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Stendhal
La certosa di Parma

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  • XI
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XI

 

Fabrizio, uscendo dall'arcivescovato, corse dalla Marietta: udí da lontano il vocione del Giletti, che aveva fatto venire del vino e dava trattamento al suggeritore e al lumaio del teatro, amici suoi. La pseudo-madre rispose sola al suo segnale.

C'é del nuovo — gli disse — da che non ti si vede: due o tre dei nostri attori sono accusati di aver fatto una gran baldoria per celebrar la festa del gran Napoleone; e la nostra compagnia, perché dicono che è giacobina, ha avuto l'ordine di sfrattare dagli Stati parmensi: e viva Napoleone! Ma il ministro, dicono, ha unto le ruote. Certo è che Giletti de' quattrini ne ha; quanti non lo so, ma gli ho visto una manciata di monete. Il direttore ha dato alla Marietta cinque scudi, a titolo di spese di viaggio per Mantova o Venezia: e a me ne ha dato uno. Quella povera figliuola è sempre innamoratissima di te, ma ha paura del Giletti: tre giorni fa, all'ultima recita, voleva ammazzarla a ogni costo: le appioppò due schiaffi tremendi, e quel che è peggio, le stracciò lo scialle turchino. Se tu gliene regalassi un altro, saresti un bravo figliuolo e noi si direbbe di averlo vinto a una lotteria. Il capotamburo dei carabinieri domani darà un saggio di scherma: a che ora, lo potrai vedere negli affissi alle cantonate. Vieni a trovarci: se lui c'é andato, e si può sperare che si trattenga fuori un pezzo, io sarò alla finestra e ti farò cenno di salire. Vedi di portarci qualcosa di grazioso: la Marietta ti vuole un gran bene.

Nello scendere la scala di quell'orribile tugurio, Fabrizio era compunto. «Io non sono cambiato affatto: — pensava — tutti i bel proponimenti fatti lassú sul nostro lago, quando contemplavo le cose del mondo filosoficamente, sono sfumati. L'anima mia aveva perduto l'ordinario equilibrio ed ora il sogno svanisce davanti alla dura realtà. Sarebbe il momento di agire» diceva tornando al palazzo Sanseverina verso le undici di sera. Ma cercò invano il coraggio di parlare con quella sublime schiettezza che gli era parsa cosí facile la notte delle sue meditazioni sulle rive del lago. «Io irriterei la persona che ho piú cara al mondo se parlo, e avrei l'aria d'un cattivo commediante. Io non valgo qualcosa se non in certi momenti d'esaltazione

— Il conte è ammirevole con me, — diceva poi alla duchessa, dopo averle raccontato la sua visita all'arcivescovo — e tanto piú apprezzo la sua condotta quanto piú mi par di capire che gli vado mediocremente a verso: bisogna dunque ch'io mi conduca molto bene con lui. Per i suoi scavi di Sanguigna, ha una specie di fanatismo, almeno a giudicarne dalla sua gita di ierlaltro: ha fatto dodici leghe al galoppo per stare un paio d'ore coi suoi operai. Egli teme che se trovano qualche frammento di statua nel tempio antico del quale ha scoperto le fondamenta, glielo rubino: vorrei proporgli di andar io a passar trentasei ore a Sanguigna. Domani verso le cinque debbo riveder l'arcivescovo: potrei partire in serata e far questa gita col fresco.

La duchessa non rispose subito.

— Si direbbe che tu cerchi dei pretesti per allontanarti da me: — disse poi con gran tenerezza — appena tornato da Belgirate cerchi un'occasione per andartene.

«Ecco il momento buono per parlare; — pensò Fabrizio — ma sul lago io ero un po' sbalestrato; nel mio impeto di sincerità non m'é venuto in mente che il mio complimento non può finire che con un'impertinenza. Si tratta di dire: io ho per te l'amicizia piú devota ecc. ecc., ma il mio cuore non è capace d'amore. È lo stesso che dire: m'accorgo benissimo che tu mi ami, ma è inutile, non posso contraccambiarti. Se quello ch'ella sente è amore, le dispiacerà ch'io l'abbia indovinato, e se non ha per me che una cordiale amicizia, s'indignerà della mia impudenza... E sono offese che non si perdonano

Mentre andava rimuginando questi pensieri, Fabrizio passeggiava per la sala grave e altero, da uomo che vede la sventura vicina.

La duchessa lo guardava ammirandolo: non era piú il bambino ch'ella aveva visto nascere; non il ragazzo sempre pronto a obbedirla: era un uomo del quale sarebbe delizioso l'amore.

Si alzò dall'ottomana, e gittandosi fra le sue braccia:

— Vuoi dunque fuggirmi? — gli domandò.

— No, — rispose Fabrizio con un'aria da imperatore romano — ma vorrei aver giudizio.

Eran parole che si prestavano a varie interpretazioni. Fabrizio non si sentí il coraggio di andar piú avanti, a rischio d'offendere quella donna adorabile. Era troppo giovine, troppo facile a commuoversi; né l'ingegno sapeva indicargli una forma gentile per far intendere quel che avrebbe voluto dire. In uno slancio naturale e non ostante tutti i bel ragionamenti, si strinse tra le braccia la bella donna e la copri di baci. S'udí il rumore della carrozza del conte, sotto l'androne, e quasi subito egli stesso entrò in sala: pareva molto commosso.

— Voi inspirate delle curiose passionidisse a Fabrizio. — L'arcivescovo è andato stasera all'udienza che Sua Altezza gli accorda ogni giovedí. Il principe m'ha raccontato che l'arcivescovo, tutto turbato, ha cominciato un discorso imparato a memoria e pieno di dottrina, del quale da principio non si capiva nulla. Poi il padre Landriani ha dichiarato essere di somma importanza per la Chiesa di Parma che monsignor Fabrizio Del Dongo sia nominato intanto suo primo vicario generale, e in segreto, appena cioé abbia compiuto i ventiquattro anni, suo «coadiutore con futura successione». Confesso che queste parole m'hanno spaventato: si va un po' troppo alla lesta e io temevo qualche rabbuffo del principe; ma mi ha guardato ridendo e m'ha detto in francese: «Ce sont-là de vos coups monsieur!». Io posso prender giuramento davanti a Dio e davanti all'Altezza Vostra, ho protestato con tutta l'unzione possibile, che ignoravo affatto «la futura successione». E ho detto la verità: quello che noi dicevamo qui proprio, poche ore fa: ho aggiunto che avrei considerato come il massimo dei favori di Sua Altezza, se avesse degnato accordarmi un piccolo vescovato, perché entraste in carriera. Si vede che il principe mi deve aver creduto, perché molto amabilmente e con tutta la semplicità possibile m'ha detto: «Questo è un affare da sbrigarsi tra l'arcivescovo e me: voi non c'entrate affatto. L'arcivescovo m'ha mandato una specie di rapporto ufficiale assai lungo e discretamente noioso che conclude con una proposta ufficiale: gli ho risposto molto pacatamente che il soggetto è molto giovine, e venuto troppo di fresco alla mia Corte; e io avrei quasi l'aria di pagare una cambiale tratta su me dall'imperatore, dando la prospettiva d'una cosí alta dignità al figlio d'uno dei grandi ufficiali del regno lombardo-veneto. L'arcivescovo ha protestato che non c'é alcuna raccomandazione di questo genere: mi ha meravigliato che un uomo cosí esperto venisse a dire proprio a me una sciocchezza simile: ma quando parla con me è sempre un po' disorientato, e stasera piú che mai, il che mi ha fatto pensare che la cosa gli stava veramente a cuore. Gli ho risposto ch'io sapevo meglio di lui che non c'erano state altre raccomandazioni pel Del Dongo, che nessuno in Corte negava la sua capacità, e che non si diceva troppo male de' suoi costumi; ma io lo temevo proclive alle infatuazioni, e avevo fatto a me stesso la promessa di non affidar mai altri uffici agli entusiasti dei quali un principe non può mai esser sicuro. Allora, ha continuato Sua Altezza, ho dovuto succiarmi uno squarcio patetico, lungo press'a poco come il primo: l'arcivescovo m'ha fatte le lodi dell'entusiasmo per la casa di Dio. Malaccorto, pensavo, tu vai fuor di strada e comprometti la nomina che ti era quasi accordata; bisognava tagliar corto e ringraziarmi. Ma che! badava a continuare la sua omelia con una intrepidezza ridicola: io cercavo una risposta che non paresse troppo sfavorevole al piccolo Del Dongo, e l'ho trovata, abbastanza buona come sentirete: Monsignore, gli ho detto, Pio VII fu un gran papa e un gran santo: di tutti i sovrani fu il solo il quale osasse dir no al tiranno che aveva tutta l'Europa a' suoi piedi: ebbene, anche lui era facile a entusiasmarsi: e perché tale, scrisse, quando era vescovo d'Imola, la famosa pastorale del cittadino cardinal Chiaramonti, a favor della repubblica cisalpina. Il povero arcivescovo è rimasto stupefatto; e per finire di sbigottirlo, gli ho detto, serioAddio, monsignore, prendo tempo ventiquattro ore per riflettere sulla sua proposta. Il pover uomo ha aggiunto altre istanze, molto poco opportune dopo che gli avevo detto addio: ma ora, conte Mosca della Rovere, vi incarico di dire alla duchessa che non voglio indugiare ventiquattr'ore a far cosa che può riuscirle graditasedete e scrivete all'arcivescovo il biglietto d'approvazione che conclude questa faccenda.» Ho scritto il biglietto, Sua Altezza l'ha firmato, e mi ha detto: «Portatelo subito alla duchessa». Eccolo, mia cara signora; è questo che m'ha procurato il piacere di vedervi stasera.

La duchessa lesse, felicissima. Durante il lungo racconto del conte, Fabrizio aveva avuto tempo di rimettersi; e non mostrò di meravigliarsi troppo: prese la cosa da vero gran signore, il quale sempre crede di aver naturalmente diritto a quegli straordinari vantaggi e a quelle fortune che farebbero perder la testa a un borghese: disse brevemente della sua riconoscenza, e conchiuse, rivolgendosi al conte:

— Un buon cortigiano deve lusingar la passione dominante: ieri dicevate di temere che i vostri operai a Sanguigna rubino i frammenti di statue che possono dissotterrare: gli scavi mi divertono assai: se permettete, andrò a sorvegliarli. Domani sera, dopo i ringraziamenti a palazzo e all'arcivescovo, partirò per Sanguigna.

— Ma vi riesce di indovinarechiese al conte la duchessadonde venga questa passione improvvisa dell'arcivescovo per Fabrizio?

— Non ho bisogno di indovinare: il gran vicario, che ha un fratello capitano, mi diceva ieri: «Il padre Landriani parte da questo principio ben sicuro, che il titolare è superiore al coadiutore, e non cape in sé dalla gioia d'avere a' suoi ordini un Del Dongo, e di avergli reso servizio. Tutto quel che prova a mettere in luce la eccelsa origine di monsignor Fabrizio accresce la sua intima soddisfazione. Avere un tale uomo per aiutante di campo! Inoltre monsignore gli piace, perché davanti a lui il Landriani non si sente timido. E infine da dieci anni ha un odio cordiale pel vescovo di Piacenza che ostenta clamorosamente la pretesa di succedergli nell'arcivescovato di Parma; che per giunta è figlio d'un mugnaio e che, appunto per preparare questa successione, ha stretto relazioni con la marchesa Raversi: relazioni che mettono l'arcivescovo in grande trepidazione circa la buona riuscita del suo progetto: aver nel proprio stato maggiore un Del Dongo e potergli comandare a bacchetta

Due giorni dopo, di buon mattino, Fabrizio sorvegliava gli scavi a Sanguigna, di fronte a Colorno, la Versaglia dei principi di Parma. Questi scavi si facevano nella pianura in vicinanza della grande strada che va da Parma a Casalmaggiore, prima città dell'impero austriaco. Gli operai tagliavano, dividevano in due parti quella pianura mediante una lunga trincea profonda otto piedi e strettissima: si trattava di cercare, lungo l'antica strada romana, le rovine d'un tempio che secondo tradizioni locali nel medio evo esisteva ancora. Non ostante gli ordini del principe, parecchi de' campagnoli vedevano, non senza rancore, quel lungo fossato scompigliare le proprie terre: e qualunque cosa si dicesse loro, non si riusciva a rimuoverli dalla persuasione che tutto quel lavorio si faceva per trovare un tesoro; e la presenza di Fabrizio era opportuna per impedire qualche possibile disordine. Egli non s'annoiava; seguiva con passione i lavori, e poiché di quando in quando veniva in luce qualche antica medaglia, vigilava affinché gli operai non avessero il tempo di mettersi d'accordo e di farla sparire.

La giornata era bella: potevano esser le sei della mattina: Fabrizio aveva trovato a prestito un vecchio fucile a una canna, e tirò a qualche allodola; una, ferita, cadde sulla strada, ed egli, andando a raccoglierla, scorse di lontano una vettura che veniva da Parma verso Casalmaggiore. Aveva appena ricaricato il fucile, quando nella carrozzella sgangherata che s'avanzava lentamente, riconobbe la Marietta, e accanto a lei quello sciamannato spilungone del Giletti e la vecchia che fungeva da madre.

Il Giletti pensò che Fabrizio si fosse appostato in mezzo alla strada col fucile in mano per insultarlo e magari per rapir la ragazza. Da uomo di coraggio, saltò giú dalla vettura: aveva nella sinistra un pistolone arrugginito e nella destra una spada col fodero, della quale si serviva quando gli toccava recitar qualche parte di gentiluomo.

— Ah, brigante! — gridò — son proprio contento di trovarti qui vicino alla frontiera: ora ti concio io per le feste! Qui le calze violette non ti proteggono piú.

Fabrizio faceva dei cenni alla Marietta, e non badava alle grida, quando all'improvviso si vide puntata al petto la bocca della pistola: fu a tempo appena a parare il colpo, servendosi del fucile come d'un bastone; il Giletti sparò ma senza ferir nessuno.

Férmati dunque, perdio! — gridò questi al vetturino; e al tempo stesso d'un balzo si gettò sul fucile dell'avversario e acciuffatane la bocca la tenne volta in modo da non esserne colpito ove sparasse. Fabrizio e lui tiravano ognuno il fucile con quante forze avevano. Ma il Giletti, piú vigoroso, mettendo una mano avanti l'altra, si avvantaggiava e stava per impadronirsi dell'arma, quando Fabrizio, per impedirgli di servirsene, sparò. Aveva osservato che la bocca del fucile era a piú di tre dita sopra la spalla dell'altro, che al sentirsi la detonazione presso l'orecchio, rimase un po' stordito, ma si rimise subito.

— Ah, mi vuoi far saltare le cervella, canaglia! Va che facciamo i conti! — Gittò via il fodero della spada e si precipitò su Fabrizio, che non avendo armi si vide perduto.

Scappò verso la vettura che s'era fermata una decina di passi distante, alle spalle del Giletti, le passò a sinistra e tenendosi alle molle le girò rapidamente intorno sino allo sportello di destra, rimasto aperto: il Giletti, che aveva preso lo slancio con le sue lunghe gambe e che non aveva pensato ad afferrarsi alla vettura, fece parecchi passi avanti senza potersi fermare. Mentre Fabrizio passava vicino allo sportello, la Marietta gli sussurrò:

Bada che t'ammazza! Tieni.

Fabrizio vide cader giú un grosso coltello da caccia: si chinò per raccattarlo, ma si sentí toccato alla spalla da un colpo di spada tirategli dal Giletti. Nel rialzarsi si trovò a faccia a faccia con lui che col pomo della spada lo colpi furiosamente nel viso: con tale violenza, che lo fece uscire di senno. Fu proprio sul punto d'essere ammazzato: ma per sua fortuna il Giletti gli era troppo vicino per potergli con la spada assestare un colpo mortale. Riavutosi dallo stordimento, fuggí, e nella corsa gittò via il fodero del coltello da caccia, poi voltandosi all'improvviso si trovò a tre passi dal Giletti che lo rincorreva cosí velocemente da non potersi sull'istante fermare: gli ammenò una puntata, ma il Giletti con la spada fu in tempo a deviar verso l'alto il colpo di coltello, e ricevé cosí la ferita in pieno nella guancia sinistra. Fabrizio a sua volta si sentí colpire alla coscia dal coltello che il Giletti aveva avuto tempo di aprire; finalmente fece un salto a destra e si voltò: i due avversarii erano per combattere a giusta distanza l'uno dall'altro.

Il Giletti bestemmiava come un dannato.

— Ah, ti scannerò, canaglia d'un prete! — gridava di continuo. Fabrizio ansava e non poteva parlare: il colpo dell'elsa alla faccia lo faceva soffrir molto, e di gran sangue gli usciva dal naso: col coltello da caccia parava i colpi, e ne tirava, senza ben rendersi conto di quel che facesse: aveva una vaga impressione d'essere a una gara schermistica. Gli davan questa idea gli operai degli scavi che in venticinque o trenta facevan circolo, a rispettosa distanza, attorno ai due combattenti.

L'attacco pareva rallentare alquanto: i colpi si succedevano meno rapidi, quando a Fabrizio venne pensato: «Al dolore che sento, costui mi deve avere addirittura sfigurato». Con questa idea pel capo si scaraventò furioso sull'avversario, drizzandogli al petto la punta del suo coltellaccio: la punta entrò nel petto del Giletti a destra e uscí dalla spalla sinistra: e nello stesso istante che la spada del Giletti veniva spinta quanto era lunga sull'omero di Fabrizio: ma lo sfiorò lasciandovi una ferita da nulla.

Il Giletti era caduto: Fabrizio gli guardò la mano che impugnava il coltello e la vide aprirsi macchinalmente, lasciando l'arma. «Il furfante è morto» pensò, e osservandolo s'accorse che dalla bocca gli usciva gran sangue. Corse alla vettura.

— Hai uno specchio? — domandò alla Marietta che lo guardava, pallidissima, e non rispondeva. La vecchia con imperturbabile serenità trasse da una sacca da viaggio uno specchietto grande un palmo e glielo porse. Egli mirandovisi si palpava il viso: «Gli occhi son sani, — disse fra sé — ed è già molto». Guardò i denti: nessuno era spezzato. — Come mai, allora mi tanto dolore? — mormorò.

La vecchia gli rispose:

— Gli è che la vostra guancia è rimasta schiacciata tra il pomo della spada e l'osso che c'é sotto. È orribilmente gonfia e livida: metteteci subito delle mignatte e non sarà nulla.

— Ah, delle mignatte, subito! — disse Fabrizio, ridendo. Già gli tornava il sangue freddo. Vide che gli operai erano intorno al Giletti e lo guardavano senza arrischiarsi a toccarlo.

Dategli dunque qualche aiuto! — gridòspogliatelo. — E stava per continuare, quando, voltato l'occhio, scorse cinque o sei uomini distanti un trecento passi sulla strada, che venivano innanzi marciando militarmente.

«Son gendarmi, — pensò — e siccome c'é un morto, m'arresteranno e mi procureranno l'onore d'un ingresso solenne a Parma. Che bell'episodio per gli amici della Raversi che detestano la zia

In un battibaleno, buttò agli operai sbigottiti tutto il denaro che aveva in tasca, e saltò nella carrozza.

Impedite ai gendarmi di inseguirmi, — gridò — e farò la vostra fortuna. Dite che sono innocente; che quell'uomo m'ha aggredito e voleva ammazzarmi. E tu, — disse al vetturinometti i cavalli al galoppo: avrai quattro napoleoni se passi il Po prima che mi abbian raggiunto.

Va bene; — rispose il vetturino — ma non abbiate paura: quelli sono a piedi, e basta il trotto delle mie bestie per lasciarli un bel pezzo indietro. — E mise al galoppo i cavalli.

Dalla parola «paura» usata dal cocchiere, il nostro eroe si sentí offeso: ma dopo il colpo ricevuto sulla faccia una grande paura l'aveva avuta, in realtà.

— Noi possiamo incontrar gente a cavallo, — disse il vetturino prudente, che pensava ai quattro napoleoni, — e gli uomini che c'inseguono posson gridare che ci fermino.... — Il che significava: «Ricaricate le vostre armi».

— Ah, come sei coraggioso, abatino mio, — disse la Marietta abbracciandolo. La vecchia, intanto, guardava fuori dalla vettura: e dopo un po' si ritrasse dallo sportello.

— Nessuno v'insegue, signore, — disse a Fabrizio molto tranquillamente — e nessuno viene verso di noi. Sapete come sono meticolosi gli impiegati della polizia austriaca: se vi vedono arrivar di galoppo sulla riva del Po v'arrestano di certo.

Fabrizio guardò a sua volta fuori dallo sportello.

— Al trotto, — disse al cocchiere. E alla vecchia: — Che passaporti avete?

— Tre invece d'uno, — rispose quella — e ce li han fatti pagare quattro lire l'uno: è un orrore per dei poveri artisti che viaggiano tutto l'anno! Ecco il passaporto del Giletti, artista drammatico: sarete voi. Ed ecco quello della Mariettina e il mio. Ma il Giletti aveva in tasca tutto il nostro denaro: come faremo?

— Quanto aveva? — domandò Fabrizio.

— Quaranta begli scudirispose la vecchia.

— Ossia sei e qualche spicciolo: — corresse Marietta ridendo — non voglio che il mio abatino sia imbrogliato.

— Ma non è naturaleriprese la vecchia con serena indifferenza — ch'io cerchi di scroccarvi trentaquattro scudi? Cosa sono per voi trentaquattro scudi? E noi invece abbiamo perduto il nostro protettore! Chi ci troverà gli alloggi? Chi s'incaricherà di contrattare coi vetturini quando s'ha da viaggiare, e di metter paura alla gente? Il Giletti non era bello, ma ci serviva: e se questa imbecillotta non si fosse sul serio innamorata di voi, lui non si sarebbe mai accorto di nulla, e voi ci avreste dato dei bravi denari. Siamo tanto povere! Non vi dico bugie.

Fabrizio, un po' commosso, trasse la borsa, e le diede alcuni napoleoni.

Vedete: non me ne rimangono che quindici: è dunque inutile d'ora in poi tirarmi per la giacca.

La Marietta gli si buttò al collo, e la vecchia gli baciò le mani. La vettura andava sempre al piccolo trotto; quando si fu in vista delle barriere gialle listate di nero che segnavano il confine dei dominii austriaci, la vecchia disse:

— Voi fareste meglio a entrare a piedi, col passaporto del Giletti in tasca: noi ci fermeremo qualche momento col pretesto di ravviarci un po'; e c'é del resto la dogana che visiterà i nostri bagagli; voi, datemi retta, traversate Casalmaggiore con l'aria di sfaccendato, e magari entrate in un caffé a prendere un bicchierino d'acquavite; poi, appena fuori dal paese, via di carriera. La polizia è vigilantissima nei paesi austriaci, e sarà presto informata che c'é stato un ammazzamento: voi viaggiate con un passaporto non vostro, e c'é già piú di quel ch'é necessario per passare un paio d'anni in gattabuia. Uscendo dal paese voltate a destra, arrivate al Po, pigliate una barca e andate a Ferrara o a Ravenna: insomma non perdete tempo e uscite dallo Stato austriaco. Con un paio di napoleoni qualche doganiere vi farà un altro passaporto: quello che avete può esservi fatale: non vi scordate che quello al quale apparteneva l'avete ammazzato voi.

Fabrizio, andando a piedi verso il ponte di barche di Casalmaggiore, rilesse attentamente il passaporto del Giletti; aveva una gran paura addosso. Si rammentava ciò che gli aveva detto il conte Mosca circa i pericoli che avrebbe corso rientrando nei territori austriaci; e vedeva a ducento passi quel terribile ponte che gli avrebbe dato accesso in un paese, la cui capitale era a' suoi occhi lo Spielberg. Ma come fare altrimenti? Il ducato di Modena, che limita a mezzogiorno lo Stato parmense, doveva per una convenzione pattuita riconsegnare i fuorusciti: la frontiera che oltre le montagne tocca Genova, era troppo lontana: tutto quanto era accaduto sarebbe stato noto a Parma avanti che egli potesse giungervi; non restavan dunque che gli Stati austriaci a sinistra del Po. Dovevano passare almeno trentasei ore e forse due giorni prima che da Parma potessero scrivere alle autorità austriache per farlo arrestare. Tutto ciò bene considerato, bruciò col sigaro il suo proprio passaporto: in terra austriaca, meglio per lui essere un vagabondo che Fabrizio Del Dongo; ed era probabile che lo frugassero.

Oltre la repugnanza facilmente spiegabile che egli provava affidando la propria vita al passaporto dello sciagurato Giletti, difficoltà non facili a vincere sorgevano dal documento medesimo. Fabrizio era alto al piú cinque piedi e cinque pollici, e non cinque piedi e dieci, come recavano i connotati; aveva quasi ventiquattro anni e ne mostrava anche meno, e il Giletti ne aveva trentanove. Passeggiò una lunga mezz'ora lungo una controdiga del Po presso il ponte, senza sapersi decidere a scendervi. «Che cosa consiglierei a un altro che si trovasse nelle mie condizioni? Evidentemente di passare; c'é troppo pericolo a restare negli Stati di Parma; un uomo che ne ha ucciso un altro, fosse pure per legittima difesa, possono sempre mandare un gendarme a cercarlo.» Si frugò per tutte le tasche, strappò tutte le sue carte e non tenne che il fazzoletto e il portasigari: gli premeva di abbreviare quanto fosse possibile l'interrogatorio che gli si preparava. Pensò a una terribile obbiezione, alla quale non gli riusciva di trovare che infelici risposte: doveva dire che si chiamava Giletti, e tutta la sua biancheria era marcata F.D.

Come si vede, Fabrizio era una vittima della propria immaginazione, difetto comune agli uomini intelligenti in Italia. Un soldato francese coraggioso del pari o anche meno, se ne sarebbe andato a passar il ponte senza nemmeno pensare a difficoltà; ma vi sarebbe andato con tutto il suo sangue freddo, e Fabrizio era ben lontano dall'aver sangue freddo quando, in capo al ponte, un omettino vestito di grigio gli disse:

Passi nell'ufficio di polizia, per il passaporto.

Le pareti di quella stanza d'ufficio, sudice alquanto, erano ornate di chiodi ai quali stavano appesi i berretti altrettanto sudici e le pipe degli impiegati. Il grande banco d'abete dietro al quale essi stavano trincerati, era tutto chiazze d'inchiostro e di vino; due o tre grossi registri rilegati in pelle verde avevan macchie di tutti i colori e sul taglio delle pagine la nera impronta lasciatavi dalle mani sporche che l'adoperavano. Sui registri collocati uno sull'altro, eran tre magnifiche corone d'alloro che l'antivigilia avevan servito per una festa dell'imperatore.

Fabrizio notò tutti questi particolari, che gli strinsero il cuore: cosí scontava il lusso magnifico del suo appartamento nel palazzo Sanseverina: costretto cosí a entrare in quel lurido ufficio, a entrarvi come inferiore; e perfino a subirvi un interrogatorio.

Il funzionario, che tese la mano giallastra per prendervi il passaporto, era piccolo e nero: aveva alla cravatta uno spillo d'ottone. «Questo è un borghese di malumore» pensò Fabrizio. L'impiegato parve assai meravigliare leggendo il passaporto: e impiegò nella lettura cinque buoni minuti.

— Che v'é successo? — domandò infine al forestiero guardandogli la guancia.

— Il vetturino ci ha ribaltati sulla diga.

Ricominciò il silenzio durante il quale il poliziotto squadrò piú volte con truci occhiate il viaggiatore.

«Ci siamo: — pensò Fabrizioora mi dice che è dolente di dovermi dare una cattiva notizia, e mi arresta.» Ogni sorta di idee pazzesche passaron per la mente del nostro eroe, che in quell'istante non ragionava a fil di logica. Per esempio, pensò a fuggire dalla porta dell'ufficio rimasta aperta. «Butto via il vestito, mi tuffo nel Po, e certo lo attraverso a nuoto. Tutto è meglio dello Spielberg.» Mentr'egli calcolava le probabilità di buon successo della sua bella trovata, l'impiegato lo guardava fisso: ed erano a vedersi le loro due caratteristiche fisionomie! La presenza del pericolo lampi di genio all'uomo ragionevole, e lo solleva per cosí dire al disopra di se stesso; all'uomo d'immaginativa, invece, inspira romanzi audaci, si, ma spesso anche assurdi.

Bisognava vedere l'aria indignata del nostro eroe sotto lo sguardo scrutatore del poliziotto ornato dello spillo d'ottone. «Se l'ammazzassi, — pensava — sarei condannato a vent'anni di galera o a morte; il che è meno terribile che lo Spielberg con una catena di centoventi libbre per gamba, e un pane d'otto once al giorno! E dura vent'anni! cosí che non ne uscirei che a quarantaquattro.» La logica di Fabrizio dimenticava che avendo bruciato il suo passaporto, nulla poteva indicare a quel funzionario ch'egli fosse il ribelle Fabrizio Del Dongo.

Il nostro eroe, come si vede, era discretamente spaventato: lo sarebbe stato anche piú se avesse potuto leggere nel pensiero del commesso di polizia. Era per l'appunto un amico del Giletti; ed è facile immaginare la sua meraviglia nel vedere quel passaporto nelle mani d'un altro. Il suo primo pensiero fu di fare arrestare quest'altro: ma riflette che il Giletti poteva aver venduto il suo passaporto a quel bel giovinetto il quale, secondo le apparenze, aveva fatto a Parma qualche brutto tiro. «Se l'arresto, — pensava — il Giletti sarà compromesso: è facile capire che ha venduto il passaporto: ma d'altra parte, che diranno i miei superiori se si scopre che io, amico del Giletti, ho vistato il suo passaporto a un altro?». Si levò sbadigliando, e disse a Fabrizio:

Aspetti, signore. — Poi, per consuetudine d'ufficio, soggiunse: — C'é una difficoltà.

«C'é ch'io me ne scappo» disse Fabrizio fra sé.

L'impiegato uscí dall'ufficio, lasciando la porta aperta; e il passaporto rimase sul banco di abete. «Il pericolo è evidente; — pensò Fabrizioora ripiglio il passaporto e ripasso pian piano il ponte: e se il gendarme m'interroga, gli dirò che ho dimenticato di farmi fare il visto dal commissario dell'ultimo paese dello Stato di Parma.» E aveva già ripreso il suo documento quando con grande stupefazione sentí il commesso dallo spillo d'ottone che diceva:

— Ah, proprio non ne posso piú: questo caldo leva il fiato: vado a pigliarmi un caffé: quando avrete finito la vostra fumata, sul banco c'é un passaporto da vistare: il viaggiatore è che aspetta.

Fabrizio, che se ne andava in punta di piedi, si trovò a faccia a faccia con un bel giovinetto, che canticchiava: «Firmiamo il passaporto, facciamo l'arabesco».

— Dove va il signore?

— A Mantova, Venezia e Ferrara.

— E Ferrara, va benerispose l'impiegato zufolando; prese un timbro, impresse il visto in inchiostro azzurro e nello spazio bianco scrisse in fretta Mantova Venezia Ferrara, tracciò in aria parecchi ghirigori, firmò e intinse di nuovo la penna per circondare la propria firma di uno svolazzo tracciato lentamente con grandissima cura. Fabrizio seguiva tutti i movimenti di quella penna; l'impiegato si compiacque nel rimirar lo svolazzo, vi aggiunse quattro o cinque puntolini, e finalmente consegnò disinvolto il foglio dicendo:

— Buon viaggio, signore.

Fabrizio s'allontanava con un passo di cui tentava dissimular la rapidità, quando si sentí prendere pel braccio sinistro: istintivamente pose la mano sull'elsa del pugnale, e se non si fosse visto in mezzo all'abitato, forse avrebbe fatto una sciocchezza. Quegli che lo aveva toccato, vedendolo cosí sconvolto, disse in forma di scusa:

— Ma io la ho chiamata tre volte, senza aver risposta: ha nulla da dichiarare alla dogana?

— Non ho che il fazzoletto: vo qui vicino a caccia da un mio parente.

Se gli avessero chiesto chi fosse questo parente sarebbe stato bene imbarazzato a rispondere. Col caldo che faceva e con tante emozioni, Fabrizio era bagnato come se uscisse dal fiume. «Io non manco di coraggio contro gli attori comici, ma gl'impiegati dalle spille d'ottone mi metton fuori della grazia di Dio: argomento per un sonetto burlesco con cui farò ridere la duchessa

Appena entrato in Casalmaggiore, Fabrizio prese a destra una brutta straducola che scende al fiume. «Ho gran bisogno degli aiuti di Cerere e di Bacco» disse; ed entrò in una bottega fuor della quale, appeso a un bastone, sventolava uno straccio grigio con scrittovi Trattoria. Un mediocre lenzuolo sorretto da due archetti, e scendente fino a tre piedi da terra, riparava la porta della trattoria dai raggi diretti del sole. Dentro, una donna seminuda e piuttosto graziosa lo ricevé con grande rispetto, il che gli fece molto piacere: subito le disse che moriva di fame. Intanto che la donna preparava la colazione, entrò un uomo d'una trentina d'anni: entrando, non aveva salutato; ma a un tratto si alzò dalla panca su cui s'era buttato, e disse a Fabrizio:

Eccellenza, la riverisco.

Questi, che aveva ripresa la sua gaiezza, invece di pensare a malanni rispose ridendo:

— E come diavolo conosci la mia Eccellenza?

— Come? Vostra Eccellenza non riconosce Lodovico, uno dei cocchieri della signora duchessa Sanseverina? A Sacca, dove s'andava sempre in campagna, prendevo le febbri: chiesi alla signora di pensionarmi e son venuto via. Ora son ricco: invece dei dodici scudi al massimo cui potevo aver diritto, la signora duchessa me ne ha dati ventiquattro all'anno, per lasciarmi agio a far dei sonetti; perché io son poeta in lingua volgare, e il signor conte m'ha detto che se mai mi succedesse qualche disgrazia, non avevo che da ricorrere a lui. Io ebbi l'onore di condurre Monsignore quando, da buon cristiano, andò a far gli esercizi spirituali alla certosa di Velleja.

Fabrizio esaminò quest'uomo e gli parve di riconoscerlo: era uno dei cocchieri piú eleganti di casa Sanseverina: ora che, come diceva, era ricco, aveva per tutto vestito una camicia lacera e un paio di calzoni di tela, stati neri in altri tempi, che gli arrivavano a mala pena al ginocchio: un paio di scarpe e un cappellaccio malandato completavano l'abbigliamento. Per giunta, non s'era fatta la barba da una quindicina di giorni. Mangiando la sua frittata, Fabrizio intavolò con lui una conversazione come da pari a pari; gli parve di capire che Lodovico era l'amante dell'ostessa. Finí alla lesta la sua colazione e disse a mezza voce a Lodovico:

— Ho da parlarvi.

— Vostra Eccellenza può parlare con tutta libertà davanti a lei: è una donna veramente buona.

— Ebbene, amici miei, — disse Fabrizio senza alcuna esitazione — io sono un disgraziato e ho bisogno del vostro aiuto: ho ammazzato un uomo che voleva assassinarmi perché parlavo con la sua amante.

Povero giovinetto ! — esclamò l'ostessa.

— Vostra Eccellenza faccia pure assegnamento su di me — gridò il cocchiere con fervore devoto. — Dove vuole andare?

— A Ferrara. Ho un passaporto, ma vorrei scansare i gendarmi, che potrebbero essere informati della cosa.

— Quand'é accaduta?

Stamani alle sei.

— Vostra Eccellenza non ha macchie di sangue sui vestiti? — chiese l'ostessa.

— Ci pensavo anch'io; — disse il cocchiere — ma poi questi abiti son troppo fini: non se ne vedono di simili per le nostre campagne, e potrebbero richiamar l'attenzione. Vo a comprarne degli altri dall'ebreo: Vostra Eccellenza è a un dipresso della mia statura; un po' piú magro soltanto.

— Fatemi il piacere: non mi chiamate Eccellenza; anche questo può richiamar l'attenzione.

, Eccellenza, — rispose il cocchiere uscendo dalla bottega.

Be' be', — gridò Fabrizio — e i denari?

— Ma che denari! — rispose l'ostessaLodovico ha sessantasette scudi che sono a sua disposizione. E anch'io, — aggiunse abbassando la voce — ne ho una quarantina che v'offro con tutto il cuore: non sempre si han quattrini con sé quando capitan di questi casi.

Fabrizio s'era tolto il vestito entrando nella trattoria.

— Lei ha un panciotto che potrebbe procurar dei fastidi se venisse qualcuno: codesta bella tela inglese darebbe nell'occhio. — E gli portò un gilé di tela nera, ch'era di suo marito. Entrò per un uscio interno un giovinetto alto, vestito con una certa eleganza.

— È mio maritodisse l'ostessa. E volgendosi a lui: — Pietr'Antonio, questo signore è un amico di Lodovico: gli è capitato un guaio stamani, di dal fiume, e desidera scappare a Ferrara.

— Ce lo porteremo: — rispose il marito molto garbatamentec'é la barca di Carlo Giuseppe.

Per un'altra debolezza, che noi confesseremo, come abbiamo confessata la sua paura nell'ufficio di polizia, il nostro eroe aveva le lagrime agli occhi: era profondamente commosso dall'assoluta devozione che trovava in quella povera gente: avrebbe voluto farli prosperi e felici e pensava alla gran bontà di sua zia. Lodovico tornò con un pacco.

Addio te, — gli disse il marito, in tono di cordiale amicizia.

— Si tratta di ben altro — dichiarò Lodovico, nell'aspetto molto sgomento: — si comincia a parlar di lei: hanno osservato che entrando in questo vicolo pareva esitante e quasi sfuggisse la strada principale, come chi si vuoi nascondere.

Salga subito in cameradisse il marito.

La camera grande e bella aveva della tela grigia alle due finestre invece dei vetri: e c'eran quattro larghissimi letti.

— E presto, e presto! — aggiunse Lodovico. — C'é uno scemo di gendarme, arrivato da poco, che si provò a far la corte all'ostessa qui sotto: io gli dissi che quando va in perlustrazione può benissimo incontrar per la sua strada una schioppettata. Ora se quel cane sente parlar di Vostra Eccellenza è capace di farci un tiro e di venirla ad arrestar qui, per compromettere la trattoria della Teodolinda. Ma come? — continuò vedendo la camicia insanguinata e le ferite bendate con dei fazzoletti — il porco s'é dunque difeso? Per farla arrestare basterebbe questo; io camicie non ne ho comprate. — L'ostessa aprí senza cerimonie un cassettone e diede una delle camicie del marito a Fabrizio, che fu cosí trasformato in un agiato borghese di campagna. Lodovico staccò una rete sospesa al muro, gittò gli abiti di Fabrizio in un paniere da pesca, scese correndo e uscí rapidamente da una porta di dietro: Fabrizio lo segui.

Teodolinda, — disse passandonascondi quel che è su; noi andiamo ad aspettar fra i salici; e tu, Pietr'Antonio, mandaci subito una barca: si paga bene.

Lodovico fece traversare piú di venti fossi a Fabrizio. Sui piú larghi, assi molto lunghe ed elastiche facevan da ponti: Lodovico, dopo che eran passati, le toglieva. Arrivato all'ultimo canale, tolse l'asse in fretta.

Ora possiamo respirare: quel cane di gendarme avrà da fare un giro di piú di due leghe per raggiungere Vostra Eccellenza.... Ma lei è pallidissimo.... Però guardi: non ho mica scordato la bottiglia dell'acquavite.

Bravo! arriva a proposito: la ferita alla coscia comincia a farsi sentire. Eppoi ho avuto una bella paura nell'ufficio di polizia!

— Lo credo: anzi non so come abbia avuto il coraggio d'entrarci, con una camicia cosí zuppa di sangue. Quanto alle ferite, io me ne intendo: troverò un riparo fresco dove lei potrà dormire. Se una barca si potrà avere, verrà a cercarci, e se no, dopo che sarà riposato, faremo un altro paio di leghe, e andremo a un mulino, dove io potrò prenderne una. Vostra Eccellenza ne sa piú di me: la signora sarà disperata quando le racconteranno quel ch'é successo: le diranno che è ferito mortalmente, o, chi sa? fors'anche che ha ammazzato quell'altro a tradimento. E si figuri poi se la marchesa Raversi non farà spargere tutte le notizie che posson far dispiacere alla signora duchessa. Vostra Eccellenza dovrebbe scrivere.

— E come farle avere la lettera?

— I garzoni del mulino dove andiamo guadagnano dodici soldi al giorno: per andare a Parma ci mettono un giorno e mezzo: dunque son quattro franchi per il viaggio: mettiamone due per consumo di scarpe: se la corsa fosse fatta per un pover'uomo come me sarebbe sei franchi; per un signore gliene darò dodici.

Quando furon sul luogo del riposo, un bel boschetto di frassini e di salici densi e freschi, Lodovico fece quasi un'ora di strada per andare a cercare inchiostro e carta. «O Dio! come si sta bene qui! — sclamò Fabrizio. — Addio fortuna, io non sarò mai arcivescovo

Lodovico tornando lo trovò profondamente addormentato e non volle per allora destarlo: ma quando, sul tramonto, vide da lontano spuntar la barca, Lodovico lo chiamò e Fabrizio scrisse due lettere.

— Vostra Eccellenza ne sa piú di me, — disse Lodovico, quasi peritandosi, — e io ho paura di farle dispiacere, per quanto mi dica di no, se risico una osservazione.

— Io non sono tanto sciocco, come voi credete; — rispose Fabrizio — e qualunque cosa diciate, vi considererò sempre come un servo fidatissimo di mia zia, e come un uomo che ha fatto tutto quel che gli era possibile per levarmi da un brutto impiccio.

Ci vollero ancora molte dichiarazioni perché Lodovico consentisse a parlare, e quando finalmente si decise, cominciò con una lunga prefazione che durò cinque minuti. Fabrizio s'impazienti, ma poi disse fra sé: «Di chi la colpa? Della nostra vanità che quest'uomo ha osservato benissimo dall'alto della sua cassetta». In fine la devozione ch'era in Lodovico profonda lo indusse a correre il rischio di parlar chiaro.

— Quanto darebbe la marchesa Raversi al ragazzo che porterà queste due lettere a palazzo per averle lei? Son di mano di Vostra Eccellenza, e costituiscono prova legale; non mi prenda per un curioso indiscreto: eppoi forse avrà vergogna di mandare alla signora duchessa lo scritto d'un cocchiere; ma insomma, è la sua sicurezza che mi fa parlare, anche a rischio di passar per impertinente. Vostra Eccellenza queste lettere le dovrebbe dettare a me; cosí io solo sarò compromesso; e poco, a ogni modo, perché al caso dirò che la ho incontrata in aperta campagna con un calamaio di corno in una mano e una pistola nell'altra e m'ha obbligato a scrivere.

— Qua la mano, caro Lodovico! — esclamò Fabrizio — e per dimostrarvi che non voglio aver segreti per un amico come voi, copiate queste lettere cosí come stanno.

Lodovico capí tutto il valore di questa prova di fiducia e ne fu lusingatissimo; ma dopo poche righe, vedendo che la barca avanzava rapidamente sul fiume:

— Si farà piú presto — disse — se Vostra Eccellenza si piglia il disturbo di dettarmele. — Finita la dettatura, Fabrizio scrisse un'A. e un B. all'ultima linea, e su un piccolo ritaglio di carta, che poi gualcí, segnò in francese Croyez A. et B. Il messo doveva nasconder nel vestito quel pezzetto di foglio.

Giunta la barca a portata della voce, Lodovico chiamò i barcaioli con nomi che non erano i loro: quelli non risposero, e andarono ad abbordare un migliaio di passi piú giú, osservando attentamente se non si scorgesse qualche doganiere.

— Sono a' suoi ordini; — disse Lodovico a Fabrizio — vuole che vada io a portar la lettera a Parma, o vuole che l'accompagni a Ferrara?

Accompagnarmi a Ferrara è un servizio che quasi non osavo chiedervi. Bisognerà sbarcare e cercar d'entrare in città senza mostrare il passaporto. Vi confesso che mi repugna assai andar girando con questo nome di Giletti; e fuor che voi io non veggo chi altri mi possa comprare un nuovo passaporto.

— Ah, perché non me l'ha detto a Casal maggiore! Ci conosco una spia che mi avrebbe venduto un ottimo passaporto, e non caro: quaranta o cinquanta lire.

Un de' due barcaioli, che era nato sulla riva destra del Po e non aveva perciò bisogno di passaporto per andare a Parma, s'impegnò di portar le lettere. Lodovico, che sapeva maneggiare il remo, s'impegnò a sua volta d'aiutar l'altro a condurre la barca.

— Sul basso Podissetroveremo parecchie barche armate della polizia: io saprò scansarle.

Piú di dieci volte doveron nascondersi tra le isolette folte di salici: tre volte metter piede a terra per lasciar passare le barche vuote davanti alle imbarcazioni della polizia. Lodovico profittò di quegli ozii per recitare a Fabrizio parecchi de' suoi sonetti. Il sentimento era giusto, ma guasto dall'espressione; sonetti come quelli non mette conto di scriverli. Curioso è che questo ex-cocchiere aveva passioni e concetti vivi e pittoreschi, e diventava freddo e volgare quando scriveva. «Proprio il contrario — si diceva Fabrizio — di quel che accade in società: dove ormai tutto si sa esprimere con grazia, ma i cuori non hanno nulla da direCapí che il maggior servizio ch'egli potesse rendere a quel servo fedele era di corregger l'ortografia de' suoi sonetti.

Ridono di me, quando presto i miei quaderni; ma se Vostra Eccellenza si degnasse di corregger l'ortografia parola per parola gl'invidiosi non saprebbero piú che dire: il genio non sta nell'ortografia!

Soltanto la notte del dopodomani Fabrizio poté sbarcare con sicurezza in un boschetto d'ontani, una lega circa prima di arrivare a Pontelagoscuro. Restò tutto il giorno nascosto in un campo di canapa, e Lodovico lo precedé a Ferrara dove affittò un appartamentino da un povero ebreo, il quale capí al volo che ci sarebbe stato da guadagnare a star zitto. La sera sul tramonto Fabrizio entrò in Ferrara a cavallo: aveva avuto bisogno di quest'aiuto equino, perché lungo il percorso del fiume aveva presa una mezza insolazione, e le ferite di coltello alla coscia e di spada alle spalle s'erano infiammate e gli davan la febbre.

 




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