoccupazioni. Le sue lettere
divertivano: inoltre uno spediente di cui si valse non fu preso in mala parte.
Per evitare i commenti del marchese Del Dongo, che pagava mal volentieri il
porto delle lettere, mandò corrieri a impostarle a Como, a Lecco, a Varese, in
alcuna insomma delle piccole leggiadre città dei dintorni del lago. Con la
quale trovata, mirava a ottenere che gli stessi corrieri le portassero la
risposta; e ci riuscí.
Cosí l'arrivo della posta
era un avvenimento per la contessa: i corrieri recavano fiori, frutta, piccoli
regali senza valore, ma dei quali si divertivano tanto lei quanto sua cognata.
Il ricordo del conte faceva ripensare alla sua grande potenza, e la contessa
sempre piú s'incuriosiva di quanto si dicesse di lui, e i liberali stessi lo
stimavano uomo di molto ingegno.
La cagione principale
della mala fama del conte era questa: ch'egli era creduto capo del partito
ultra a Parma; e che alla testa del partito liberale era una marchesa Raversi,
donna ricchissima, intrigante e capace di tutto: anche di spuntarla. Il
principe badava molto a non scontentar quello de' due partíti che non era al
governo: sapeva bene che anche con un ministero preso nel salotto della
marchesa, il padrone sarebbe stato sempre lui. Di tali intrighi, a Grianta
davano infiniti ragguagli; e intanto, poiché il Mosca non era presente e tutti
concordavano nel reputarlo ministro di prim'ordine e avveduto uomo d'azione, ai
suoi capelli incipriati non si pensava più: simbolo di tutto ciò che è lento e
triste, non apparivano piú alla mente se non come un particolare di niuna
importanza, una delle tante usanze imposte dalla Corte nella quale egli pur
rappresentava una cosí splendida parte. — Una Corte — diceva la contessa alla
cognata — è ridicola, ma diverte: è un gioco che offre di che spassarsi, ma del
quale bisogna non discuter le regole. Chi ha mai pensato a discuter le assurde
regole del picchetto? Ma una volta ammessa, è piacevole il far l'avversario repic et capot.
All'autore di quelle
numerose e deliziose lettere la contessa pensava assai spesso: e il giorno nel
quale le riceveva era un molto bel giorno per lei; pigliava la sua barca e se
le andava a leggere alla Pliniana, a
Belan, al bosco della Sfondrata, in una delle parti insomma piú amene
del lago, e pareva consolarsi un po' dell'assenza di Fabrizio. Certo ella non
poteva negare che il conte fosse innamorato: e un mese non passò senza ch'essa
sentisse nata nell'animo suo un'amichevole tenerezza per lui. Dal canto suo, il
Mosca era quasi sincero quando le offriva di dimettersi, di piantare il
ministero, e di andare a passar la vita con lei a Milano, o dovunque le
piacesse. «Io ho — scriveva — quattrocento mila franchi, che ci daran sempre
quindicimila lire di rendita.» E di nuovo un palco al teatro, carrozza,
cavalli, ecc., rifletteva la contessa: dolci sogni. Sulle rive del lago, le cui
sublimi bellezze l'avvolgevano novamente d'incanti, passeggiava fantasticando,
rivivendo con l'immaginazione la vita splendida e gaia che d'improvviso, a
malgrado d'ogni apparenza, ridiveniva possibile. Si rivedeva sul Corso lieta come
a' bel tempi del viceré. Una seconda giovinezza comincerebbe!
Qualche volta la sua
ardente fantasia le celava la realtà delle cose, ma non eran mai possibili in
lei le illusioni volontarie dei pusillanimi. Era una donna di buona fede,
massime con se stessa. «Se sono un po' troppo avanti con gli anni per far
pazzie, — pensava — l'invidia che s'inganna come l'amore può avvelenarmi
l'esistenza a Milano. Dopo la morte del mio povero marito, la mia nobile
miseria ebbe la sua parte di buon successo: la rinuncia di due grosse fortune.
Il povero conte Mosca non può offrirmi la ventesima parte dell'opulenza che
deponevano a' miei piedi quei due imbecilli di Limercati e di Nani. La magra
pensione di vedova, faticosamente ottenuta, il licenziamento delle persone di servizio
fecero un certo rumore: e venti carrozze alla porta della casa dov'io m'ero
ritirata in una camera al quinto piano, furono spettacolo che non si vede tutti
i giorni. Ma per quanto garbo io vi metta, se torno a Milano con la mia
pensioncina e il modesto benessere borghese che mi posson dare le quindicimila
lire che rimarranno a Mosca, dopo le sue dimissioni, non mi mancheranno momenti
sgradevoli. Già un'arma terribile in mano all'invidia sarà questa: che il
conte, per quanto da un gran pezzo diviso dalla moglie, è ammogliato. A Parma
si sa della separazione, ma a Milano sarà appresa come una novità e ne daranno
la colpa a me. E cosí addio, mio bel teatro della Scala, divino lago di Como,
addio!»
Non ostante queste
previsioni, se la contessa avesse avuto un patrimonio, per piccolo che fosse,
avrebbe accettato l'offerta delle dimissioni del Mosca. Si considerava come una
donna già attempata e la Corte le faceva un po' paura; ma ciò che di qua dalle
Alpi parrà assolutamente inverosimile è che il conte sarebbe stato felicissimo
di dimettersi e seppe persuaderne l'amica. In tutte le sue lettere sollecitava
con animo sempre piú acceso un secondo convegno a Milano che gli fu finalmente
accordato. — Se giurassi che ho per voi una passione furiosa — gli diceva la
contessa un giorno a Milano — mentirei: sarei troppo felice di poter amare,
oggi a trent'anni come amai a ventidue! Ma ho già visto cader tante cose che
credei eterne! Io ho per voi un'amicizia affettuosa, una fiducia senza limiti,
e di tutti gli uomini che conosco siete quello che preferisco. — La contessa si
credeva sincerissima; pure, nella fine, questa dichiarazione conteneva una
piccola bugia. Forse, se Fabrizio avesse voluto, egli sarebbe stato nel suo
cuore il primo: ma, agli occhi del conte Mosca, Fabrizio era un bambino. Questi
era a Novara da tre anni, quando il conte giunse a Milano, e andò in fretta a
parlare col barone Binder per lui; e gli parve intendere che l'esilio era un
provvedimento irrimediabile.
Il Mosca non era andato solo
a Milano: lo accompagnava nella sua stessa carrozza il duca Sanseverina-Taxis,
un bel vecchietto di sessantotto anni, grigio, lindo, correttissimo,
ricchissimo, ma di piccola nobiltà. Suo nonno aveva fatto milioni come
appaltatore generale delle entrate dello Stato di Parma: suo padre s'era fatto
nominare ambasciatore alla Corte di *** con questo ragionamento: «Vostra
Altezza dà al suo inviato a *** trentamila lire, quante gli bastano per fare
una assai magra figura: ora se si degnerà di accordare a me quest'ufficio, io
accetterò un assegno di seimila, mi obbligherò a spenderne a *** centomila
all'anno, e a farne versare ogni anno dal mio amministratore ventimila alla
cassa del ministero degli esteri. Con questa somma si potrà pagare un
segretario d'ambasciata, qual si voglia, che stia con me e io non mi mostrerò
troppo geloso dei segreti diplomatici, se pur ce ne saranno. A me preme lo
splendore della mia casa, di nobiltà recente, e desidero darle lustro mediante
l'assunzione di qualche alto ufficio dello Stato».
Il duca attuale, figlio di
questo ambasciatore, aveva commesso la storditaggine di mostrarsi
liberaleggiante; e da due anni era alla disperazione. Durante il dominio
napoleonico aveva perduto due o tre milioni per la sua ostinazione nel far l'emigrato,
e con tutto ciò, ristabilitosi l'ordine in Europa, non gli era riuscito
d'ottenere un certo gran cordone che decorava il ritratto paterno; il desiderio
insoddisfatto lo faceva sfinire di rammarico.
A tale grado di intimità
erano oramai giunti i due innamorati (e cosí sempre avviene in simili casi in
Italia) che la vanità fra di loro non aveva piú ragion d'essere; sí che il
conte potè molto semplicemente dire alla donna adorata:
— Io posso proporvi due o
tre progetti, tutti ben combinati; da tre mesi non penso che a questo. Primo
progetto: io do le mie dimissioni, e noi viviamo come due buoni borghesi a
Milano, a Firenze, a Napoli, o dove vi piacerà meglio. Avremo quindicimila lire
di rendita, oltre le munificenze del principe che potran durare piú o meno.
«Secondo: voi vi degnate
di venir nel paese dove ho qualche potere, comperate una terra, per esempio Sacca, bella casa in mezzo a una foresta che domina
il corso del Po: in otto giorni si può avere il contratto firmato. Il principe
vi aggrega alla sua Corte. Ma qui nasce una difficoltà. A Corte vi
accoglieranno benissimo: nessuno s'arrischierebbe a rifiatare davanti a me: e
del resto la principessa si crede infelice, e io le ho reso, a vostra
intenzione, qualche servigio. Ma il guaio principale è questo: il principe è
molto devoto, e, voi lo sapete, fatalità vuole ch'io sia ammogliato: qui sta la
sorgente di una infinità di piccole seccature. Voi siete vedova; bella
condizione: ma bisognerebbe cambiarla con un'altra: ed ecco l'oggetto della mia
terza proposta.
«Si potrebbe trovare un
marito poco incomodo: ma prima di tutto bisognerebbe che fosse molto avanti con
gli anni, perché voi non vorrete togliermi la speranza di potergli succedere un
giorno o l'altro. Or io ho concluso questo affare col duca Sanseverina-Taxis,
il quale, ben inteso, non sa il nome della futura duchessa. Sa soltanto che
ella lo farà ambasciatore e gli procurerà il gran cordone che suo padre aveva,
e la cui privazione lo rende il piú infelice degli uomini. Salvo questa
debolezza, il duca non è poi troppo stupido; si fa mandar da Parigi gli abiti e
le parrucche. Non è uomo da malvagità premeditate, crede sul serio che l'onore
consista nell'avere un cordone, e si vergogna delle proprie ricchezze. Un anno
fa venne a propormi di fondare un ospedale per avere il famoso cordone; ed io
mi burlai di lui; ma lui non ha affatto pensato a burlarsi di me quand'io gli
ho proposto un matrimonio. La mia prima condizione è stata, s'intende, che mai
rimetterà piede a Parma.
— Ma sapete che quel che
mi proponete è immoralissimo? — disse la contessa.
— Non piú immorale di
quanto si fa nella Corte di Parma e in venti altre! L'assolutismo ha questo di
buono, che santifica tutto agli occhi del popolo. Ora che cosa è una
ridicolaggine di cui nessuno s'accorge? Per vent'anni tutta la nostra politica
si ridurrà ad aver paura dei giacobini: e che paura! Ogni anno ci crederemo
alla vigilia del '93. Voi sentirete, spero, i bel paroloni che spiffero a
questo proposito ne' miei ricevimenti! Sono una bellezza! Tutto ciò che potrà
un po' diminuire questa paura, sarà moralissimo
agli occhi dei nobili e dei devoti. A Parma, oggi, chi non è nobile o devoto è
in prigione o fa i bauli per andarci. Credete pure che di questo matrimonio
nessuno dirà nulla se non il giorno ch'io sarò in disgrazia. Questa
sistemazione non è una bricconata perché non danneggia nessuno, e ciò è, mi
pare, l'essenziale. Il principe, al cui favore siamo avvezzi a ricorrere, non
ha messo che una sola condizione al suo consenso, ed è che la futura duchessa
sia nobile. L'anno scorso, il mio posto, tutto compreso, m'ha fruttato
centosettemila lire; e la mia rendita dove ascendere a centoventiduemila;
ventimila ne ho impiegate a Lione. Ora scegliete voi! O una vita ultra
signorile, con centoventiduemila lire da spendere, che a Parma equivalgono
almeno a quattrocentomila a Milano; ma a patto di conchiudere questo matrimonio
che vi da il nome d'un uomo passabile e che non vedrete che una sola volta e
all'altare; oppure la piccola vita borghese con quindicimila lire a Firenze o
Napoli, perché anch'io son di parere che v'hanno troppo ammirata a Milano:
l'invidia ci perseguiterebbe e riuscirebbe forse ad amareggiarci. Gli splendori
della vita principesca a Parma avranno, spero, qualche attrattiva di novità
anche per voi che avete visto la corte del principe Eugenio: e sarebbe a ogni
modo ragionevole conoscerli prima di rinunziarvi. Non crediate ch'io voglia
forzar la vostra scelta: per me è decisa; e alle mie grandezze presenti
preferisco la vita a un quarto piano con voi.
Fra i due amanti la
possibilità di quel singolare matrimonio fu discussa ogni giorno. La contessa
vide a un ballo alla Scala il duca Sanseverina-Taxis, che non le fece cattiva
impressione. In una delle loro ultime conversazioni, il conte Mosca riassumeva
cosí la sua proposta:
— Bisogna pur decidersi,
se vogliamo passar bene il resto della nostra vita, e non invecchiar prima del
tempo. Il principe ha già dato la sua approvazione; Sanseverina non c'è male...
può andare. Ha il piú bel palazzo di Parma, è ricco sfondato: ha sessantotto
anni e una smania frenetica pel gran cordone; disgraziatamente c'è nella sua
vita una macchia che lo contrista: comprò per diecimila franchi un busto di
Napoleone fatto dal Canova. E non basta: c'è un secondo peccato: che lo farà
morire se voi non lo soccorrete. Prestò venticinque napoleoni a Ferrante Palla,
un pazzo di Parma, ma pazzo non senza genio, che abbiam dovuto condannare a
morte, fortunatamente in contumacia. Questo Ferrante non ha fatto che un
duecento versi impareggiabili. Ve li reciterò una volta o l'altra; bellissimi,
degni di Dante. Il principe manda Sanseverina alla corte di ***: lui vi sposa
lo stesso giorno della sua partenza, e, scorso un anno da questo viaggio al
quale egli darà nome di ambasciata, riceverà il cordone senza del quale non sa
vivere. Avrete in lui un fratello che non vi sarà antipatico: sottoscriverà
anticipatamente tutto quel ch'io vorrò; e voi lo vedrete o pochissimo o mai,
secondo vi parrà meglio. Egli sarà contentissimo di non farsi vedere a Parma
dove gli sono molesti la memoria del nonno intendente, e il suo supposto
liberalismo. Il nostro carnefice Rassi sostiene che il duca è stato di nascosto
abbonato al Constitutionnel e che
il poeta Ferrante Palla ha fatto da intermediario; e questa calunnia è stata
per un pezzo il piú serio ostacolo al consenso del principe. Chi mai potrebbe
tenere in colpa lo storico dello esporre fedelmente e nei minimi particolari
quanto gli fu narrato? È forse colpa sua se i personaggi, sedotti da pressioni delle
quali purtroppo ei non partecipa, scendono ad azioni profondamente immorali?
Vero è che di questi fatti non ne succedon piú in un paese nel quale l’unica
passione che sopravvive a tutte le altre è il denaro, strumento di vanità.
Tre mesi dopo gli avvenimenti
fin qui raccontati, la duchessa Sanseverina-Taxis meravigliava la Corte di Parma con la sua cordiale amabilità e con la nobile serenità del suo spirito: la sua
casa era, senza possibile confronto, la piú gradevole della città. Questo il
conte Mosca aveva promesso al padrone. Ranuccio Ernesto IV, principe regnante,
e la principessa, ai quali fu presentata da due delle piú illustri signore del
paese, le fecero una squisita accoglienza. La duchessa era curiosa di veder
questo principe, arbitro della sorte dell'uomo ch'ella amava, e voleva
piacergli: ci riuscí anche troppo. Vide un uomo alto, piuttosto grosso, con
capelli, baffi e favoriti enormi che i cortigiani dicevan d'un bel biondo, ma
che per il lor colore sbiadito in qualunque altro luogo avrebbero suscitata una
immagine e suggerita una parola: capecchio. Sulla faccia larga sporgeva a mala
pena un nasino piccolissimo, quasi femmineo. Ma la duchessa osservò che per
notar tutte quelle bruttezze era necessaria un'analisi minuziosa: in complesso
il principe aveva l'aspetto d'un uomo di carattere e intelligente. Il suo
portamento era maestoso, i suoi modi non senza una gran dignità; salvo quando
si proponeva di fare impressione sul suo interlocutore; allora si confondeva,
s'inviluppava, per cosí dire, da se stesso e finiva a dondolarsi un po' sopra
una gamba e un po' sull'altra. Del resto, Ernesto IV aveva occhio penetrante e
dominatore, nobiltà nel gesto, parola misurata e concisa.
Il Mosca aveva avvertito
la duchessa che nel gabinetto dove il principe dava le udienze era un gran
ritratto in piedi di Luigi XIV e una molto bella tavola di scagliola di Firenze. Ella s'accorse subito
dell'imitazione: evidentemente egli presumeva copiare nella nobiltà dello
sguardo e del discorso Luigi XIV e s'appoggiava sulla tavola di scagliola per
scimmiottare gli atteggiamenti di Giuseppe II. Dette alla duchessa le prime
poche parole, si sedè per dare a lei modo di usare del diritto di seggio che
spettava al suo grado. A Parma le duchesse, i principi e le mogli dei grandi di
Spagna hanno diritto allo sgabello e cioè possono sedersi senza attenderne
permissione; le altre signore invece debbono aspettare d'essere invitate dal
principe o dalla principessa; e, per indicare la differenza dei gradi, queste
auguste persone hanno cura di lasciar passare qualche breve intervallo prima
d'invitar le non duchesse a sedersi. La Sanseverina osservò che a certi momenti l'imitazione di Luigi XIV era nel principe un po' troppo manifesta: per esempio,
quando sorrideva con bontà, reclinando leggermente il capo.
Ernesto IV vestiva un frac d'ultima moda giunto allora allora da Parigi:
da questa città che detestava, si faceva mandare ogni mese un frac, una redingote
e un cappello: ma mescolando bizzarramente i costumi, pel ricevimento della
duchessa s'era messo calzoni rossi, calze di seta e scarpini accollati, come se
ne vedon nei ritratti di Giuseppe II.
Ricevè la duchessa
garbatamente: e le disse anche cose argute e fini: ma ella notò benissimo che
in quelle accoglienze non v'era stato nulla di straordinario. — Sapete perché?
— le disse il conte Mosca. — Perché Milano è piú bella e piú grande di Parma; e
gli sarebbe parso, se v'avesse fatto le accoglienze ch'io m'aspettavo, e che mi
aveva lasciato sperare, di far figura di un provinciale in estasi davanti alle
grazie d'una bella signora che viene dalla capitale. E certo è stato anche un
po' contrariato da un fatto che non so come dirvi: il principe non vede a Corte
una donna che possa gareggiar con voi di bellezza. Questo è stato ieri sera,
nell'andare a letto, l'unico argomento della conversazione col primo cameriere
Pernice il quale, bontà sua, mi è deferente. Prevedo una rivoluzione
nell'etichetta: il mio peggior nemico a Corte è uno sciocco, che chiamano il
generale Fabio Conti. Immaginatevi un originale che è stato forse un giorno
alla guerra e perciò si crede lecito di scimmieggiare il contegno di Federico
il Grande, e non basta: imita anche la nobile affabilità del Lafayette, perché
è qui il capo del partito liberale. (Sa Dio che razza di liberali!)
— Conosco Fabio Conti; —
disse la duchessa — l'ho visto una volta vicino a Como; leticava coi gendarmi;
— e raccontò il piccolo episodio che il lettore forse ricorda.
— Voi saprete un giorno,
se con la vostra intelligenza riuscirete a penetrare i misteri della nostra
etichetta, che le signorine non vanno a Corte se non dopo maritate. Ebbene, il
principe è con cosí ardente patriottismo desideroso che Parma si dimostri
superiore a tutte le altre città, da trovar modo, scommetto, di farsi
presentare la piccola Clelia Conti, figliuola del nostro Lafayette. È veramente
carina, e passava, fino a otto giorni fa, per la maggior bellezza dello Stato
parmense.
«Io non so, — continuò il
conte — se delle orribili cose che i nemici del principe han scritto e pubblicato
sul conto suo sia giunta notizia a Grianta: lo han dipinto un mostro, un
cannibale: il fatto sta che Ernesto IV era pieno di parecchie piccole virtù e
si può aggiungere che se fosse stato invulnerabile avrebbe seguitato a servir
di bello esempio ai sovrani. Ma in un momento di stizza, anche per imitare un
poco Luigi XIV, che fece tagliar la testa a non so piú quale eroe della Fronda
rimasto tranquillo in una sua terra presso Versaglia, e cinquant'anni dopo che
di Fronda non si parlava più, un brutto giorno Ernesto IV ha fatto impiccar due
liberali. Par che questi imprudenti tenessero riunioni in certi dati giorni per
dir male del sovrano, e per pregar Iddio che mandasse un po' di peste a Parma,
e la liberasse dal tiranno. La parola «tiranno» fu accertata. Rassi sentenziò
che questo era «cospirare» e li fece condannare a morte: l'esecuzione d'uno di
loro, il conte L..., fu orribile. Tutto questo accadeva prima che venissi io.
Da quel momento, — soggiunse il conte abbassando la voce — il principe va soggetto
ad accessi di terrore indegni d'un
uomo, ma che son la ragione unica del favore ch'io godo. Senza questa paura,
i miei meriti sarebbero d'una specie troppo rude, troppo aspra, per essere
apprezzati da una Corte dove prospera la specie imbecille. È cosa da non
credere ma non è men vera per questo: il principe prima di coricarsi guarda
sotto il letto: e spende un milione all'anno, il che a Parma è come dir quattro
milioni a Milano, per avere un buon servizio di polizia. E il capo di questa
terribile polizia eccolo qui: sono io; e per la polizia, cioè a dire per la
paura, io son divenuto ministro della guerra e delle finanze: siccome il
ministro degl'interni poi è, di nome, mio superiore, in quanto il servizio di
polizia è nelle sue attribuzioni, ho fatto dar questo portafogli al conte
Zurla-Contarini, uno stupido animale da fatica che si piglia il gusto di
scrivere ogni giorno un'ottantina di lettere. Ne ho ricevuto una stamani sulla
quale il conte Zurla-Contarini s'è dato il piacere di segnar di suo pugno il
numero di protocollo: 20, 715.»
La duchessa Sanseverina fu
presentata alla triste principessa di Parma, Clara-Paolina, la quale perché suo
marito aveva un'amante (la bellissima marchesa Balbi) si credè la piú infelice
persona dell'universo, e ne diventò forse la piú noiosa. Era una donna assai
alta e magra, che non aveva ancora trentasei anni e ne dimostrava cinquanta.
Volto di fattezze regolari e di lineamenti delicati, non ostante lo guastassero
un po' due grandi occhi rotondi che non vedevan tre passi distante,
nell'insieme avrebbe potuto dirsi una bella persona, se la principessa non si
fosse trascurata un po' troppo. Nel ricever la Sanseverina si mostrò talmente impacciata che alcuni cortigiani nemici del Mosca si permisero
osservare che le parti parevano scambiate: si sarebbe detto che la principessa
fosse la signora venuta all'udienza, e, viceversa, la duchessa fosse lei la
sovrana. La duchessa infatti, meravigliata e sconcertata, non sapeva dove
pescar parole e modi per porsi in situazione inferiore a quella in cui la
principessa si collocava da sé. Per restituire una tal quale pacatezza
all'animo della sovrana che pur non difettava d'intelligenza, la duchessa non
seppe trovar di meglio che intavolare e tirare in lungo una dissertazione di
botanica. Clara-Paolina era veramente dotta in quegli studi, e in bellissime
serre custodiva molte e rare piante tropicali. Sebbene in fondo non mirasse che
a trarsi dall'imbarazzo, la duchessa si conquistò per sempre la sovrana, che
timida e quasi interdetta al cominciar dell'udienza, tanto poi se ne compiacque
che, contro tutte le regole dell'etichetta, quel primo ricevimento non durò
meno di un'ora e un quarto. Il giorno dopo la duchessa comprò parecchie piante
esotiche e si spacciò per appassionata della botanica.
La principessa passava la
sua vita col venerabile padre Landriani, arcivescovo di Parma, uomo di studi e
anche d'ingegno e perfetto galantuomo; ma che offriva occasione di sorridere a
chi lo vedeva seduto sulla grande poltrona di velluto cremisi dirimpetto a Sua
Altezza (secondo i diritti della sua carica) fra le dame d'onore e due dame per
accompagnare. Il vecchio prelato, dai lunghi capelli bianchi, era anche piú
timido, se possibile, della principessa; si vedevano ogni giorno, e tutte le
udienze cominciavano con un quarto d'ora d'ininterrotto silenzio. La contessa
Alvisi, una delle dame per accompagnare, era diventata una specie di favorita,
perché trovava sempre modo di far rompere quel silenzio e di incoraggiarli a
parlare.
Per compier la serie delle
presentazioni, la duchessa fu ricevuta da S. A. il principe ereditario,
personaggio piú alto di suo padre, piú timido di sua madre. Aveva sedici anni
ed era forte nella mineralogia: diventò tutto rosso vedendola entrare e fu
siffattamente disorientato che non riuscí a trovar parola da dire a quella
bella signora. Anche lui era un assai bel giovine e passava le giornate ne'
boschi, il martello alla mano. Quando la duchessa si alzò per metter fine a
quell'udienza taciturna:
— Mio Dio, signora, quanto
siete bella! — sclamò il principe ereditario; esclamazione che alla signora non
parve fuori di posto.
La marchesa Balbi, una
giovine di venticinque anni, fino a due o tre anni innanzi che la Sanseverina andasse a Parma poteva essere additata come il piú perfetto modello della
leggiadria italiana. Ora gli occhi eran sempre i piú begli occhi del mondo, e
le sue graziose smorfiette eran quelle di prima: ma, vista da vicino, la sua
pelle era tutta solcata da piccole sottilissime rughe che facevan di lei una
giovine vecchia. Vista a una certa distanza, per esempio nel suo palco al
teatro, era ancora una bellezza; e la gente che andava in platea giudicava il
principe uomo d'assai buon gusto. Questi passava tutte le sue serate dalla
Balbi, spesso senza aprir bocca; e questa noia del principe era tale tormento
per la povera donna che a furia di soffrire era divenuta d'una magrezza
straordinaria. Pretendeva a grande sagacità e, avendo bellissimi denti,
sorrideva sempre maliziosamente, e anche quando non aveva alcuna opinione da
esprimere, tuttavia voleva col suo sorriso di donna scaltrita lasciar intendere
qualcosa di piú di quanto le sue parole dicessero. Il conte Mosca diceva che
dal contrasto de' continui sorrisi con gli interni sbadigli nascevano le rughe
che le rigavan la pelle. La marchesa Balbi spelluzzicava in tutti gli affari
dello Stato: non si faceva un contratto di mille lire senza che ci sortisse per
lei un «ricordo» (era la parola d'uso corretto a Parma). La voce pubblica
mormorava ch'ella avesse impiegato sei milioni in Inghilterra; ma in verità la
sua fortuna, del resto assai recente, non arrivava al milione e mezzo. Per
essere al sicuro dalle sue sagacità e tenerla sotto mano, il conte Mosca aveva
voluto esser ministro delle finanze. La passione vera e sola della marchesa era
la paura, mascherata da un'avarizia sordida. — Io morrò sulla paglia — diceva
spesso al principe, che andava sulle furie a sentirglielo dire. La duchessa
osservò che l'anticamera del palazzo Balbi, tutta scintillante di dorature, era
illuminata da una sola candela sgocciolante su d'un tavolo di marmo prezioso, e
che le porte del salotto avevan sudice tracce delle mani della servitù.
— M'ha ricevuto — raccontò
la duchessa all'amico suo, — come se avesse aspettato da me una gratificazione
di cinquanta lire.
La serie dei brillanti
successi della duchessa fu interrotta dal ricevimento della piú astuta dama
della Corte, la famosa marchesa Raversi, consumata intrigante che stava a capo
del partito avverso al Mosca. S'era impuntata a farlo cadere, massime da
qualche mese; perché, nipote del duca Sanseverina, temeva compromessa l'eredità
dalle seduzioni della nuova duchessa. — La Raversi non è donna da non tenerne conto; — diceva il conte all'amica — io la credo capace di tutto, tanto che mi
son diviso da mia moglie solo perch'ella s'ostinava a voler per amante il
cavaliere Bentivoglio, amico della Raversi. — Questa grande virago dai capelli
ala di corvo, famosa pei diamanti che si metteva fin dalla mattina e pel
rossetto del quale si spalmava senza parsimonia le guance, s'era dichiarata
subito nemica della duchessa, e ricevendola si fece un obbligo di cominciar le
ostilità. Il duca Sanseverina nelle lettere che scriveva da *** pareva cosí
entusiasta dell'ambasciata e segnatamente della speranza del gran cordone, che
la famiglia temè egli lasciasse una parte del suo patrimonio alla moglie
colmata da lui di ogni sorta di piccoli regali. La Raversi, sebbene indiscutibilmente brutta, aveva per amante il conte Balbi, il piú bell'uomo
della Corte; e di solito riusciva in tutto quello in cui metteva mano.
La duchessa impiantò la
casa con grande magnificenza: il palazzo Sanseverina era sempre stato uno dei
piú splendidi a Parma; e, in vista dell'ambasciata e del gran cordone, il duca
per abbellirlo ancora spese somme enormi. La duchessa diresse i lavori.
Il conte Mosca aveva
indovinato: pochi giorni dopo il ricevimento della duchessa, Clelia Conti venne
a Corte. L'avevan fatta canonichessa. Questo favore poteva essere supposto un
attentato al prestigio del conte: per evitar maligne dicerie la duchessa, col
pretesto di inaugurare i propri giardini, dette una festa e con molta garbata
abilità riuscí a far di Clelia, ch'ella chiamava la sua piccola amica del lago
di Como, la regina della serata. La fanciulla, sebbene taciturna, fu
graziosissima nel suo modo di raccontar quanto era avvenuto sul lago e nel
mostrar la sua riconoscenza. La dicevano molto devota e desiderosa di
solitudine; e il conte soggiungeva: — Scommetterei che è tanto intelligente da
vergognarsi di suo padre. — La duchessa si prese di amicizia per quella
giovinetta che già le aveva ispirata una singolare simpatia, e per non apparir
gelosa, la volle seco in tutti i divertimenti. Anche questo era parte del
sistema ch'ella s'era fatto e che consisteva nell'adoperarsi comunque ad
attenuare gli odii dai quali il conte era circondato. Tutto oramai le
sorrideva: la divertiva il vivere in una Corte dove è sempre da temere che una
burrasca scoppi quando meno ci si pensa. Teneramente affezionata al conte, le
pareva di ricominciar la vita. E il conte, cui quell'affezione faceva oltre
ogni dire felice, poteva cosí molto pacatamente meditare su tutto ciò che si
riferiva alle sue mire ambiziose. Infatti, due mesi dopo l'arrivo della
duchessa, ottenne patente e onori di primo ministro, onori i quali sono presso
a poco simili a quelli che si rendono al sovrano. Tutto poteva oramai il conte
sull'animo del principe: e se n'ebbe una prova di cui tutti a Parma rimasero
sbalorditi. A dieci minuti dalla città, verso sud-est, sorge la cittadella
famosa la cui gran torre alta centottanta piedi si scorge dal piano a distanza
grandissima. Costruita dai Farnese nipoti del papa Paolo III, verso i primi del
secolo XVI, sul modello del Mausoleo d'Adriano, questa torre è cosí massiccia che
sulla spianata che le sta alla cima è stato possibile elevare un palazzo pel
governatore e una nuova prigione, detta appunto Torre Farnese. Edificata in
onore del primogenito di Ranuccio Ernesto II, amante corrisposto della
matrigna, questa prigione è stimata singolarmente bella in Italia. Orbene:
venne alla duchessa la curiosità di vederla. Il giorno della sua visita il
caldo era a Parma opprimente; il trovare lassù l'aria un po' mossa le gradí
tanto che vi si trattenne qualche ora. Naturalmente, si affrettarono ad aprirle
le sale della Torre Farnese, sulla cui piattaforma s'incontrò con un povero
liberale carcerato che vi godeva la mezz'ora di passeggiata concessagli ogni
tre giorni. Ritornata a Parma, non ancora assuefatta alla discretezza necessaria
in una Corte di monarca assoluto, parlò e riparlò di quell'uomo che le aveva
raccontata la sua storia. Il partito della marchesa fece tesoro di quei
discorsi e li divulgò quanto piú potè con la speranza che il principe,
conosciutili, se ne adirerebbe: Ernesto IV soleva infatti ripetere che
l'essenziale è colpir le immaginazioni. Sempre
è una gran parola, diceva, e in Italia anche piú terribile che altrove: perciò
in vita sua non aveva mai accordato una grazia. Otto giorni dopo la sua visita
alla cittadella, la duchessa ricevè decreto di «commutazione di pena» senza
alcuna indicazione di nome. Doveva scriverlo lei: e il prigioniero cosí
designato otterrebbe la restituzione dei beni e il permesso d'andar a passare
il resto della sua vita in America. La duchessa scrisse il nome dell'uomo che
le aveva parlato sulla piattaforma della cittadella. Disgraziatamente si venne
poi a sapere che era un misto di pusillanime e di furfante, e che proprio per
le sue confessioni Ferrante Palla era stato condannato a morte. Quella grazia
concessa in forma cosí inusitata fu la piú potente dimostrazione del favore
onde la Sanseverina era accolta nella Corte di Parma. Il conte Mosca non stava
in sé dalla contentezza: furono quelli bel giorni per lui ed esercitarono
un'azione decisiva sulle sorti di Fabrizio. Questi era sempre a Romagnano, nel
Novarese, e seguendo appuntino le istruzioni ricevute, si confessava, andava a
caccia, non leggeva, e faceva la corte a una signora dell'aristocrazia. Di
quest'ultima ingiunzione la duchessa si dispiaceva: brutto segno per il conte;
ma ce n'era un altro e peggiore: che, cioè, pur essendo sempre e in ogni cosa
sincerissima con lui e pensando, per cosí dire, in presenza sua, ad alta voce,
non gli parlava mai di Fabrizio senz'avere studiato prima la frase.
— Se volete, — le disse un
giorno il conte — io scriverò al vostro carissimo fratello sul lago di Como, e
dandocene cura i miei amici di *** ed io finiremo per convincere il signor
marchese Del Dongo a chieder la grazia per il vostro Fabrizio. Se è vero, come
io non mi permetto di porre in dubbio, ch'egli sia un po' meglio dei soliti
giovinotti che caracollano sui loro cavalli inglesi per le vie di Milano, che
vita è quella di chi a diciotto anni non fa nulla, e sa che non farà nulla mai?
Se il Cielo gli avesse concessa una passione qualsisia, magari per la pesca
all'amo, non ci avrei che ridire; ma che farà egli a Milano, anche ottenuta la
grazia? A una data ora monterà un cavallo che si sarà fatto mandare
dall'Inghilterra; a un'altr'ora l'ozio lo guiderà da un'amante che gli starà a
cuore meno del suo cavallo.... Ma, se voi me l'ordinate, mi studierò di
procurarglielo, questo bel genere di vita.
— Io vorrei che fosse
ufficiale — disse la duchessa.
— Ma consigliereste voi a
un sovrano di affidare un posto che una volta o l'altra potrebbe aver la sua
importanza a un giovinetto suscettibile di entusiasmi, non solo, ma che s'è
tanto entusiasmato per Napoleone da andare a trovarlo fino a Waterloo? Pensate
che cosa sarebbe di tutti noi, se Napoleone a Waterloo avesse vinto! Non ci
sarebbe la paura dei liberali, questo è vero, ma i sovrani delle vecchie
dinastie non potrebbero regnare che sposando le figliuole de' suoi marescialli.
La carriera militare per Fabrizio sarebbe l'esistenza dello scoiattolo nella
gabbia girante: molto movimento per restar sempre lí. Senza dire che avrebbe
anche il dispiacere di vedersi passare avanti tutti gli eroismi plebei! La
prima dote di un giovine, oggi, ossia per altri cinquant'anni, fino a quando
cioè durerà la nostra paura e la religione non sarà rimessa in onore, è di non
esser capace d'entusiasmo e di avere una intelligenza mediocre.
«Io ho pensato una cosa;
ma una cosa che da principio vi farà strillare, e che mi darà per un pezzo assai
grattacapi. È una pazzia che son disposto a fare per voi: ma qual'è la pazzia
ch'io non farei per un vostro sorriso?
— Ebbene? — chiese la
duchessa.
— Ebbene: Parma ebbe tre
arcivescovi della vostra famiglia: Ascanio Del Dongo che scrisse nel 16..., Fabrizio
nel 1699, e un altro Ascanio nel 1740. Se Fabrizio vuol entrar nella prelatura,
e segnalarsi con virtù di prim'ordine, io lo fo vescovo in qualche diocesi, e
poi arcivescovo qui, sempre, bene inteso, che duri la mia autorità. C'è, lo
riconosco, un'obiezione. Resterò io ministro i parecchi anni che ci vogliono
per mettere in atto questo disegno? Il principe può morire, può avere la
cattiva idea di mandarmi a casa; ma, insomma, è questo il solo modo ch'io abbia
per giovare a Fabrizio in una forma degna di voi.
Si discusse a lungo: di
questo disegno la duchessa non ne voleva sapere.
— Vediamo: tornate a
dimostrarmi, ancora, — diceva al conte — che non vi sono per Fabrizio altre
vie. — Il conte lo dimostrò, poi soggiunse:
— Voi rimpiangete
l'uniforme; ma io non ci posso far nulla.
La duchessa chiese un mese
per pensarci su: scorso quel tempo, finí per arrendersi, sospirando, alle savie
considerazioni del ministro.
— Montare impettito un
cavallo inglese in qualche grande città o darsi uno stato quale conviene alle
proprie origini: non c'è via di mezzo. Disgraziatamente, un gentiluomo non può
fare né il medico né l'avvocato, e questo è il secolo degli avvocati. Tenete
bene in mente — insisteva — che voi ponete vostro nipote a Milano nella stessa
condizione dei giovani dell’età sua che passano per i piú fortunati. Ottenuta
la grazia, voi gli date quindici, venti, trentamila lire; questo importa poco:
né a voi né a me preme di far economie.
Alla duchessa invece
premeva la fama: non voleva che Fabrizio fosse uno scialacquatore e
nient'altro: tornò sui disegni del conte.
— Notate, — le diceva
questi — ch'io non pretendo mica di far di Fabrizio un prete esemplare, come ce
n'è tanti. No; prima di tutto è un gran signore: quando cosí gli piaccia, potrà
anche restar perfetto ignorante; e ciò non impedirà ch'egli sia vescovo e
arcivescovo, se il principe seguita a credere alla utilità de' miei servigi. Se
i vostri ordini degneranno mutar le mie proposte in decreti irrevocabili,
bisognerà che Parma non vegga il nostro protetto in condizioni modeste: la sua
ascensione scandalizzerebbe, se qui l'avessero conosciuto semplice prete. A
Parma deve venir con le «calze violette» ed equipaggiato come si conviene:
tutti indovineranno che deve diventar vescovo e nessuno ci troverà da ridire.
«Se volete dar retta a me,
bisognerebbe mandar Fabrizio a Napoli a fare in tre anni il suo corso di
teologia; durante le vacanze potrà andare se vuole a Parigi o a Londra, ma non
si farà vedere a Parma.»
All'udir queste parole la
duchessa si sentí rabbrividire. Mandò un corriere al nipote dandogli
appuntamento a Piacenza: inutile aggiungere che il corriere era provvisto di
denari e di passaporti.
Giunto per primo a
Piacenza, Fabrizio corse incontro alla duchessa e l'abbracciò con tale
effusione di tenerezza ch'ella n'ebbe gli occhi pieni di lagrime. Ed ebbe caro
che il conte non ci fosse; dacché gli s'era legata, provava ora per la prima
volta una tale sensazione.
Fabrizio fu profondamente
commosso; ma molto spiacente dei disegni che la duchessa aveva concepiti per
lui. Aveva sperato sempre che, aggiustato l'affare di Waterloo, gli sarebbe
riuscito di fare il militare. Quel che piú fece impressione sulla duchessa, e
valse ad accrescere l'opinione romanzesca ch'ella aveva del nipote, fu il
reciso rifiuto di menar vita d'ozioso in una qualunque delle grandi città
italiane.
— Ma non ci pensi che
bellezza andarsene al corso a Firenze o a Napoli con cavalli inglesi... la sera
in carrozza... un appartamentino elegante....
E insisteva deliziandosi
nel descrivere il godimento di quei piaceri volgari, che vedeva Fabrizio
ricusare sdegnosamente. E pensava: «È un eroe!».
— E dopo dieci anni di
questa bella vita, — diceva Fabrizio — che cosa avrò io concluso, e che cosa
sarò? Un giovine «maturo» costretto a cedere il campo al primo bell'adolescente
che fa la sua comparsa nel mondo, anche lui sopra un cavallo inglese.
Dapprincipio Fabrizio di
vita ecclesiastica non volle saperne: parlò di andare a Nuova York a farsi
cittadino e soldato repubblicano in America.
— Ah, che sbaglio! Non ci
saranno guerre e tu dovrai ricadere nella vita di caffè, peggiorata perché
senza eleganze né amori né musica — ribattè la duchessa. — Credimi: per te,
come per me, la vita d'America sarebbe una triste vita. — E gli spiegò il culto
del dollaro, e il rispetto che bisogna avere per le plebi perché tutto dipende
dai loro voti. Si tornò alla carriera ecclesiastica.
— Prima di montar sul
cavallo d'Orlando, — disse la duchessa — renditi ben conto della cosa: non si
tratta punto d'essere un povero prete, piú o meno esemplare come l'abate
Blanes. Ricordati ciò che furono i tuoi zii arcivescovi di Parma; rileggi i
ragguagli della loro vita nel supplemento alla genealogia. A un uomo che porta
un nome come il tuo conviene prima di tutto di essere un gran signore, nobile,
generoso, protettore della giustizia, destinato già anticipatamente a
capeggiare l'ordine al quale appartiene; e che in tutta la sua vita non
commetta che una sola bricconata: ma quella, fruttuosa.
— Cosí tutte le mie
illusioni vanno in fumo; — osservava Fabrizio sospirando — il sacrificio è
duro! Confesso che non avevo pensato mai a quest'orrore dei sovrani assoluti
per l'entusiasmo e per l'intelligenza, quand'anche siano adoperati a loro
profitto.
— L'entusiasmo è
pericoloso. Basta talora una parola calda, un capriccio del cuore, per gettare
un entusiasta nel partito avverso a quello che serví per tutta la vita.
— Entusiasta io! — sclamò
Fabrizio. — Singolare accusa per me che non posso nemmeno essere innamorato!
— Come? — fece la contessa.
— Quando io ho l'onore di
far la corte a una bella donna, anche nobile e devota, non mi riesce di pensare
a lei se non quando la vedo.
La confessione produsse
uno strano effetto sulla duchessa.
— Ti domando un mese, —
ripigliò Fabrizio — per congedarmi dalla signora C... di Novara, e quel che m'è
piú difficile ancora, per dare un ultimo addio a' bel castelli in aria
edificati sin da quando son nato. Scriverò alla mamma che venga a salutarmi a
Belgirate sulla riva piemontese del lago Maggiore, e, di qui a trentun giorni,
sarò a Parma in incognito.
— Non ci pensar nemmeno! —
sclamò la duchessa: non voleva che il conte Mosca la vedesse parlare a
Fabrizio.
Si rividero a Piacenza. La
duchessa questa volta era agitatissima: c'era burrasca alla Corte; il partito
della Raversi stava per trionfare. Non era impossibile che il conte Mosca fosse
surrogato dal generale Fabio Conti, capo di quello che a Parma si chiamava
«partito liberale». Fuor che il nome del competitore, il quale andava
guadagnandosi il favore del principe, ella raccontò tutto a Fabrizio. E tornò a
discutere del suo avvenire, anche nel caso che venisse a mancare la onnipotente
protezione del conte.
— Andrò a passar tre anni all'Accademia
ecclesiastica di Napoli: — dichiarò Fabrizio — poiché devo principalmente
essere un giovine gentiluomo, e tu non mi costringi a condurre la vita di un
seminarista virtuoso, il soggiorno di Napoli non mi da pensiero: varrà sempre
meglio Napoli che Romagnano; anzi lassù la buona società cominciava a fiutare
in me l'odore di giacobino. Ma nel mio esilio mi sono accorto che non so nulla,
neppure un po' di latino, neppure l'ortografia. Volevo ricominciare la mia
educazione a Novara. Studierò teologia a Napoli! È una scienza complicata.
La duchessa fu
contentissima di questa risoluzione. — Se ci mandano via, — disse — ti verremo
a trovare a Napoli. Ma dal momento che tu accetti, almeno fino a nuov'ordine,
questo partito delle «calze violette», il conte, che conosce bene l'Italia
d'oggi, m'ha incaricato di darti un consiglio. Credi o no a quel che
t'insegneranno; ma non far mai
nessuna obiezione. Fa conto che t'insegnino il whist: faresti obiezioni alle
regole del whist? Al conte ho detto che sei credente, e se n'è rallegrato,
perché l'esser credente è utile in questo mondo e nell'altro. Ma, se lo sei,
guardati dalle solite diatribe volgari contro il Voltaire, il Diderot, il
Raynal e gli altri scavezzacolli francesi, precursori delle due Camere. Procura
che questi nomi ti vengan pronunciati il meno possibile; e quando tu non te ne
possa astenere, parla di questi signori con una ironia tranquilla, come di
gente già confutata da un pezzo, e i cui assalti non hanno piú alcuna
importanza. Credi ciecamente a tutto quel che ti diranno all'Accademia: pensa
che ci sarà chi terrà nota esattissima d'ogni tua menoma obiezione: un piccolo
intrigo galante, se è condotto bene, te lo perdoneranno, ma un dubbio no: gli
anni sopprimon gl'intrighi e avvalorano i dubbi. Regolati in questo modo anche
innanzi al tribunale della penitenza. Avrai una lettera di raccomandazione per
un vescovo, ch'è il factotum dell'arcivescovo di Napoli. La tua scappata in
Francia non la deve saper che lui, e a lui solo racconta d'esserti trovato il
18 giugno nei pressi di Waterloo. Ma abbrevia il racconto piú che puoi, attenua
questa avventura; confessala soltanto perché nessuno ti possa rimproverare
d'averla nascosta. Eri tanto giovine allora!
«Un altro consiglio del
conte: se nel conversare ti viene alla mente una risposta arguta, un di quegli
argomenti che tagliano la testa al toro e mutano l'andamento della
conversazione, non cedere alla tentazione di farti onore: sta zitto. Le persone
intelligenti ti leggeranno l'ingegno negli occhi: e tu avrai tempo ad avere
ingegno quando sarai vescovo.»
Fabrizio esordí a Napoli
con una modesta carrozza e quattro domestici, buoni milanesi, mandatigli dalla
zia. Dopo un anno di studi, nessuno diceva ch'egli fosse uomo d'ingegno: lo
tenevano gran signore studioso, molto generoso e un po' libertino.
Quest'anno, piacevole per
Fabrizio, fu terribile per la duchessa. Il conte fu tre o quattro volte
sull'orlo del precipizio: piú pauroso che mai, perché per giunta il principe
credeva, licenziandolo, di liberarsi dalla odiosità di condanne capitali
pronunciate prima che il conte entrasse nel ministero. Il Rassi era diventato
il beniamino indispensabile. Innanzi alla minaccia della grave iattura, la
duchessa si avvinse cosí passionatamente al Mosca che non pensò piú a Fabrizio.
Pel caso possibile che il licenziamento avvenisse, cominciarono a dire che
l'aria di Parma, umida infatti come in tutta la Lombardia, si confaceva poco alla salute della duchessa. Finalmente, dopo periodi di
disfavore durante i quali fino a venti giorni passarono senza che il conte
primo ministro potesse avere una particolare udienza dal principe, l'ebbe vinta
lui. Fece nominar Fabio Conti, il preteso liberale, governatore della
cittadella in cui si chiudevano i liberali giudicati dal Rassi. — Se il Conti
usa indulgenza ai liberali, — diceva il conte all'amica sua — si manda in
malora come un giacobino cui le proprie dottrine fan dimenticare i doveri di
generale; s'egli è severo e senza pietà (e questo è piú probabile), finisce
d'esser capo del suo partito e si aliena le famiglie che hanno qualcuno dei
loro in cittadella. Questo meschino uomo sa darsi un atteggiamento ossequioso
quando il principe gli s'avvicina; sa all'occorrenza mutarsi di vestito quattro
volte in un giorno, e magari discutere intorno a un quesito d'etichetta, ma non
è testa da sapersi scegliere la strada non facile, che potrebbe portarlo a
salvazione; e a ogni modo, son qua io.
Il giorno successivo alla
nomina di Fabio Conti, con la quale era risolta la crisi, si seppe che a Parma si
sarebbe pubblicato un giornale ultramonarchico.
— Sa Dio quante mai liti
farà sorgere questo giornale! — disse la duchessa.
— Questo giornale —
rispose il conte ridendo — è il mio capolavoro! A poco a poco e a malincuore me
ne farò levar di mano la direzione dagli ultrafuribondi. Ho fatto assegnare
lauti stipendi ai redattori sicché da ogni parte fioccheranno le istanze per
avere un di quei posti. È una faccenda che andrà per le lunghe un mese o due e
basterà a far dimenticare i passati pericoli. Già P. e D., persone serie e
gravi, sono in riga.
— Ma questo giornale sarà
la ridicola negazione del senso comune!
— Su questo fo
assegnamento! Il principe lo leggerà ogni mattina e, sapendo che l'ho fondato
io, ammirerà la mia avvedutezza. Quanto ai particolari, li approverà o non li
approverà; intanto due delle ore che egli dà al lavoro, saranno impiegate cosí.
Il giornale ci procurerà delle noie: poco male; ma quando arriveranno i guai
seri, fra otto o dieci mesi, esso sarà interamente in mano degli ultrafuribondi,
e saran loro che ne dovranno rispondere. Io solleverò questioni, muoverò
censure.... Insomma io preferisco cento assurdità a una sola impiccagione. Chi
si ricorda più, dopo un paio d'anni, d'un articolo del giornale ufficiale? E
invece i figli, le famiglie degli impiccati mi perseguiterebbero di odii
implacabili che mi accorcerebbero forse la vita.
La duchessa, sempre pronta
ad appassionarsi per qualche cosa, sempre in moto, non inerte mai, aveva essa
sola piú vivacità che non tutta quanta la corte di Parma. Ma non sapeva esser
paziente, impassibile quanto occorre per menar a buon fine un intrigo; tuttavia
era riuscita a stare al corrente dei maneggi delle piccole consorterie, e
cominciava a godere d'un suo particolare prestigio presso il principe. Clara-Paolina,
la sovrana, circondata d'ogni maniera d'onori, ma prigioniera dell'etichetta
antiquata, si considerava la piú infelice delle donne. La Sanseverina le fece un po' di corte, e si prese l'assunto di dimostrarle che ella era meno
infelice di quanto credesse. È da sapere che il principe non vedeva la
principessa che a pranzo. I pranzi duravan regolarmente una trentina di minuti,
e a volte passavano settimane intiere senza ch'egli le rivolgesse la parola. La Sanseverina si propose di mutar questo stato di cose: sapeva divertire il principe, tanto piú
e meglio in quanto le era riuscito di conservar intera la propria indipendenza.
Anche se avesse voluto, non le sarebbe stato possibile di non urtar qualcuno
degli imbecilli che pullulavano a Corte. Questa specie di assoluta inabilità la
faceva detestare dal volgo de' cortigiani, tutti conti o marchesi forniti, in
media, di cinquemila lire di rendita. Ella fin dai primi giorni se ne accorse e
curò soltanto di piacere al principe e alla principessa, la quale dal canto suo
dominava assolutamente il principe ereditario. La duchessa era bravissima nel
divertire Ernesto IV e si valeva dell'attenzione ch'egli prestava a ogni sua
parola per dar la berta ai cortigiani che la detestavano. Dopo le sciocchezze
che il Rassi gli aveva fatto commettere, — e alle sciocchezze sanguinose non
c'è rimedio, — il principe aveva qualche volta paura e si annoiava spesso; e
questo lo aveva ridotto invidioso. Sentiva di non potersi divertire e gli dava
malumore il divertimento degli altri: l'aspetto della felicità lo mandava in
furia. — Bisognerà nascondergli il nostro amore — disse la duchessa al conte; e
aiutò il principe ad indovinare che il capriccio per il conte, uomo del resto
cosí degno di stima, le era oramai quasi passato.
Fu un giorno di letizia
per il principe, quello in cui fece una tale scoperta. Ogni tanto la duchessa
si lasciava sfuggir qualche parola circa un progetto che vagheggiava di
pigliarsi ogni anno qualche mese di congedo, per girare un po' l'Italia che non
conosceva affatto. Sarebbe andata a veder Napoli, Firenze, Roma. Ora, nulla
poteva fare al principe piú gran dispiacere che questa specie di diserzione.
Era una delle sue maggiori debolezze: tutto ciò che poteva sembrar dispregio
per la sua capitale gli era una ferita al cuore. Capiva di non aver modo alcuno
di trattener la duchessa, e ch'ella era di gran lunga la piú elegante e vivace
fra le signore del Ducato. Data la pigrizia italiana, parrebbe incredibile: ma
il fatto è che per prender parte a' suoi «giovedí», la gente dalle ville dei
dintorni tornava in città. Eran vere feste, per le quali quasi ogni volta ella
inventava qualche amena novità. Il principe moriva di voglia di veder uno di
questi giovedí; ma come andare in una casa privata? Era cosa che né suo padre
né lui avevan fatto mai!
Un certo giovedí pioveva e
faceva freddo; il principe sentiva dal principio della serata a ogni momento le
carrozze che scotevano il selciato della piazza ducale andando dalla
Sanseverina. Lo prese l'impazienza. Come! gli altri si divertivano, e lui,
principe sovrano, signore assoluto che avrebbe dovuto divertirsi piú di tutti,
lui s'annoiava? Chiamò il suo aiutante di campo: ci volle il tempo di collocare
una dozzina di persone fidate lungo la via che dal palazzo di Sua Altezza
conduceva al palazzo dei Sanseverina. E finalmente, dopo un'ora che gli parve
un secolo, e durante la quale venti volte fu tentato di sfidar i pugnali
uscendo all'impazzata e senza nessuna precauzione, comparve nel salone della
duchessa. Se ci fosse caduto un fulmine, non avrebbe cagionato uno stordimento
altrettale. In un batter d'occhio, e via via che il principe avanzava, alla
gaiezza e al rumore succedeva in quelle sale il silenzio della stupefazione.
Tutti gli occhi si appuntavano su di lui, spalancati dalla sorpresa; i
cortigiani parevan trasecolare. La sola duchessa non dette segno di meraviglia.
Quando finalmente le persone presenti ebbero recuperato l'uso della parola, di
null'altro si curarono se non di risolvere questo importante quesito: la duchessa
era stata avvertita della visita, o era anche per lei una sorpresa come per
tutti?
Il principe si divertí: e
del carattere impulsivo della duchessa e del grande potere che le avevan dato i
vaghi accenni alla sua partenza si può giudicare da questo. Nel riaccompagnare
il principe, che le faceva dei complimenti, le venne un'idea singolare e
ch'ella osò esporre molto semplicemente come una cosa naturalissima.
— Se tre o quattro di
queste frasi cosí gentili che Vostra Altezza prodiga a me le dicesse alla
principessa mi farebbe piú contenta che ripetendomi qui ch'io sono graziosa.
Perché nulla al mondo mi consolerebbe se la principessa prendesse in mala parte
l'insigne favore di cui Vostra Altezza mi ha onorato stasera.
Il principe la guardò
fissa e rispose seccamente :
— Credo di esser padrone
di andare dove mi piace.
La duchessa arrossí, e
replicò subito:
— Volevo soltanto non
esporre Vostra Altezza a muoversi inutilmente; perché questo giovedí sarà
l'ultimo: vado a passar qualche giorno a Bologna o a Firenze.
Quand'ella rientrò nel
salone, tutti la crederono all'apogeo del favore; e aveva arrischiato quanto
nessuno, a memoria d'uomo, osò mai a Parma. Fece un segno al conte, che lasciò
la tavola del whist e la seguí in un salottino appartato.
— Siete stata molto
audace, — le disse — e io non ve lo avrei consigliato; ma nel cuore degli
innamorati — aggiunse ridendo — la felicità accresce l'amore; e se voi partite
domattina io vi seguo domani sera. Vorrei partir subito: ma bisogna che mi
trattenga per questo noioso Ministero delle finanze che ho fatto la sciocchezza
di addossarmi: ma in quattro ore bene impiegate si fa la consegna di tutte le
casse possibili e immaginabili. Torniamo nel salone, amica mia, e pompeggiamoci
ancora di vanità ministeriale: forse diamo a Parma la nostra ultima
rappresentazione. Se si crede sfidato, l'uomo è capace di tutto: e dirà di dare un esempio. Quando questa gente se ne sarà
andata, studieremo il modo di barricarci stanotte: forse il meglio sarebbe
partir subito per la vostra tenuta di Sacca che, vicina al Po, ha di buono
l'esser mezz'ora distante dal confine austriaco.
L'amore e l'amor proprio
della duchessa furono deliziosamente accarezzati: guardò il conte e gli occhi
le si empiron di lagrime. Un ministro cosí potente, circondato da una folla di
cortigiani che lo opprimevano di omaggi non minori di quelli che tributavano al
principe stesso, abbandonar tutto per lei, e con cosí cordiale semplicità !
Tornando nel salone era
pazza di gioia: tutti le si prosternavano.
— Com'è contenta la
duchessa! — osservavano i cortigiani. — Effetto della felicità. Non si
riconosce! Finalmente questa superiore anima romana si degna di apprezzare il
favore immenso che Sua Altezza le ha fatto!
Verso la fine della
serata, il conte le si avvicinò:
— V'ho da dare delle
notizie. — Subito coloro che le eran dattorno si allontanarono. — Il principe,
tornando a palazzo, — continuò il conte — s'è fatto subito annunziare alla
principessa. Immaginate la sorpresa! Vengo a rendervi conto, le ha detto, d'una
serata veramente piacevole che ho passato dalla Sanseverina. Lei stessa m'ha
pregato di venirvi a ragguagliare dei mutamenti e degli abbellimenti che ha
fatto in quel vecchio palazzo affumicato. S'è messo a sedere, e ha cominciato
la descrizione delle vostre sale.
«S'è trattenuto quasi
mezz'ora dalla principessa che piangeva di gioia e che, con tutta la sua
intelligenza, non ha bensí saputo trovar una parola per mantener la
conversazione nello stesso tono franco e leggero che Sua Altezza le aveva dato.
Ernesto IV, checché ne
possan dire i liberali italiani, non era malvagio. Non c'è dubbio: ne aveva
fatti cacciar in prigione parecchi; ma per paura; e come per consolarsi di
certi ricordi, usava ripetere: — Piuttosto che lasciarsi ammazzare dal diavolo,
è meglio ammazzarlo noi. — Il domani di quella serata era tutto allegro; aveva
fatto due belle cose: andare al giovedí e parlare alla principessa. Anche a
pranzo le rivolse la parola: insomma da quel «giovedí» della Sanseverina ebbe
origine una rivoluzione intima, della quale tutta Parma echeggiò. La Raversi fu costernata, e la duchessa n'ebbe il duplice contento d'essere utile all'amante, e
d'averlo trovato piú innamorato che mai.
— Tutto ciò per un'idea
imprudente, che, non so come, m'è passata in testa! — diceva al conte. — Certo
a Roma o a Napoli sarei piú libera, ma vi divertirei altrettanto? No, di certo,
caro conte: e voi siete la mia felicità.
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