IX
Fabrizio era stanchissimo:
i discorsi del vecchio, l'attenzione intensa ad essi rivolta, lo avevan molto
eccitato. Stentò a prender sonno e nel sonno si agitò per sogni ch'eran forse
presagi. La mattina verso le dieci fu destato dal vacillare di tutto il
campanile, intanto che uno spaventevole rumore parea venir dal di fuori. Si
levò atterrito e credé d'essere alla fine del mondo; poi pensò che fosse
prigioniero: e gli ci volle un po' di tempo per farsi capace che il rumore non
era se non il suono della grossa campana che quaranta contadini mettevano in
moto in onore di San Giovita: e dieci sarebbero stati piú che sufficienti.
Cercò un luogo dal quale
gli fosse possibile vedere senz'esser visto; e subito s'avvide che da
quell'altezza l'occhio dominava i giardini e la corte interna del castello Del
Dongo. Lo aveva dimenticato. Il pensiero di quel padre, agli estremi ormai
della vita, mutò tutti i suoi sentimenti. Scorse perfino i passeri che cercavan
qualche briciola di pane sul grande balcone della sala da pranzo. «Sono i
discendenti di quelli che addomesticai in altri tempi» pensò. Quella terrazza,
come tutte le altre del castello, era piena d'una grande quantità di piante
d'arancio, in vasi di terra piú o meno grandi: al vederli, s'intenerí: l'aspetto
di quella corte interna, cosí adornata con ombre ben nette, delineate da un
sole sfolgorante, era veramente grandioso.
Gli tornò in mente la
prostrazione di suo padre. «Strano: — pensava — mio padre non ha che
trentacinque anni piú di me: trentacinque e ventitré non fan che cinquantotto!»
E i suoi occhi, fissando le finestre della camera di quell'uomo severo che non
l'aveva amato mai, s'empiron di lagrime. Un fremito lo scosse, e un gelo gli
corse improvviso per le vene quando gli parve vederlo che attraversava fra le
piante d'arancio una terrazza allo stesso livello della sua camera: ma era un
cameriere. Proprio a pié del campanile una schiera di ragazze vestite di
bianco, e divise in gruppi, ornavano a disegni con fiori rossi, azzurri e
gialli la strada per la quale doveva passare la processione. Ma ben altra vista
gli si parava dinanzi e toccò piú vivamente il suo cuore: dal campanile, i due
rami del lago si dispiegavano per grandissimo tratto ai suoi sguardi: sublime
spettacolo onde ogni altro gli si nascose: esso ridestò in lui i sentimenti piú
elevati e piú puri, i ricordi dell'infanzia gli si affollarono alla mente,
sicché quella giornata di prigionia in un campanile fu forse una delle piú
felici della sua vita.
Tale intima letizia lo
sollevò a un'altezza di pensieri che non era dell'indole sua; considerò gli
avvenimenti della propria vita, lui cosí giovine, come se fosse giunto al suo
ultimo giorno. E dopo aver per ore parecchie piacevolmente fantasticato:
«Bisogna convenirne, — disse fra sé — dal mio arrivo a Parma, io non ho mai piú
goduto la gioia tranquilla, perfetta, che godevo a Napoli, galoppando per le
vie del Vomero o lungo le spiagge di Misene. Gl'intrighi complicati di quella
piccola Corte perversa han fatto perverso anche me.... Io non trovo alcun
piacere nell'odio: credo che non mi verrebbe se non un triste compiacimento
dalla umiliazione de' miei nemici, dato che ne avessi; ma non ne ho.... Un
momento! — si disse a un tratto. — Ce l'ho un nemico: il Giletti. Curiosa! Il
piacere che proverei a vedere andare al diavolo quel brutto ceffo sopravvive al
capriccio che m'era venuto per la Marietta.... Ah! non è degna di legar le
scarpe alla duchessa d'A***, che fui obbligato ad amare a Napoli, perché mi
uscí detto ch'ero innamorato di lei. Santo Dio! quante volte mi sono annoiato
nei lunghi colloqui che mi elargiva quella povera duchessa! E non mi è mai
capitato nulla di simile nella stanzettuccia mezza camera e mezza cucina dove la Marietta mi ha ricevuto due volte e per due minuti soltanto.
«Ma che roba mangia quella
povera gente! Fa compassione!... Io avrei dovuto fare a lei e alla mammaccia
una pensione giornaliera di tre bistecche.... La Mariettina mi distoglieva dai cattivi pensieri che mi venivano dal frequentar quella Corte. E
forse era meglio che avessi preso a far la vita dei caffé, come dice la
duchessa: pareva che lei preferisse quel partito, e certo ha piú ingegno di me.
Grazie ai suoi regali, o anche soltanto con la pensione di quattromila lire e
con le quarantamila depositate a Lione, che mia madre destina a me, potrei
sempre avere un cavallo e qualche scudo per far degli scavi e comporre un
piccolo museo. Poiché pare che l'amore mi sia negato, queste saranno per me le
grandi sorgenti d'ogni mia contentezza; e vorrei, prima di morire, rivedere il
campo di battaglia di Waterloo, e tentar di ritrovare la prateria dove fui cosí
graziosamente divelto dal cavallo e buttato a sedere per terra. Compiuto questo
pellegrinaggio, tornerò spesso su questo lago meraviglioso: niente al mondo ci
può essere di piú bello, almeno per me. A che affaticarsi a cercar tanto
lontano la felicità? Eccola, è qui sotto i miei occhi!
«Ah, — riprese poi, come
obiettando a se stesso — la polizia mi scaccia dal lago di Como! Ma io son piú
giovine di quelli che la comandano. Qui non troverei una duchessa d'A***, ma
troverei una di quelle ragazze che accomodano fiori sulla strada, e le vorrei
bene lo stesso. Quel che mi raffredda, anche, è l'ipocrisia; e le nostre gran
dame tiran troppo al sublime. Napoleone ha condotto anche loro ad almanaccare
con la costanza e con la morale!
«Diavolo! — sclamò a un
tratto, ritirandosi dalla finestra, come se avesse temuto che, non ostante
l'ombra dello sportellone che riparava le campane dalla pioggia, lo potessero
riconoscere — ecco uno sciame di gendarmi in alta tenuta.» Infatti dieci
gendarmi, de' quali quattro sottufficiali, spuntavan in capo alla strada
principale: il quartiermastro li collocò alla distanza di cento passi l'uno
dall'altro lungo il tratto che la processione doveva percorrere. «Qui tutti mi
conoscono, e se qualcuno mi vede, io fo un salto solo dal lago di Como allo
Spielberg, dove mi metteranno una catena di cento libbre per gamba: e che
dolore per la duchessa!»
Gli ci vollero due o tre
minuti per ricordarsi che era innanzi tutto a piú di ottanta piedi d'altezza,
che si trovava relativamente all'oscuro, che gli occhi di quelli che avrebbero
potuto guardare erano abbagliati dal gran sole, e infine ch'essi passeggiavan
con gli occhi spalancati per strade nelle quali tutte le case erano state
imbiancate in onore di San Giovita. Ma non ostante questa filza di cosí chiari
argomenti, all'anima italiana di Fabrizio non sarebbe stato piú possibile alcun
godimento se tra i gendarmi e sé non avesse interposto un pezzo di vecchia tela,
inchiodato alla finestra, e bucato in due punti per poterci vedere attraverso.
Le campane intronavan
l'aria da dieci minuti, la processione usciva di chiesa, i mortaretti scoppiavano. Fabrizio volse lo sguardo
e riconobbe il piccolo spiazzale chiuso da un parapetto dalla parte del lago,
dove tante volte, da ragazzo, s'era esposto a vedere i mortaretti
scoppiargli fra i piedi; ragione per la quale i giorni di festa sua madre lo
voleva accanto a sé.
Per chi non lo sapesse, i mortaretti sono pezzi di canne di fucile segate a
un'altezza di quattro pollici, per fare i quali i contadini raccolgono
avidamente i fucili che la politica europea, dopo il 1796, ha cosí abbondantemente disseminato pei piani lombardi. Ridotti a una tale misura, questi
cannoncini si caricano fino alla bocca, poi si posano in terra, dritti e
collegati l'un l'altro da una striscia di polvere, disposti cosí due o trecento
su tre righe come un battaglione, in qualche spiazzo prossimo alla via che la
processione percorre. Quando il Santissimo Sacramento s'avvicina, si dà fuoco
alla striscia di polvere; e comincia un fuoco di fila di colpi secchi, il piú
disuguale e ridicolo che immaginare si possa: le donne dall'allegria vanno
fuori di sé: e quel rombo desta veramente allegria in chi lo ascolta da lontano
sul lago, quando gli giunga mitigato dall'ondeggiare delle acque. E il
singolare fragore che tante volte lo aveva rallegrato nella fanciullezza, anche
ora riuscí a cacciar dalla mente di Fabrizio i gravi pensieri che gli occupavan
la mente. Andò a prendere il cannocchiale dell'abate, e riconobbe la maggior
parte degli uomini e delle donne che seguivano la processione. Parecchie
graziose bambine che aveva lasciato di dodici o tredici anni erano adesso donne
bellissime nel pieno fiore della vigorosa giovinezza: e ridestarono il coraggio
nell'animo del nostro eroe che per parlare con loro avrebbe magari braveggiato
contro ai gendarmi.
Quando la processione fu
passata e rientrata in chiesa da una porta laterale che dal campanile non si
vedeva, il caldo diventò opprimente anche in cima al campanile; tutti se ne
andarono alle proprie case, e nel villaggio fu gran silenzio. Molte barche
partirono zeppe di contadini che tornavano a Bellagio, a Menaggio, e in altri
paeselli sul lago: Fabrizio percepiva il rumore distinto di ogni colpo di remo;
e questo particolare cosí insignificante lo mandava in estasi: la sua gioia
presente si componeva di tutti gli accoramenti, di tutti i fastidi ond'ei
vedeva variamente costretta la vita delle Corti. Come sarebbe stato lieto, in
quel momento, di vogare su quel bel lago cosí tranquillo e che rispecchiava
cosí bene l'azzurra profondità del cielo! Sentí aprir la porta del campanile:
era la vecchia donna di servizio dell'abate, che portava un gran paniere: dové
fare un gran sforzo per trattenersi dal parlarle. «Essa m'é affezionata quasi
quanto il suo padrone, — pensava — e poi stasera alle nove io me ne vado: certo
mi terrebbe il segreto che le farei giurare, almeno per queste poche ore. Ma
questo farebbe dispiacere all'amico, e potrebbe anche comprometterlo coi
gendarmi!» Cosí lasciò partir la Ghita senza farsi vedere. Fece un pranzetto
eccellente, poi s'accomodò per dormir qualche minuto; e non si destò che alle
otto e mezzo di sera: l'abate Blanes lo scoteva per il braccio: era notte.
L'abate era stanchissimo:
mostrava cinquant'anni piú del giorno innanzi: non parlò piú di cose serie dal
suo seggiolone.
— Abbracciami — disse a Fabrizio:
e lo strinse al petto piú volte. — La morte — aggiunse poi, — che sta per
chiudere questa vita cosí lunga, non sarà cosí dolorosa come questa
separazione. Io ho una borsa che lascerò in custodia alla Ghita con l'ordine di
trarne il denaro che possa abbisognarle e di consegnarti il resto, quando tu
venga a richiederlo. La conosco, e dopo questa raccomandazione ella è
capacissima, credi, di economizzare per te fino al punto di non comprarsi carne
quattro volte in un anno, se tu non le dài ordini precisi. Anche tu puoi
ridurti in miseria, e l'obolo del tuo vecchio amico potrà esserti utile. Da tuo
fratello non aspettarti altro che bricconate delle piú nere; e procura di
guadagnare con un qualunque lavoro che ti faccia utile alla società. Io prevedo
strane burrasche: forse fra cinquant'anni di gente che non lavori non se ne
vorrà piú sapere: tua madre e tua zia posson venirti a mancare, e le tue
sorelle dovranno obbedire ai loro mariti.... Vattene, vattene, fuggi! — gridò
con impeto. Aveva sentito un piccolo ronzio dell'orologio, che annunciava lo
scoccar delle dieci, e non volle nemmeno permettere che Fabrizio lo baciasse
un'ultima volta. — Spicciati, spicciati: ti ci vorrà almeno un minuto a scender
le scale; bada di non cadere: sarebbe di pessimo augurio.
Fabrizio si precipitò giú
per la scala, e giunto nella piazza si mise a correre. Era appena arrivato
davanti al castello di suo padre che sonaron le dieci: ogni rintocco gli si
ripercoteva dentro al petto e l'animo se ne turbava. Sostò per riflettere, o
piuttosto per lasciarsi andare alla piena dei sentimenti appassionati che
gl'inspirava la contemplazione di quel maestoso edifizio con tanta freddezza
osservato il giorno prima. Dalla specie di sogno nel quale era immerso si
ridestò udendo passi d'uomo che si avvicinavano. Guardò, e si vide fra quattro
gendarmi. Aveva due ottime pistole, alle quali aveva rinnovato l'esca durante
il desinare: il piccolo rumore ch'egli fece per armarle attrasse l'attenzione
d'uno dei gendarmi, e poco mancò non lo facesse arrestare. S'accorse del
pericolo e pensò di far fuoco per primo: era suo diritto, perché era il solo
modo di tener testa a quattro uomini bene armati. Fortunatamente i gendarmi,
che giravano per far chiudere le osterie, non avevano sdegnato le cortesi offerte
fatte loro in parecchi di quei giocondi ritrovi; e non si decisero abbastanza
sollecitamente a fare il loro dovere. Fabrizio si dié a correre a gambe levate:
i gendarmi fecero anch'essi qualche passo correndo, e gridando: «Ferma, ferma!»
poi tutto tornò nel silenzio. A trecento passi di là Fabrizio si fermò per
ripigliar fiato. «Poco è mancato che le mie pistole non m'abbiano fatto
acchiappare. La duchessa, se mai mi fosse stato possibile rivedere i suoi begli
occhi, avrebbe avuto ragione di dirmi che il mio spirito si compiace nella
contemplazione di ciò che accadrà tra dieci anni, e si scorda di guardare ciò
che avviene oggi, accanto a me.»
Ebbe un brivido pensando
al pericolo scampato; affrettò il passo, ma di lí a poco non poté trattenersi
dal ripigliare la corsa; il che fu poco prudente, perché dette nell'occhio a
parecchi contadini che se ne tornavano a casa. Ma non seppe vincersi e non
s'arrischiò a fermarsi se non sulla montagna, piú d'una lega distante da
Grianta; e quando si fermò sudò freddo pensando allo Spielberg.
«Ho avuto una bella paura!
— disse; ma pronunziata la parola, fu quasi tentato di vergognarsene. — Ma la
zia non mi ha detto che ciò che m'é piú necessario è l'imparare a perdonarmi?
Io mi paragono sempre a un modello perfetto che non può esistere. è giusto
ch'io mi perdoni la mia paura, perché ero ben disposto a difendere la mia
libertà, e non sarebbero di certo rimasti in quattro a portarmi in prigione.
Quel ch'io sto facendo è poco soldatesco: — aggiunse — invece di ritirarmi rapidamente
dopo raggiunto il mio scopo, e probabilmente messo in allarme il nemico, mi
trastullo in fantasticherie forse piú ridicole di tutte le previsioni del caro
abate.»
Infatti, invece di prender
la via piú corta e giungere alla riva del lago Maggiore, dove la barca lo
aspettava, fece un giro lunghissimo per andar a vedere il suo albero. Il
lettore si ricorda forse dell'affetto che Fabrizio aveva per un castagno
piantato da sua madre ventitré anni prima. «C'é da meravigliare che mio
fratello non abbia fatto tagliare quest'albero: l'atto sarebbe degno di lui; ma
quegli esseri non capiscon nulla di queste cose delicate: non ci avrà pensato.
E del resto, non sarebbe mica stato di malaugurio.» Due ore dopo, al vederlo,
fu costernato: o fosse maligna opera di qualche sbarazzino, o danno cagionato
dalla tempesta, fatto sta che uno dei rami principali del giovine albero era
troncato e secco. Fabrizio lo tagliò pacatamente valendosi del suo pugnale e
ridusse ben netto il taglio, affinché l'acqua non s'infiltrasse nel tronco.
Poi, sebbene il tempo fosse prezioso, perché l'alba stava per ispuntare, si
trattenne piú d'un'ora a smuover la terra intorno al caro albero. Fatte infine
tutte queste pazzie, riprese rapidamente la via del lago Maggiore. Tutto ben
considerato, triste non si sentiva. Il castagno aveva un bel portamento,
cresceva vigoroso e in cinque anni era quasi raddoppiato: la troncatura del
ramo, accidente di niun conto: una volta reciso, il ramo non poteva piú nuocere
all'albero che guadagnerebbe di snellezza, la sua impalcatura cominciando piú
in alto.
Fatte poche miglia, scorse
la striscia fulgida di candore che disegnavano a levante i picchi del Resegone
di Lecco, montagna celebre nella regione. La strada battuta da lui era percorsa
da gran numero di contadini, ma Fabrizio, che non aveva idee bellicose, si
compiaceva nel mirare e ammirare commosso i boschi dei dintorni del lago di
Como, che sono forse i piú belli del mondo: non quelli, ben inteso, che
fruttano piú scudi nuovi, come direbbero in Isvizzera, ma quelli che meglio
parlano all'anima.
Dar l'orecchio a questo
linguaggio, nelle condizioni in cui Fabrizio si trovava, oggetto delle solerti
cure dei signori gendarmi lombardo veneti, era un vera ragazzata. «Sono a poca
distanza dal confine — pensò finalmente — e m'imbatterò di sicuro nei doganieri
o gendarmi che fanno la ronda della mattina: questo vestito di panno fino
desterà sospetto, mi chiederanno il passaporto: e sul mio passaporto è scritto
in tutte lettere un nome già promesso alla carcere: eccomi nella gradevole
necessità di commettere un omicidio. Se, come per solito, i gendarmi vanno a
due a due, non posso mica aspettare a far fuoco che uno mi pigli pel collo: una
volta preso, Dio guardi, io me ne vo difilato allo Spielberg.» Inorridito da
questa necessità di far fuoco per primo, e, con tutta probabilità, contro un
vecchio soldato di suo zio il conte Pietranera, egli s'andò a nascondere nel
tronco vuoto d'un enorme castagno; e stava mutando l'esca alle pistole, quando
avvertí che qualcheduno veniva dal bosco, cantando assai bene una dolcissima
aria del Mercadante, allora molto in voga nella Lombardia.
«Ecco un buon augurio»
pensò. E quella melodia, ch'egli ascoltò con religiosa attenzione, bastò a
mortificare il germe della collera che cominciava a inquinare i suoi
ragionamenti. Guardò nella strada dall'un lato e dall'altro, e non vide
nessuno. «Questo che canta verrà per qualche traversa» pensò: e quasi nel
momento stesso scorse un cameriere che, ben vestito all'inglese e cavalcando
una rozza tenuta al passo, menava per le briglie un altro bel cavallo di razza,
sebbene, forse, di eccessiva magrezza.
«Ah! s'io ragionassi come
il conte Mosca, quando bada a ripetere che i pericoli che un uomo corre danno
la misura de' suoi diritti sul prossimo, brucerei la testa con una pistolettata
a questo cameriere, e una volta a cavallo, m'infischierei di tutti i gendarmi
del mondo. Poi, appena a Parma, manderei dei quattrini o a lui o alla
vedova.... Ma sarebbe una orribile cosa!»
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