VII
Se volessimo scriver la storia dei quattro anni che
seguirono dovremmo intesserla di minuti particolari della vita di Corte, futili
come quelli che abbiamo narrato. Ogni primavera la marchesa Del Dongo con le
due figliuole andava a passar due mesi o al palazzo Sanseverina, o a Sacca
sulle rive del Po. Le ore vi correvano dolcemente parlandovi di Fabrizio: ma il
conte non volle mai permettere al giovine una visita a Parma. La duchessa e il
ministro ebbero bensí da riparare a qualche sua scapataggine, ma nell’insieme
può dirsi che Fabrizio battè assiduamente la via che gli era tracciata: da gran
signore che studia teologia, e per far carriera non fa assegnamento sulle
proprie virtù. A Napoli s'era appassionato allo studio dell'archeologia, e la
nuova passione era sottentrata all'antica per i cavalli: tanto che i cavalli
vendeva per far degli scavi a Miseno: e il rinvenirvi un busto di Tiberio
giovine, un de' piú bei resti dell'antichità, fu quasi il maggior piacere che
provasse a Napoli. Aveva l'animo troppo elevato per provarsi a imitare gli
altri giovinetti o per recitar con una tal quale serietà la parte
dell'innamorato. Certo, delle amanti ne aveva, ma non dava loro alcuna
importanza, e, a malgrado della sua età, si poteva dire che non sapeva che cosa
fosse l'amore: ragion per cui egli piaceva alle donne anche di più. Il
contenersi con un gran sangue freddo, gli era facile, perché per lui una donna
giovine e bella era sempre pari a un'altra donna giovine e bella: soltanto che
l'ultima pareva la piú appetitosa. L'ultimo anno del suo soggiorno una delle piú
ammirate duchesse di Napoli fece per lui cose pazze; il che da principio lo
divertí, poi lo seccò a tal punto che la partenza gli fu anche piú grata perché
lo liberava dalle tenerezze di questa bella signora.
Nel 1821, poich'egli ebbe
superati discretamente gli esami, il suo precettore ed aio s'ebbe una croce e
un regalo, ed egli partí per veder finalmente questa famosa città di Parma,
alla quale pensava spessissimo. Era monsignore, e aveva quattro cavalli alla
sua carrozza: all'ultimo cambio, prima di Parma, ne prese due soli, e giunto in
città fece fermar la vettura davanti la chiesa di San Giovanni dove in
magnifica tomba era sepolto l'arcivescovo Ascanio Del Dongo, suo prozío, autore
della Genealogia4: pregò
presso la tomba, poi a piedi andò al palazzo della duchessa che lo aspettava
qualche giorno piú tardi. Nel salone c'eran moltissime persone, venute in
visita: di lí a poco se ne andaron tutte.
— Sei contenta di me? — le
domandò Fabrizio abbracciandola — in grazia tua ho passato a Napoli quattr'anni
beati, invece di seccarmi a Novara con l'amica concordatami dalla polizia.
La duchessa non sapeva
riaversi dallo stupore: se l'avesse incontrato per via non l'avrebbe
riconosciuto. Di fisionomia avvenentissima, le parve, com'era infatti, un de'
piú bei giovinetti d'Italia. L'aveva mandato a Napoli con un fare da
scavezzacollo: lo scudiscio, che allora portava sempre, pareva qualcosa che
integrasse l'essere suo. Ora invece lo vedeva in presenza d'estranei serbar la
piú dignitosa compostezza e lo ritrovava nella intimità con tutti i bollori
della prima gioventù; un diamante insomma, che nulla aveva perduto nella
pulitura. Appena un'ora dopo l'arrivo di Fabrizio, arrivò il conte: un po'
troppo presto: Fabrizio gli parlò della Croce di Parma conceduta al suo
precettore in termini tali, ed espresse con tanto garbo la propria riconoscenza
per altri benefizi de' quali non osò dire con parole piú aperte, che di
prim'acchito il ministro lo giudicò favorevolmente. — Questo vostro nipote —
disse sottovoce alla duchessa — è fatto apposta per aggiungere decoro a
qualsiasi dignità vi piaccia inalzarlo.
Tutto andava cosí a
meraviglia, ma quando il conte, assai contento di Fabrizio e badando sino
allora unicamente a lui, si volse a guardar la duchessa, le vide negli occhi
una luce inconsueta. «Questo giovinetto — pensò — fa qui una singolare
impressione.» Osservazione penosa. Il conte era entrato nella cinquantina:
parola crudele il cui significato soltanto un uomo innamorato perdutamente può
sentir quanto d'amarezza contenga. Il conte era buono, meritevole d'affetto,
salvo i suoi rigori come ministro. Ma quella crudele parola, la cinquantina, gli intorbidava la vita e avrebbe
potuto farlo crudele anche per conto suo. Da cinque anni, dacché aveva indotto
la duchessa ad andare a Parma, ella aveva eccitato spesso la sua gelosia,
massime nei primi tempi, ma non gli aveva mai dato cagione di serie doglianze.
Egli credeva, anzi, e non a torto, che nell'unico intendimento di sempre piú
saldamente avvincerlo a sé, ella avesse simulato predilezione per qualche bel
giovine della Corte. Era certo, per esempio, che aveva ricusati gli omaggi del
principe, il quale, anzi, in questa congiuntura, aveva fatto un discorso
significativo.
«Ma se io accogliessi gli
omaggi di Vostra Altezza, — gli aveva detto la duchessa ridendo — con che
faccia mi potrei ripresentare al conte?»
«Eh! mi troverei confuso
quasi quanto voi. Quel caro conte! cosí buon amico! Ma è una difficoltà che si
può girare: e ci ho pensato: il conte sarebbe rinchiuso nella cittadella pel
resto della sua vita.»
L'arrivo di Fabrizio
ricolmò di tale gioia l'animo della duchessa, che non pensò affatto alle idee
che i suoi occhi potevan suscitar nel conte. E l'effetto fu profondo e i
sospetti irrimediabili.
Fabrizio fu ricevuto dal principe
due ore dopo il suo arrivo; la duchessa, prevedendo la buona impressione che
l'udienza immediata avrebbe prodotto nel pubblico, la sollecitava da due mesi:
infatti l'apparente rapidità ond'era conceduta metteva subito il nipote in una
condizione di privilegio. Pretesto per chiederla fu ch'egli passava da Parma
per andare a salutar sua madre in Piemonte. Nel momento in cui un amabile
bigliettino della duchessa annunziò al principe che Fabrizio aspettava i suoi
ordini, Sua Altezza si annoiava.
Già informato dal
comandante della piazza della prima visita alla tomba dello zio, si aspettava
di vedersi comparire innanzi un santocchio, una faccia da sornione. Vide
entrare un giovinottone, che se non eran le calze violette avrebbe preso per un
ufficiale.
La sorpresa cacciò la
noia. «Eccone uno — disse fra sé — pel quale sa Dio che cosa mi chiederanno!
Certo tutti i favori di cui m'è possibile disporre. È arrivato ora, dovrebbe
esser confuso: gli farò un po' di politica giacobina, e vedremo come se la
caverà.»
Dopo le prime parole
benigne da parte del principe:
— Dica un po', monsignore, — gli domandò — il popolo a Napoli è
contento? Vuol bene al re?
— Altezza Serenissima, —
rispose Fabrizio senza un attimo d'esitazione — io ammirai per le strade il
bellissimo portamento dei soldati di Sua Maestà; la buona società è verso i
sovrani rispettosa come di dovere: ma quanto alla bassa gente non ho tollerato
mai, lo confesso, che mi parlasse d'altro che del lavoro pel quale la pago.
«Accidenti! — pensò il
principe — ecco un uccello bene ammaestrato: ci si sente la scuola della
Sanseverina.» Piccato, prese molto astutamente a interrogar Fabrizio sullo
scabroso argomento. Questi, animato dal pericolo, seppe trovar risposte
ammirevoli.
— L'ostentazione
dell'affetto pel proprio sovrano — disse — è un'insolenza: ciò che al re si
deve è l'obbedienza cieca.
Di fronte a tanta
prudenza, il principe quasi s'indispettí. — Pare che ci arrivi da Napoli un
uomo di bell'ingegno: ma io con questa razza di persone non me la dico: un uomo
d'ingegno ha un bel professare ottimi principii, anche in bonissima fede: è
sempre un po' parente dei Voltaire e dei Rousseau.
Gli pareva d'esser quasi
sfidato dai modi cosí corretti e dai principii incensurabili d'un giovine
uscito allora di collegio: nulla avveniva di quanto aveva preveduto. In men che
non si dica, prese un tono bonario, e con poche parole, toccando i grandi
principii delle società e dei governi, recitò, adattandole al caso, alcune
frasi di Fénélon che da ragazzo gli avevan fatto imparare a memoria per le
udienze pubbliche.
— Questi principii vi
sbalordiranno, giovinetto (lo aveva chiamato monsignore da principio, e si proponeva di dargli ancora del monsignore
accomiatandolo, ma nel conversare gli pareva piú accorto e piú adatto a una intonazione
patetica chiamarlo cosí familiarmente), e confesso che non somigliano alle
pappolate assolutiste che si leggono tutti i giorni nel mio giornale
ufficiale.... Ma già, che vengo a citarvi? che ne sapete voi del mio giornale e
de' suoi redattori?
— Domando scusa a Vostra
Altezza Serenissima; non solo io leggo il giornale di Parma che mi pare scritto
molto bene, ma sono anche d'accordo con lui nel creder che tutto ciò che è
stato fatto dopo la morte di Luigi XIV, nel 1715, è nel tempo stesso delitto e
follia. Ciò che piú importa all'uomo è la salvazione: su questo punto non ci
possono esser due modi di vedere; si tratta della felicità eterna: le parole
giustizia, libertà, benessere del maggior numero sono infami e delittuose:
danno agli uomini la consuetudine della discussione e della diffidenza. Una
camera di deputati non ha fiducia in quel ch'essi chiamano il ministero. E
questa fatale diffidenza, quando se n'è contratto l'abito, si applica a tutto:
l'uomo giunge a diffidar della Bibbia, degli ordini ecclesiastici, della
tradizione, ecc., ecc, ed è perduto. Quando pure questa diffidenza (è mostruoso
e orribile a dirsi) verso l'autorità dei principi eletti da Dio, potesse dar la
felicità pei venti o trent'anni di vita che ognuno di noi può sperare, che vale
un mezzo secolo o magari un secolo intiero in confronto a un'eternità di
supplizi?
Dal modo con cui Fabrizio
parlava, si intendeva bene che non recitava una lezione, ma curava di svolgere
e ordinare le idee in modo da farle piú facilmente percepire a chi le
ascoltava.
Ma il principe si stancò
di contender col giovine, i cui modi semplici e gravi gli davano una tal qual
soggezione.
— Addio, monsignore: — gli
disse bruscamente — vedo che nell'accademia ecclesiastica di Napoli danno
un'ottima educazione; ed è naturale che quando buoni insegnamenti cadon sopra
un intelletto cosí elevato se ne ottengano splendidi frutti. Addio. — E gli
voltò le spalle.
«Non sono piaciuto a
quest'animale!» pensò Fabrizio.
«Ora resta a vedere — osservò
il principe quando fu solo — se questo giovinetto è capace d'appassionarsi a
qualche cosa: allora sarebbe perfetto. È egli possibile di ripeter meglio le
lezioni della zia? Mi pareva di sentir parlar lei: se qui avvenisse una
rivoluzione, dirigerebbe lei il Monitore,
come già la Sanfelice a Napoli! Ma la Sanfelice nonostante la bellezza e i venticinque anni ci lasciò la testa. Avviso alle donne troppo intelligenti!» Egli
s'ingannava, però, nel creder Fabrizio allievo della zia: gli uomini intelligenti
che nascono sul trono o accanto a un trono perdono presto ogni acutezza
d'intuito. Vietano intorno a sé la libertà di conversazione che par loro
rozzezza, non vogliono vedere che maschere, e pretendon d'esser giudici
dell'incarnato: e il bello è che credono di avere un intuito finissimo. Nel
caso nostro, per esempio, Fabrizio credeva press'a poco a tutto quel che aveva
detto; se non che a siffatti grandi principii non gli accadeva di pensar due
volte in un mese. Aveva inclinazioni irrequiete ed ingegno, ma era credente.
L'utopia della libertà, la
moda e la fissazione del benessere
del maggior numero di cui il secolo decimonono s'è incaponito, non erano
agli occhi suoi che «eresie» le quali passeranno come tante altre, ma dopo aver
perduto molte anime, come una pestilenza quando imperversa in un paese
distrugge molti corpi. E ciò non ostante egli leggeva con gran piacere i
giornali francesi e arrivava a commettere imprudenze per procurarsene.
Quando Fabrizio tornò
tutto scombussolato dalla sua udienza a palazzo, e raccontò alla zia i varii
assalti del principe:
— Bisogna — gli diss'ella
— che tu vada subito a far visita al Padre Landriani, nostro ottimo
arcivescovo: vacci a piedi, sali piano le scale, non far rumore in anticamera;
e se ti fanno aspettare, tanto meglio, mille volte meglio. Insomma, sii apostolico in tutto e per tutto.
— Ho capito, — disse
Fabrizio — è un Tartufo.
— Neppur per idea; è la
virtù fatta persona.
— Non ostante ciò che fece
al tempo del supplizio del conte Palanza?
— Sí, caro, anche dopo
quel che fece allora; il padre del nostro arcivescovo era un impiegato al
Ministero delle finanze, un piccolo borghese: ecco la spiegazione. Monsignor
Landriani è un uomo d'intelletto vivo, ampio, profondo; è sincero, ed ama la
virtù. Son certa che se tornasse al mondo un imperatore Decio, subirebbe il
martirio come il Poliuto dell'opera di Donizetti che dettero la settimana
scorsa. Questo è il lato bello della medaglia: il rovescio è che davanti al
sovrano, o anche soltanto al primo ministro, si sente abbagliato dalla loro
grandezza, si turba, arrossisce, gli è impossibile dir di no. Di qui, alcuni
atti suoi che gli han procacciato la reputazione di crudeltà in tutta l'Italia:
ma nessuno sa che appena l'opinione pubblica lo illuminò circa il processo del
conte Palanza, si impose per penitenza di vivere a pane e acqua per tredici
settimane tante quante sono le lettere che formano il nome Davide Palanza. Qui in corte c'è un briccone,
intelligentissimo, un certo Rassi, gran giudice o avvocato fiscale generale,
che a' tempi della morte del povero Palanza stregò addirittura il Padre
Landriani. Al tempo in cui faceva le tredici settimane di penitenza, il conte
Mosca, un po' per pietà un po' per malizia, lo invitava a pranzo una volta o
due per settimana: il buon vescovo per ossequio mangiava come tutti gli altri:
gli sarebbe parsa ribellione e giacobinismo ostentare una penitenza per
un'azione approvata dal sovrano. Ma noi sapevamo che per ogni pranzo in cui il
suo dovere di suddito fedele l'aveva obbligato a mangiar come tutti gli altri,
egli si imponeva due giorni di pane e acqua.
«Monsignor Landriani,
intelligente e dotto come ce n'è pochi, ha un debole: vuole essere amato: e tu
intenerisciti guardandolo, e alla terza visita amalo addirittura. Questo, oltre
alla tua nascita, farà sí ch'egli ti adori. Non mostrarti meravigliato se ti
riaccompagnerà fin sulla scala: mostra d'essere avvezzo a simili cerimonie. È
un uomo nato in ginocchio davanti all'aristocrazia. Del resto, sii semplice,
apostolico: niente argutezza, niente rimbeccate pronte: se non lo sgomenti, si
troverà bene con te. Ricordati che ti deve fare gran vicario motu proprio. Poi, il conte ed io saremo stupefatti
e anche dolenti di questa ascensione cosí rapida. Questo, bisogna farlo per il
sovrano: è essenziale.»
Fabrizio andò
all'arcivescovado; fortunatamente, il cameriere del prelato, un po' sordo, non
intese il cognome Del Dongo; e
annunciò un prete giovine di nome Fabrizio. L'arcivescovo stava con un curato
di costumi poco esemplari ch'egli aveva chiamato ad audiendum verbum;
andava facendo una reprimenda, cosa per lui penosissima, e non voleva aver piú
a lungo quella pena sul cuore: fece aspettar dunque tre quarti d'ora il
pronipote del grande arcivescovo Ascanio Del Dongo.
Come raccontar le sue scuse
e la sua disperazione quando, dopo aver ricondotto il curato fino all'ultima
anticamera, e avendo nel ripassare domandato al prete che aspettava in che poteva servirlo, vide le calze viola e udí il
nome Fabrizio Del Dongo? La cosa parve cosí comica al nostro eroe, che fin da
questa prima visita s'arrischiò in un impeto di tenerezza a baciar la mano del
santo prelato. Bisognava sentir l'arcivescovo ripeter disperato: — Un Del Dongo
aspettare nella mia anticamera! — E per meglio scusarsi si credè in obbligo di
raccontar la storia del curato, i suoi torti, le sue discolpe, e ogni cosa.
«Possibile — si domandava
Fabrizio, tornando al palazzo Sanseverina — che sia questo l'uomo che ha fatto
affrettare il supplizio del povero conte Palanza?»
— Che pensa l'Eccellenza
vostra? — chiese ridendo il conte Mosca, vedendolo tornar dalla duchessa. (Il
conte non voleva che Fabrizio lo chiamasse Eccellenza.)
— Io casco dalle nuvole: e
non capisco niente del carattere degli uomini; se non avessi saputo chi era,
avrei scommesso che quest'uomo non può veder ammazzare un pollo.
— E avreste vinto: —
soggiunse il conte — ma innanzi al principe o anche innanzi a me, non sa dir di
no. Veramente, per produrre su di lui tutto l'effetto, bisogna ch'io abbia il
gran cordone giallo a tracolla: in frac
saprebbe contraddirmi; infatti lo ricevo sempre in uniforme. Non dobbiamo
noi distruggere il prestigio dell'autorità: ci provvedono già abbastanza i
giornali francesi. Sarà gala se la «mania rispettosa» durerà quanto noi: voi,
nipote mio, sopravviverete al rispetto.
Fabrizio aveva molto grata
la compagnia del conte: era la prima persona veramente superiore che si fosse
degnata di rivolgergli la parola senza far la commedia: e, per giunta, avevano
comune la passione per l'archeologia e per gli scavi. Dal canto suo, il conte
era lusingato della deferente attenzione con cui il giovane lo ascoltava. Ma
c'era un guaio serio: Fabrizio occupava un appartamento nel palazzo
Sanseverina, passava tutto il suo tempo con la duchessa, lasciava ingenuamente
intendere che era beato di quella intimità: e Fabrizio aveva un paio d'occhi e
un incarnato d'una freschezza esasperante.
Da un pezzo Ranuccio
Ernesto IV, al quale di rado si opposero resistenze femminili, mal tollerava
che la virtù della duchessa, nota a tutta la Corte, non avesse fatto eccezione per lui. L'intelligenza e la presenza di spirito di Fabrizio lo avevano, come
s'è visto, urtato fin dal primo incontro. Prese in mala parte l'affetto ch'egli
e sua zia si manifestavano sventatamente, e prestò attento orecchio alle
infinite chiacchiere dei cortigiani. La venuta del giovinetto e l'udienza fuor
d'ogni usanza concessagli avevano meravigliato e fatto spettegolezzare la Corte da un mese; da ciò sorse nella mente del principe un'idea.
Aveva nel corpo delle sue
guardie un soldato che reggeva mirabilmente il vino: costui passava le giornate
all'osteria, e riferiva direttamente al sovrano circa le disposizioni d'animo
delle milizie. Carlone non aveva istruzione di sorta: altrimenti da gran tempo
sarebbe stato promosso: ora la sua consegna era di trovarsi a palazzo
quotidianamente quando il grande orologio sonava il mezzogiorno. Il principe
andò in persona a disporre in un certo modo la persiana d'un mezzanino accanto
al suo spogliatoio: vi tornò poco dopo il mezzogiorno, e vi trovò appunto
Carlone. Il principe aveva in tasca un foglio e il necessario per scrivere, e
dettò al soldato questo biglietto:
«Vostra Eccellenza è senza
dubbio uomo intelligentissimo, e si deve alla sua profonda sagacia l'ottimo
governo dello Stato. Ma, caro conte, i grandi e felici successi non si
ottengono senza destare invidia, e io temo che si rida un po' a sue spese, se
il suo acume non s'accorge che un certo bel giovine ha la fortuna di inspirare,
suo malgrado, forse un amore dei piú singolari. Questo felice mortale non ha,
dicono, che ventitré anni; e ciò che complica le cose, caro conte, è che lei ed
io abbiamo un po' piú del doppio di questa bellissima età. Di sera, a una certa
distanza, il conte è vivace, attraente, uomo di spirito, e simpatico quanto si
può essere; ma la mattina, nell'intimità, se si voglion vedere le cose nel loro
vero aspetto, il nuovo venuto ha attrattive maggiori. A noialtre donne, la
freschezza della gioventù piace assai, specialmente quando abbiamo passata la
trentina. Non si parla già di dare al leggiadro adolescente stabile dimora in
Corte con qualche bell'ufficio? Or chi è la persona che ne parla piú spesso a
Vostra Eccellenza?».
Il principe prese la
lettera, e diede due scudi al soldato:
— Questi, oltre il tuo
assegno: — disse torvo — e silenzio assoluto con tutti, o il piú umido dei
sotterranei della fortezza. — Il principe aveva nella sua scrivania una
collezione di buste con gli indirizzi della maggior parte delle persone addette
alla Corte, tutte di mano dello stesso soldato che passava per non saper
scrivere, e non scriveva mai neppure i suoi rapporti: il principe scelse quella
che gli parve piú adatta.
Qualche ora dopo il conte
Mosca ricevè una lettera dalla posta: era stata calcolata l'ora in cui sarebbe
consegnata, e proprio quando il fattorino fu visto entrar col biglietto in mano
e uscire dal Ministero, il Mosca fu chiamato da Sua Altezza. Non mai apparve
signoreggiato da piú profonda tristezza: per goderne meglio, il principe, al
vederlo, gli disse:
— Ho proprio bisogno di
ricrearmi un po': voglio chiacchierar con l'amico, non lavorare col ministro.
Ho anche un'orribile emicrania, e mi vengon certe idee nere....
C'è egli bisogno di dire
quale fosse lo stato d'animo del primo ministro conte Mosca Della Rovere quando
gli fu permesso di lasciare il suo augusto signore? Ranuccio Ernesto IV era
stato abilissimo nell'arte di torturare un cuore; e il paragone con la tigre
che si trastulla scherzando con la preda non sarebbe qui fuor di luogo.
Il conte si fece
ricondurre a casa di galoppo; gridò passando che non lasciassero salir nessuno;
fece dire all'auditore di servizio che lo metteva in libertà (gli era odioso
fin il pensiero che un essere umano fosse alla portata della sua voce!) e corse
a chiudersi nella grande galleria dei quadri. Lí finalmente potè abbandonarsi
all'ira furiosa: lí passò la serata, a lumi spenti, passeggiando senza scopo,
come un uomo fuori di sé. Si studiava di imporre silenzio al suo cuore per
concentrar tutte le forze del suo pensiero nella ponderazione del partito da
prendere. Sprofondato in angosce che avrebbero mosso a pietà il suo piú crudele
nemico, diceva a se stesso: «L'uomo che detesto sta in casa della duchessa, e
passa tutta la giornata con lei. Far parlare qualcuna delle sue donne? Nulla di
piú pericoloso; ella è cosí buona, le paga benissimo e n'è adorata! Ma da chi,
santo Dio, non è adorata? Ed ecco il problema: debbo lasciare scorgere la
gelosia che mi divora, o non parlarne nemmeno?
«Se taccio, non faran
nulla di nascosto a me. Conosco Gina: è una donna di primo impeto: la sua
condotta è sempre un imprevisto anche per lei: se vuole prepararsi una parte da
rappresentare, s'imbroglia: all'ultimo, le salta in mente sempre qualche idea
che le pare la migliore, e scombussola tutto.
«Se non dico nulla di
questo mio martirio, non penseranno a sotterfugi e io vedrò quanto avviene. Sí;
ma se parlo, muto lo stato delle cose; do a riflettere: prevengo molte delle
orribili cose che possono accadere.... Chi sa? forse lo manderebbe altrove (il
conte trasse un respiro); e allora ho quasi partita vinta. Anche se in
principio ci fosse un po' di malumore, la calmerò.... Il malumore del resto
sarebbe naturalissimo... Da quindici anni gli vuoi bene come a un figliuolo. La
mia speranza è tutta qui: come a un figliuolo… Ma dopo la fuga per Waterloo non
l'ha piú visto; da Napoli è tornato specialmente per lei, ed è tornato
tutt'altro uomo! Un altro uomo! — ripetè rabbiosamente — e un uomo che incanta:
massime con quell'aria ingenua e dolce e quegli occhi sorridenti che prometton
tante cose! La duchessa di quegli occhi non è abituata a vederne qui a Corte!
Qui non incontra che sguardi tetri e sarcastici. Io stesso, che sono ciò che
sono se non per l'autorità che esercito sopra un uomo che vorrebbe farmi
ridicolo, anch'io che sguardo debbo spesso avere! Ah sí, per quanto io ci badi,
è proprio lo sguardo la parte piú invecchiata di me! La mia stessa gaiezza non
è quasi sempre ironia? Dirò di peggio: per esser sinceri, la mia gaiezza non
lascia trasparire il potere assoluto... e la cattiveria? Non mi avviene forse
di dir talora a me stesso, specialmente se mi fanno inquietare: io posso quel
che voglio? E anche m'avviene di aggiungere un'altra sciocchezza: io debbo
esser piú felice degli altri, perché ho quel che gli altri non hanno, un potere
senza limiti su una quantità enorme di cose.... Ebbene, siamo giusti:
l'assuefazione a pensar cosí non può non deformare il mio sorriso... deve darmi
una cert'aria di egoismo soddisfatto.... E il sorriso di lui com'è bello! dice
tutte le facili gioie della prima giovinezza e le promette e le inspira.»
Era quella, per mala sorte
del conte, una sera calda, afosa, annunziatrice di tempesta: le condizioni
atmosferiche che in quei paesi spingono alle risoluzioni estreme. Come riferire
tutti i ragionamenti, tutte le diverse considerazioni su ciò che gli accadeva,
onde per tre lunghissime ore si torturò quell'anima appassionata? Vinsero
finalmente propositi di prudenza, per questa concatenazione logica: «Io sono
probabilmente pazzo, credo di ragionare, non ragiono; e mi volto e rivolto
solamente per cercare una posizione che mi faccia soffrir meno, e passo, senza
scorgerlo, daccanto a qualche argomento decisivo. Poiché il dolore eccessivo mi
acceca, seguiamo le norme della cosí detta prudenza, come fan tutti i savi.
D'altra parte, s'io mi lascio sfuggir di bocca la parola fatale: gelosia, la
mia condotta è determinata per sempre; invece, se oggi non dico nulla, posso
parlare domani, e ancora il padrone son io».
La crisi fu cosí violenta
che se fosse durata il conte finiva pazzo davvero. Ebbe qualche momento di
sollievo, e cominciò a pensare alla lettera anonima. Da che parte poteva
venire? Una ricerca di nomi, un giudizio su ciascuno di essi valsero come
diversivo. Finalmente il conte ricordò un baleno malignetto guizzato negli
occhi del principe, che verso la fine dell’udienza aveva accompagnate queste
parole: «Caro amico, bisogna persuadersene, i piaceri e le cure dell'ambizione
piú fortunata, anche del potere illimitato, non sono nulla in confronto
all'intimo tripudio che danno la tenerezza e l'amore. Io sono uomo prima
d'esser principe, e quando ho la gioia di amare, la mia amante si rivolge
all'uomo e non al principe». Il conte riavvicinò quell'istante di esultazione
furbesca a una frase della lettera: «si deve alla sua profonda sagacia l'ottimo
governo dello Stato». «Questa frase è del principe certamente! — esclamò —
detta da un cortigiano sarebbe un'imprudenza gratuita. La lettera è di Sua
Altezza.»
Ma, risolto il problema,
la lieve soddisfazione dell'avere indovinato fu presto soffocata dalla
persecutrice immagine delle attrattive di Fabrizio. Un peso enorme ricadde sul
cuore di quel disgraziato. «Che importa sapere di chi sia la lettera anonima? —
gridò furente. E aggiunse, quasi per giustificarsi d'esser pazzo a tal punto: —
Questo capriccio può metter sossopra la mia esistenza. Un bel giorno, se essa
lo ama veramente, parte con lui per Belgirate, per la Svizzera, per un qualunque angolo del mondo. È ricca; e poi, se anche dovesse viver con pochi
luigi all'anno, che le importerebbe? Non mi confessava, sono appena otto
giorni, che il suo palazzo cosí magnifico, cosí bene arredato l'annoia? E come
si presenta facile questa nuova felicità! Ella sarà trascinata anche prima di
aver pensato al pericolo, prima d'aver pensato a compiangermi! E io sono tanto
infelice!» sclamò dando in un pianto dirotto.
S'era giurato di non andar
dalla duchessa quella sera: ma non potè resistere: no, i suoi occhi non avevan
provato mai tanta bramosia di guardarla. Verso mezzanotte si presentò: la trovò
sola col nipote: alle dieci aveva dato commiato a tutti e fatto chiuder le
porte.
Nel mirare la soave
intimità di quei due e la schietta letizia della duchessa, d'improvviso il conte
fu condotto a pensare quanto arduo gli fosse il superare una difficoltà alla
quale non aveva pensato durante le lunghe disquisizioni nella galleria dei
quadri: come nascondere la sua gelosia.
Non sapendo a che pretesti
ricorrere, raccontò che quella sera il principe s'era mostrato moltissimo
disposto contro di lui, e lo aveva contraddetto in tutte le sue affermazioni;
ma ebbe il rammarico di vedere che la duchessa lo ascoltava appena e non badava
affatto ai particolari di quel racconto che due giorni innanzi le avrebbero
dato argomento a sproloqui senza fine; e che Fabrizio ascoltava invece con
molto maggiore attenzione.
Il conte lo guardò: quella
bella fisionomia lombarda non gli era mai sembrata cosí nobile e pura.
«Veramente — pensò — in quella testa si uniscono la bontà estrema e l'effusione
di un'allegrezza cosí dolce e cordiale che è irresistibile. Par che vi si debba
leggere. Al mondo non ci sono che due cose le quali meritino d'esser prese sul
serio: l'amore e la gioia ch'esso porta con sé; eppure se si prenda a parlare
di argomenti che esigono qualche acume d'intelletto, il suo sguardo si desta,
vi sbigottisce e si rimane confusi. Tutto è semplice a' suoi occhi perché tutto
è visto dall'alto. Come, mio Dio, come combattere contro un tale nemico? E poi
che cosa è la vita senza l'amore di Gina? In quale rapimento essa ascolta le
graziose facezie di quello spirito giovine, che a una donna deve parere unico
al mondo!»
Un'idea atroce venne al
conte, come un crampo: «Pugnalarlo lí davanti a lei e uccidermi poi!».
Fece un giro per la sala,
sorreggendosi appena sulle gambe, ma stringendo convulsamente l'impugnatura del
suo stiletto. Nessuno de' due badava a quel ch'egli facesse, neppure quando
disse che andava a dare un ordine al suo lacchè; non lo udiron neppure, perché
la duchessa rideva di una parola dettale da Fabrizio. Nel salotto vicino il
conte s'avvicinò a una lampada, e guardò se la punta del pugnale era bene
affilata. «Con questo giovinetto bisogna far le cose con garbo» disse a se
stesso tornando e raccostandosi ai due.
Perdeva addirittura il
cervello: gli parve che chinandosi si baciassero lí sotto i suoi occhi. «È
impossibile, in presenza mia; — disse — io perdo la ragione. Bisogna che mi
calmi: se uso modi aspri, la duchessa è capace, per puntiglio di vanità,
d'andar con lui a Belgirate, e lassù o anche nel viaggio, il caso può far uscir
la parola che darà nome a quel ch'essi sentono l'uno per l'altro; e condurrà
alle inevitabili conseguenze.
«La solitudine farà
definitivo quel nome; e d'altra parte che sarà di me se lei s'allontana? E se,
pur superando sa Dio quante difficoltà da parte del principe, vo a Belgirate
con la mia vecchia faccia angustiata, che figura farò tra quei due inebriati di
felicità? Anche qui già non son altro che il terzo incomodo.»
Che dolore per un uomo di
spirito sentir di recitare una parte odiosa e non aver la forza di alzarsi e
d'andarsene!
Stava per prorompere, o
per lo meno per palesar nel viso sconvolto l'intima angoscia. E poiché nel
passeggiar su e giù per la sala si trovò presso all'uscio, prese la fuga,
gridando in tono cordiale:
— Addio, voialtri! — e
pensando: «bisogna che sangue non scorra!».
Il domani di questa serata
orribile e di una notte insonne passata or nell'enumerare i vantaggi di
Fabrizio, or nel darsi alle smanie crudeli di una gelosia furibonda, venne in
mente al Mosca di chiamare un suo cameriere che faceva la corte alla Checchina,
la preferita tra le cameriere della duchessa. Fortunatamente il giovine
domestico era di buona condotta, un po' avaro, e desiderava un posto d'usciere
in qualcuno degli uffici pubblici di Parma. Il conte gli ordinò di far venire
subito la Checchina; ordine immediatamente eseguito, sicché un'ora dopo il
conte potè all'improvviso entrar nella stanza in cui la ragazza stava col suo
fidanzato. Il conte li stordí tutt'e due con la quantità d'oro che regalò a
loro; poi alla Checchina che tremava domandò fissandola negli occhi:
— La duchessa fa all'amore
con Monsignore?
— No, — rispose la ragazza
decidendosi dopo un momento di silenzio — no... ancora no; ma lui bacia spesso
le mani della signora, ridendo, è vero, ma con molto calore.
Questa testimonianza fu
completata da cento risposte a cento domande furiose del conte: la sua inquieta
passione fece duramente scontare a quei poveri diavoli il denaro che aveva loro
regalato! Alla fine, si persuase di quello che gli attestavano, e n'ebbe un
sollievo.
— Se la duchessa ha il piú
vago sospetto di questo colloquio, — disse alla Checchina — io manderò il
vostro fidanzato per vent'anni in fortezza, e voi lo rivedrete coi capelli
bianchi.
Passaron dei giorni,
durante i quali Fabrizio perde alla sua volta tutto il buonumore.
— T'assicuro — diceva alla
duchessa — che al conte Mosca io sono manifestamente antipatico.
— Tanto peggio per Sua
Eccellenza — rispondeva lei, stizzita.
Ma non per cosí poco la
gaiezza di Fabrizio era scomparsa. Pensava: «Cosí non posso durare: son certo
ch'ella non parlerà mai. D'una parola troppo significativa avrebbe orrore come
d'un incesto. Ma se dopo una giornata un po' piú allegra del solito, dopo
qualche atto imprudente, la sera fa il suo esame di coscienza e si immagina che
io abbia indovinato l'inclinazione che ha per me, che figura ci fo? quella del
casto Giuseppe. (Modo di dire italiano che allude al contegno ridicolo di
Giuseppe con la moglie dell'eunuco Putifarre.)
«Farle capire in uno sfogo
confidenziale che io non sono capace di amare veramente? Ma a me non riesce
dire una cosa simile, senza che paia un'impertinenza! Che inventassi una grande
passione lasciata a Napoli? Ma allora bisogna ch'io vi torni almeno per
ventiquattro ore: questo sarebbe il meglio ma procura troppi fastidi. Non resta
che un amoretto di bassa lega qui a Parma: può dispiacere, ma tutto è meno male
che continuare a far l'uomo che non vuol capire. Vero è che quest'ultimo
espediente potrebbe compromettere il mio avvenire, e sarebbe necessario
attenuarne i pericoli usando prudenza e comprando il silenzio.»
In tanto lavorio di
escogitazioni, questo v'era di angoscioso: che Fabrizio amava la duchessa di
gran lunga piú che altra persona al mondo. «Bisogna proprio essere d'una
goffaggine singolare, — diceva arrabbiandosi — per aver tanta paura di non
riuscire a persuadere di una cosa cosí vera!» Sentendosi inetto a trarsi di
impaccio diventava inquieto e malinconico. «Che sarebbe di me, Dio santo, se io
mi guastassi col solo essere al mondo pel quale provo un affetto cosí vivo?» E
d'altra parte non sapeva decidersi a distruggere con una parola arrischiata una
condizione di cose che gli era cosí cara, cosí piena di dolcezze, d'intimità
con una donna tanto bella, cosí simpatica, cosí deliziosa! Anche nelle
relazioni quotidiane, la sua protezione gli faceva tanto gradevole la vita in
quella Corte, i cui intrighi, grazie a lei che glieli spiegava, lo divertivano
come una commedia! «Ma da un momento all'altro io posso essere svegliato da un
fulmine! Queste serate cosí serene, cosí gioconde, passate insieme, noi due
soli, possono condurre a qualcosa di piú concreto; e se una donna come questa
cosí vivace, cosí risoluta, crede di aver trovato in me un amante, mi chiederà
Dio sa quali manifestazioni, quali pazzie, e io non potrò offrirle che una
affezione profonda, ma niente più. La natura m'ha negato questa sublime
demenza. Quanti rimproveri m'ha procurato questo difetto! Mi par di sentire
ancora la duchessa d'A.... E io mi ridevo della duchessa! Anch'ella crederà che
io non abbia amore per lei; e invece è l'amore che manca a me; non se ne
capaciterà mai. Qualche volta dopo un aneddoto sulla Corte, raccontato da lei
con la grazia che lei sola al mondo possiede, e che è tanto necessaria alla mia
educazione, io le bacio la mano; qualche volta anche la guancia. Che avverrà se
una sera quella mano stringerà la mia in un certo modo?...»
Fabrizio compariva ogni
giorno nelle case di coloro che godevano a Parma di maggior considerazione e
dove ci si uggiva di più. Guidato dai sagaci consigli della duchessa, faceva
una corte abilissima ai due principi, padre e figlio, alla principessa
Clara-Paolina e a Monsignore Arcivescovo. E aveva buoni successi, ma non lo
consolavano della mortale paura di guastarsi con la duchessa.
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