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Stendhal
La certosa di Parma

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  • XIII
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XIII

 

L’inaspettata apparizione di quell'adorabile creatura bastò a disperdere ogni grave cura e pensiero. Fabrizio prese a vivere a Bologna allegramente tranquillo; e la ingenua propensione a sentirsi beato della presente condizione della sua vita traspariva siffattamente nelle sue lettere alla duchessa, ch'essa finí per aversene a male. Fabrizio neppur se ne avvide; e soltanto segnò in cifre abbreviate sul quadrante dell’orologio: «Quando scrivo alla D., non dir mai: Quand'ero prelato o Quand'ero uomo di Chiesa. Le dispiace». Comprò due piccoli cavalli, che gli piacevano assai e che attaccava a una carrozza d'affitto ogni volta che la Marietta s'invogliava di fare una gita negli incantevoli dintorni di Bologna: quasi ogni sera la conduceva alla «Caduta del Reno». Al ritorno si fermava dal Crescentani, uomo simpatico assai, che si credeva un po' padre della Marietta.

«In verità, se questa è la vita di caffé che una volta mi pareva ridicola per un uomo intelligente, ho avuto torto nel giudicarla cosí» pensava Fabrizio; ma non si ricordava ch'egli non andava al caffé che per leggere il Constitutionnel, e che i piaceri della vanità non entravano affatto in quella sua soddisfazione, dacché nessuno lo conosceva. Quando non stava con la Marietta, andava all'osservatorio, e vi seguiva un corso d'astronomia. Il professore lo aveva preso a benvolere, e Fabrizio gli prestava il suo equipaggio la domenica, perché andasse a far lo spocchioso con la moglie alla Montagnola.

Nuocere a una persona qualsiasi, anche se poco stimabile, gli era in orrore: la Marietta non voleva a nessun patto che vedesse la vecchia, ma, un giorno ch'ella era in chiesa, salí dalla mammaccia, la quale al vederlo si fece rossa di collera. «Qui bisogna fare il Del Dongo» pensò Fabrizio.

— Quanto guadagna al mese la Marietta quando è scritturata? — domandò.

Cinquanta scudi.

— Voi mentite come sempre: dite la verità o per Dio non avrete un centesimo!

Guadagnava ventidue scudi a Parma, quando avemmo la disgrazia di far la sua conoscenza: io guadagnavo dodici scudi, e tanto lei che io davamo al Giletti il terzo del nostro guadagno: ma ogni mese o quasi il Giletti faceva alla Marietta un regalo, che valeva, su per giú, un paio di scudi.

— Voi dite ancora bugie! voi non avevate che quattro scudi; ma se sarete buona con la Marietta, io vi scritturo come se fossi un impresario. Avrete ogni mese dodici scudi per voi e ventidue per la Marietta; ma la prima volta che le vedo gli occhi rossi, fallisco.

— Lei fa il superbo, ma questa sua generosità ci rovinariprese arrabbiata la vecchia. — Noi ci si perde l'avviamento. E quando si avrà la grande disgrazia di perdere la protezione di Vostra Eccellenza, non saremo piú conosciute da nessuna compagnia, e tutte saranno al completo; cosí non troveremo scrittura e si morirà di fame.

— Eh, va al diavolo! — disse Fabrizio andandosene.

— Io non anderò per niente al diavolo, brutto eresiarca; anderò invece all'ufficio di polizia, e dirò che sei un monsignore che ha buttato la tonaca alle ortiche, e che non ti chiami affatto Giuseppe Bossi.

Fabrizio, che aveva sceso alcuni gradini, tornò indietro:

— Prima di tutto, la polizia sa meglio di te il mio vero nome; ma se ti viene in mente di denunciarmi, se commetti questa infamità, — disse col tono di chi non ischerzamanderò Lodovico a dirti una parolina, e non sei coltellate avrà la tua vecchia carcassa, ma un paio di dozzine; e starai per sei mesi all'ospedale, e senza tabacco.

La vecchia diventò pallida, afferrò la mano a Fabrizio e volle baciargliela.

Accetto con gratitudine la sorte che lei ci fa: lei ha un'aria cosí buona che l'avevo preso per uno sciocco. Ci pensi: perché potrebbe darsi che qualchedun altro sbagliasse come ho sbagliato io: la consiglio d'avere sempre un'aria piú da gran signore. — E aggiunse con impudenza ammirevole: — Rifletta a questo savio consiglio; e siccome l'inverno s'avvicina, ci faccia un regalo alla Marietta e a me: due vestiti di quella bella lana inglese, che ho visto in un negozio di piazza San Petronio.

L'amore della bella Marietta offriva a Fabrizio tutte le dolcezze d'un'affettuosa amicizia: il che portava a riflettere che dolcezze del pari squisite avrebbe potuto gustare vivendo con la duchessa.

«Ma non è curioso, — diceva fra sé qualche volta — che io non sia suscettibile di quella preoccupazione appassionata ed esclusiva che chiamano amore? Delle avventure il caso ne ha procurate anche a me a Novara e a Napoli. Ma quando mai m'é accaduto di trovare una donna la cui compagnia, anche nei primissimi giorni della nostra relazione, mi paresse preferibile a una trottata sopra un bel cavallo non ancora montato? Ciò che chiamano amore sarebbe dunque un'altra delle tante menzogne? Anch'io amo, sicuro: come ho appetito alle sei. Ma questa inclinazione piuttosto volgaruccia l'avrebbero trasmutata nell'amore d'Otello o di Tancredi? O bisogna ch'io mi persuada d'esser fatto diversamente dagli altri uomini? All'anima mia la passione farebbe difetto? Perché? Singolare destino

A Napoli, soprattutto negli ultimi tempi, Fabrizio aveva conosciuto donne che, orgogliose del loro grado, della loro bellezza e del posto che occupavan nel mondo gli adoratori sacrificatigli, si provarono a menarlo pel naso. Ma accortosi appena di siffatti propositi, Fabrizio aveva troncato immediatamente e scandalosamente.

 «Ora, — diceva fra sé — se mi lascio vincere dal piacere, grandissimo certo, di riaccostarmi a quella bellissima donna che è la duchessa Sanseverina, fo come quello sciocco di Francese che tirò il collo alla gallina dalle uova d'oro. L'unica gioia ch'io abbia tratto da sentimenti affettivi la debbo a lei, la mia amicizia per lei è la mia stessa vita; e senza di lei che sarei io? un povero esule ridotto a campicchiar in un castello diroccato in Piemonte, dove mi ricordo che durante le piogge d'autunno, per evitar il peggio, mi toccava collocare un ombrello sotto il padiglione del letto. Montavo i cavalli del fattore che lo tollerava per rispetto al sangue blu, ma giudicava il mio soggiorno un po' lungo. Mio padre m'aveva assegnato milleduecento lire di pensione e si credeva dannato perché dava da mangiare a un giacobino. La mia povera mamma e le mie sorelle si riducevano senza un vestito decente, per darmi modo di far qualche regaluccio alle mie amanti, e questa specie di generosità mi straziava l'anima. E non basta:  si cominciava già a sospettar la mia miseria e i giovanotti nobili dei dintorni avrebbero preso a compatirmi. Prima o poi, qualche vanesio avrebbe lasciato scorgere il suo disprezzo per un giacobino povero e disgraziato: agli occhi loro non ero altro! e io sarei stato costretto a dare o a pigliarmi una sciabolata, sicuro espediente per andarsene nella fortezza di Fenestrelle, o a cercar rifugio in Isvizzera, sempre con milleduecento lire di pensione. Se ho evitato tutti questi guai lo debbo alla duchessa: e, per giunta, tutti gli ardori di un affetto che dovrei sentir io per lei, li sente lei per me.

«Invece di condurre un'esistenza meschina e ridicola che mi avrebbe prostrato in una triste imbecillità, da quattro anni vivo in una grande città, ho una buona carrozza, e tutto quanto mi impedisce di conoscer l'invidia e le volgari piccinerie de' provinciali. Il solo rimprovero che mi faccia questa carissima zia è di prender troppo poco denaro dal suo banchiere. E io dovrei guastare per sempre una tale condizione di cose e perder la sola amica che io abbia sulla terra? Basterebbe per questo il profferire una bugia: basterebbe che a questa donna adorabile, e forse unica al mondo, a cui mi sento legato dalla piú appassionata amicizia, basterebbe ch'io le dicessi «ti amo», io che non so l'amore che cosa sia. Passerebbe la giornata a rimproverarmi la mancanza di slancio, d'entusiasmo, insomma la mia congenita freddezza. La Marietta, invece, che nel mio cuore non legge e che prende una carezza per una prova di affetto ardentissimo, mi suppone innamorato alla follia e si stima la piú felice delle creature.

«Il fatto è che i languori e le tenerezze che chiamano amore, io non li ho provati se non forse per la piccola Aniken, nella locanda di Zonders, vicino alla frontiera belga

E qui, con vivo rammarico, dobbiamo raccontar una delle peggiori azioni di Fabrizio: una misera picca di vanità turbò la tranquillità della sua vita e impadronitasi di quel cuor ribelle all'amore lo trascinò assai lontano. Era a Bologna Fausta F..., una delle prime cantanti del nostro tempo, e forse la donna piú capricciosa che vivesse mai. Il Buratti, ottimo poeta veneziano, aveva composto per lei un sonetto, che andava allora sulle bocche cosí dei principi come dei monelli di strada.

Per allora, questo miracolo di bellezza era cosí ammaliato dalle enormi fedine e dall'alta insolenza del giovine conte M..., da non sentir disgusto della costui abominevole gelosia. Fabrizio vide questo conte e si sentí offeso dall'aria altezzosa in cui quegli si pavoneggiava passeggiando per le vie di Bologna, quasi fosse lui il padrone della città e facesse una grazia col degnar di mostrarvisi. Questo conte M... era assai ricco, si credeva tutto lecito e poiché le sue prepotenze gli avevan procurato delle minacce, non andava attorno se non circondato da otto o dieci buli, vestiti della sua livrea, e fatti venir da una tenuta che possedeva nel Bresciano. Il terribile conte e Fabrizio s'erano sbirciati una o due volte, incontrandosi, quando il caso fece che Fabrizio sentisse cantar la Fausta e rimanesse addirittura incantato dalla angelica dolcezza di quella voce. Non s'era figurato nulla di simile e provò una commozione forte a un tempo e soave che contrastava singolarmente con la paga placidità della sua vita presente. «Sarebbe questo dunque finalmente l'amore?» si domandò. Curioso di provar questo sentimento, e d'altra parte divertendolo l'idea di provocare il conte M... con quella sua terribile mutria da capotamburo, il nostro eroe si lasciò andare alla fanciullaggine di passare un po' troppo spesso davanti al palazzo Tanari, che il conte M... aveva preso in affitto per alloggiarvi la Fausta.

Un giorno, sull'imbrunire, Fabrizio, che cercava di farsi veder dalla Fausta, fu salutato con uno scoppio di risate badiali dai buli del conte che stavano sul portone di quel palazzo: corse a casa, si armò bene e meglio, e ripassò. La Fausta, nascosta dietro una persiana, aspettava questo ritorno, e gliene fu grata. Il conte M..., geloso sempre di tutti, diventò gelosissimo del signor Giuseppe Bossi, e andato su tutte le furie, sfoderò minacce ridicole; dopo di che, ogni mattina il nostro eroe gli fece recapitare un biglietto contenente queste sole parole:

«Giuseppe Bossi distrugge gl'insetti molesti ed abita al Pellegrino, via Larga, 79».

Il conte M..., assuefatto ai riguardi che la sua grande ricchezza e il sangue blu e il coraggio de' suoi trenta servitori gli garantivano sempre ed ovunque, fece finta di non capire il significato di quelle parole.

Fabrizio scrisse anche alla Fausta; M... circondò di spie questo rivale, che forse non dispiaceva: e prima seppe il suo vero nome, e poi come e perché non potesse, almeno pel momento, farsi vedere a Parma; e, pochi giorni dopo, co' suoi buli, i magnifici cavalli e la Fausta, andò a Parma lui.

Fabrizio, impuntatosi, lo seguí il giorno dopo: né valse che il buon Lodovico gli facesse le piú patetiche rimostranze; Fabrizio lo mandò a farsi benedire, e Lodovico, ch'era coraggioso la sua buona parte, lo ammirò, e pensò che in fin de' conti quel viaggetto l'avrebbe riavvicinato alla sua bella amica di Casalmaggiore. Provvide, , a mettere al fianco del signor Giuseppe Bossi, sotto nome di servitori, otto o dieci degli antichi soldati di Napoleone. «Purché, — pensava Fabrizio — facendo questa mattía di correr dietro alla Fausta, io non abbia rapporti di sorta né col conte Mosca, ministro di polizia, né con la duchessa: io non espongo che me. A suo tempo dirò alla zia che andavo in cerca dell'amore, cosa bellissima che non mi è riuscito mai di incontrare. Ma intanto, il fatto è che io penso alla Fausta anche quando non la vedo: sarà il ricordo della sua voce o la sua persona che mi attira?» Non curandosi piú della carriera ecclesiastica Fabrizio s'era lasciato crescer dei baffi e delle fedine non meno terribili di quelli del conte M..., sicché aveva alquanto cambiato d'aspetto. Pose il suo quartier generale non già  dentro Parma, che  sarebbe stata una vera imprudenza, ma in un villaggio dei dintorni, in mezzo a un bosco sulla strada di Sacca, dov'era il castello di sua zia; seguendo poi il consiglio di Lodovico, si presentò nel villaggio come il cameriere d'un gran signore inglese, un originale, che spendeva centomila lire all'anno per la passione della caccia, e che sarebbe giunto quanto prima da Como, dove s'era fermato a pescar le trote. Fortunatamente, la palazzina, che il conte M... aveva preso in affitto per la Fausta, era all'estremità meridionale di Parma, appunto sulla via di Sacca, e le finestre della cantante davano sul viale ove grandi alberi prosperavano sotto l'alta torre della cittadella. In questo quartiere deserto Fabrizio non era conosciuto affatto: non tralasciò di far pedinare il conte M.., e un giorno che questi usciva dalla casa della sua bella amica, ebbe l'audacia di mostrarsi sulla strada di pieno giorno: bisogna bensí aggiungere, per la verità, che montava un ottimo cavallo ed era armato di tutto punto. Alcuni sonatori, di quelli che vanno a sonar per le strade e che a volte sono eccellenti, vennero a piantare i loro contrabbassi sotto la finestra di Fausta, e dopo un breve preludio cantarono piuttosto bene una «cantata» in suo onore. Essa si pose alla finestra e notò un giovine assai garbato che, fermo a cavallo in mezzo alla strada, prima la salutò e poi si mise a darle occhiate di facile interpretazione. Non ostante il vestito esageratamente all'inglese che Fabrizio s'era messo per la circostanza, Fausta riconobbe subito l'autore delle lettere appassionate ch'erano state cagione della partenza da Bologna. «Ecco un bel tipo: — pensò — mi pare, sto per innamorarmene. Ho cento luigi, e posso benissimo piantar questo terribile M.... In verità, è uggioso, monotono, e la sola sua cosa che mi diverte son le facce spaventevoli de' suoi servitori

Il giorno dopo, Fabrizio, saputo che ogni mattina verso le undici la Fausta andava a sentir la messa nel centro della città in quella stessa chiesa di San Giovanni che custodiva la tomba del grande antenato, l'arcivescovo Ascanio Del Dongo, osò seguirla. Lodovico gli aveva raccapezzato una parrucca inglese con dei capelli d'un bel rosso fiammante. E da questo color di fiamma de' capelli preso lo spunto per descriver le fiamme onde ardeva il suo cuore, fece un sonetto che, da mano ignota lasciato sul pianoforte della Fausta, parve a lei graziosissimo. Questa schermaglia durò otto giorni; ma Fabrizio s'accorse che, nonostante tutte le sue avvisaglie, della strada ne faceva poca: la Fausta non volle riceverlo: in seguito disse che le faceva paura; ed egli non continuava l'assedio oramai se non per un resto di speranza di giungere a provare ciò che chiaman l'amore; ma spesso si seccava.

Andiamocene, Monsignore, — gli diceva Lodovico. — Lei non è innamorato; lei ha un sangue freddo, un buon senso, da mettere alla disperazione. Eppoi non ha fatto un passo avanti! Bisogna battersela dalla vergogna. — E Fabrizio decise d'andarsene, appena lo cogliesse un po' di cattivo umore; ma seppe che la Fausta avrebbe cantato in casa della Sanseverina. «Chi sa che quella voce meravigliosa non finisca d'accendere il mio cuorepensò; e osò entrare travestito in quel palazzo, dove tutti lo conoscevano. Si può immaginare la commozione della duchessa, quando verso la fine del concerto notò un uomo, in livrea di «cacciatore», che se ne stava in piedi sulla porta della sala e il cui aspetto non le era nuovo. Cercò subito del conte Mosca, il quale soltanto allora le raccontò la insigne e davvero incredibile follia di Fabrizio: egli la prendeva in buona parte; anzi di questo amore per una donna che non era la duchessa si compiaceva assai: fuori della politica, il conte era un galantuomo perfetto, che regolava le proprie azioni secondo questo criterio: ch'ei non poteva esser felice se non sapesse felice la Sanseverina.

— Lo salverò suo malgrado — disse. — Pensate alla gioia dei nostri nemici se lo arrestassero in casa vostra! Per questo, ho qui dentro un centinaio di uomini sicuri, e per questo vi ho fatto chiedere le chiavi del serbatoio dell'acqua. Fa l'innamorato morto della Fausta, ma ancora non gli è riuscito di portarla via al conte M... che a quella pazza procura un'esistenza da regina.

Sul volto della duchessa passò l'espressione d'un vivo dolore; Fabrizio non era dunque che un libertino, incapace d'un affetto tenero e profondo. — E non venire a vederci! — disse finalmente. — Non glielo perdonerò mai! E io che gli scrivo ogni giorno a Bologna!

— Ma il suo riserbo è lodevolissimo: — rispose il conte — non vuole comprometterci con questa scappata, che sarà piacevolissimo sentirgli raccontare.

La Fausta era troppo scervellata per saper tacere ciò che la occupava; e, il domani del concerto nel quale i suoi sguardi avevan dedicato tutti i pezzi a quel giovine in costume di «cacciatore», parlò al conte M... d'uno sconosciuto che le aveva sempre gli occhi addosso. — Dove lo vedi? — domandò il conte furibondo. — Per le strade, in chiesarispose quella, interdetta. — Volle riparar subito alla propria imprudenza, o almeno sviare il conte da qualunque indizio che potesse ricordargli il Del Dongo, e cominciò una lunghissima descrizione d'un gran giovinetto dai capelli rossi e dagli occhi azzurri: certo un Inglese molto ricco e molto goffo, o qualche principe. A questa parola il conte M..., il quale non si distingueva per felicità di accorgimenti, immaginò, con intimo soddisfacimento della sua vanità, che il suo rivale non altri fosse se non il principe ereditario di Parma. Quel povero ragazzo malinconico, circondato sempre da cinque o sei governatori, sottogovernatori, precettori, eccetera, che non lo lasciavano uscir di casa senza aver prima tenuto consiglio, lanciava occhiate assassine su tutte le donne passabili che gli era consentito d'avvicinare. Al concerto della duchessa, era, naturalmente, per ragion del suo grado, avanti a tutti gli altri spettatori, su una poltrona isolata, a tre passi dalla Fausta, e le sue occhiate avevano sovranamente irritato il conte M.... Questo compiacere alla piú squisita delle vanità immaginando di avere un principe per rivale, divertí assai la cantante che prese gusto a solleticar quella follia con cento particolari ingenuamente narrati.

— La tua famigliachiese al conte — è antica come quella dei Farnese?

— Che intendi dire? Antica? Ma in casa mia non ci son bastardi6.

Volle il caso che il conte M... non riuscisse mai a veder bene questo rivale; e ciò valse a confermarlo nell'idea lusinghiera d'avere un principe per competitore. Infatti, quando le necessità delle sue gesta non lo chiamavano a Parma, Fabrizio se ne stava nei boschi verso Sacca e le rive del Po. Il conte M... era ognor piú superbo, ma piú prudente altresí da quando credé di disputare a un principe il cuore della Fausta; e la pregò seriamente di regolarsi sempre e in ogni cosa col massimo riserbo. Dopo d'essersi gittato a' suoi piedi, come un innamorato geloso, le dichiarò esplicitamente che non poteva tollerare ella fosse la vittima di un inganno del principe ereditario. Ne andava del proprio onore.

Scusa: se io l'amassi non sarei affatto una vittima: io non ho mai visto un principe ai miei piedi.

— Se tu cedi, — riprese quegli alteramente — forse non potrò vendicarmi del principe, ma di te certo mi vendicherò! — E uscí sbatacchiando violentemente le porte. Se Fabrizio fosse stato presente in quel momento, avrebbe avuto causa vinta.

— Se ti preme la vita, — le disse la sera, accomiatandosi dopo lo spettacolofa' che io non sappia mai che il principe è entrato in casa tua. Contro lui non posso nulla; ma, per Iddio, non mi costringere a ricordare che su te posso tutto!

«Ah, caro Fabrizio, — pensò la Fausta — se sapessi dove trovarti

La vanità offesa può menar lontano un giovine ricco, fin dalla nascita attorniato da adulatori: la passione sincera che il conte M... aveva avuto per la Fausta si ridestò, furiosa, e non valse a frenarlo il pericolo di mettersi a contrasto col figlio unico del sovrano presso il quale si trovava: e neppure ebbe l'accorgimento o di veder questo principe o, almeno, di farlo pedinare. Non avendo altro modo di attaccare il suo rivale, il conte M... pensò di metterlo in ridicolo. «Sarò bandito dagli Stati parmensi; — disse — ma che me ne importa?» Se avesse tentato una ricognizione nel campo nemico, il conte M... avrebbe saputo subito che il povero principe ereditario non usciva mai senza esser seguito da tre o quattro vecchi, fastidiosi guardiani dell'etichetta, e che il solo piacere che, scelto da lui, gli fosse consentito era la mineralogia. Di giorno e di notte la palazzina abitata dalla Fausta, affollata sempre di gente della miglior società, era circondata di osservatori: e il conte M... sapeva ora per ora quel ch'ella faceva, e specialmente quel che si faceva intorno a lei. E questo per verità è da lodare nel gelosissimo conte, che tutte le precauzioni furon prese da lui per modo che, per un certo tempo, quella donna cosí capricciosa non sospettò nemmeno di essere sorvegliata con piú stretta assiduità. Il conte M... sapeva da' suoi agenti che un uomo molto giovine passava assai spesso sotto le finestre della Fausta, e sempre con un travestimento diverso. «È chiaro che è il principe, — pensava — se no, perché travestirsi? Ehi ma un uomo come me non cede. Se non fossero state le usurpazioni della Repubblica di Venezia, anch'io sarei principe sovrano

Il giorno di Santo Stefano i rapporti delle spie ebbero una tinta piú scura: parvero avvertire che per l'insistente premere dello sconosciuto la Fausta cominciava a piegare.

«Io posso menarla via subito; — pensò il conte M... — ma come? A Bologna son fuggito davanti a un Del Dongo; qui dovrei fuggire davanti a un principe! E che direbbe questo ragazzo? Potrebbe credere d'avermi fatto paura! Eh, perdio! ma io son di buona razza come lui!» Insomma era furente; ma, per colmo di miseria, ciò che gli importava prima di tutto era di non mostrarsi agli occhi della Fausta, che era canzonatrice, col ridicolo della gelosia. Il giorno di Santo Stefano, dunque, dopo aver passato un'ora con lei, accolto con una premura che gli parve il sommo della simulazione, la lasciò verso le undici che si vestiva per andare alla messa a San Giovanni; tornò a casa, si mise l'abito un po' frusto di un giovine studente di teologia, e corse a San Giovanni anche lui: si addossò a uno dei sepolcri che ornano la terza cappella a destra, donde, attraverso la curva del braccio d'un cardinale scolpito in ginocchio sulla propria tomba, poteva veder tutto quanto avvenisse in chiesa. La statua toglieva luce al fondo della cappella, ed ei vi rimaneva abbastanza nascosto. Vide arrivar la Fausta, piú bella che mai: la gioia le lampeggiava negli occhi, le brillava sulle labbra il sorriso, era in gran toeletta, e venti adoratori, tutti appartenenti al piú alto ceto, le facevan corteo. «È evidentepensò il povero geloso — ch'ella fa conto di trovar qui l'uomo che ama, e che forse da un pezzo, grazie a me, non ha potuto vedere.» A un tratto la gioia parve illuminare piú vivamente il volto della Fausta. «Lui è qui — pensò il conte M..., e il suo vanitoso furore non ebbe piú limiti. — Che figura fo qui io, di fronte a questo principe travestito

Ma, per quanto almanaccasse, non gli fu possibile di scoprir quel rivale che i suoi occhi andavano cupidamente cercando.

Ogni tanto la Fausta, dopo aver vòlti in giro gli sguardi per ogni parte della chiesa, li fissava fulgidi d'amore e di gioia sull'angolo oscuro dove M... s'era nascosto. Gl'innamorati, si sa, inclinano ad esagerare e a trarre da ogni menomo indizio comiche deduzioni. Il povero conte finí col convincersi che la Fausta lo aveva veduto, che, a malgrado d'ogni suo sforzo per dissimularla, s'era accorta della sua gelosia, e ora voleva rimproverargliela e al tempo stesso consolarlo con quella tenerezza di occhiate.

Il sepolcro dietro il quale il conte M... s'era posto in osservazione era elevato di quattro o cinque piedi sul pavimento: finita la messa, verso il tocco, i piú dei fedeli se ne andarono, e la Fausta, con la scusa della devozione, congedato il corteo, restò ginocchioni sulla propria sedia fissando sul conte lo sguardo ancor piú vivo e piú tenero, dacché in chiesa non c'era piú gente, e non si pigliava piú il disturbo di volgerli attorno prima di fissarli verso la statua del cardinale. «Quanta delicatezzapensava il povero M... che si credeva guardato. Finalmente la Fausta si alzò e uscí bruscamente, facendo con le mani gesti assai singolari.

Ebbro d'amore e quasi interamente guarito dalle furie gelose, anche il conte lasciò il suo nascondiglio, per correre al palazzo dell'amica sua ed esprimerle tutta la sua gratitudine; ma nel girare attorno al sepolcro del cardinale, dietro al quale s'era appiattato, vide un giovine vestito di nero, rimasto fino allora inginocchiato dalla parte dell'epitaffio, in modo che gli sguardi del geloso che lo cercavano passassero sopra alla sua testa senza vederlo. Il giovine si alzò e fatti in fretta pochi passi fu subito attorniato da sette o otto persone grossolane, d'aspetto assai strano, che parvero essere gente sua. M... lo seguí a passo di carica, ma senza quasi che se ne accorgesse fu fermato nella ressa che sulla porta facevano per uscire que' medesimi protettori del suo rivale; e quando, infine, dopo di loro, fu sulla strada, non poté che veder chiudere lo sportello d'una carrozza di modesta apparenza, alla quale per un bizzarro contrasto erano attaccati due magnifici cavalli, che rapidamente disparve.

Tornò a casa ansante di furore; e poco dopo le sue spie vennero a riferirgli, con tutta calma, che quella mattina l'amante misterioso, vestito da prete, si era inginocchiato devotamente innanzi a un sepolcro presso l'entrata di una cappella oscura nella chiesa di San Giovanni. La Fausta rimase in chiesa fino a che non fu quasi deserta, e allora ne uscí facendo con le mani come delle croci, evidenti segni scambiati con lo sconosciuto. M... corse dalla infedele; e per la prima volta questa non riuscí a nascondere il suo turbamento: fingendo però, come tutte le donne appassionate, la piú candida ingenuità, raccontò che era andata, secondo il solito, a San Giovanni, ma non aveva visto affatto quel tale che la perseguitava. All'udire queste parole M..., fuori di sé, la trattò come la piú svergognata delle femmine: le disse che aveva tutto certificato con i suoi propri occhi: e poiché la temerità delle menzogne cresceva in ragione della violenza delle accuse, le si precipitò addosso col pugnale alzato. Allora con gran sangue freddo la Fausta gli disseca:

— Ebbene, tutto ciò di cui ti lagni è pura verità: ho cercato di nascondertela per non cimentare la tua audacia in disegni insensati di vendetta, che potrebbero cagionare la nostra rovina. Perché, bisogna pur che tu lo sappia una buona volta, secondo ogni mia ragionevole congettura, costui che mi perseguita con le sue assiduità non è uomo che trovi impedimenti alla sua volontà almeno in questo paese. — E, dopo avere accortamente ricordato che M... in fin dei conti non aveva sopra di lei nessun diritto, arrivò a concludere che probabilmente non sarebbe piú andata a San Giovanni. Il conte era perdutamente  innamorato,  e  un  po'  di  civetteria ben combinata con la prudenza bastò ad ammansirlo. Gli balenò ancora l'idea di andarsene da Parma: per potente che fosse , il giovine principe non avrebbe potuto corrergli dietro; e, se l'avesse fatto, sarebbe, fuor de' suoi Stati, diventato suo pari. Ma l'orgoglio gli ripeté che una simile partenza sarebbe parsa una fuga; e si vietò di pensarci piú oltre.

«Non si figura nemmeno che Fabrizio sia qui, — disse tra sé la cantatrice tutta contenta — e ora potremo fargliela in barba graziosissimamente

Fabrizio non poteva neanche sospettare la sua fortuna; e il giorno dopo, vedendo chiuse ermeticamente le finestre della Fausta, e non riuscendo a veder lei in nessun luogo, cominciò a pensare che lo scherzo andava un po' troppo per le lunghe e aveva dei rimorsi. «In che condizione metto io quel povero conte Mosca, ministro della polizia! Lo crederanno mio complice, e io sarò venuto a Parma per essere origine e ragione della sua catastrofe! Ma se abbandono un progetto per tanto tempo accarezzato, che dirà la duchessa quando le racconterò i miei tentativi amorosi

Una sera che, ormai disposto a piantar come suoi dirsi baracca e burattini, andava vagabondeggiando pei viali alberati tra la casa della Fausta e la cittadella, rimuginando queste riflessioni morali, notò che un piccolo individuo lo pedinava. Invano tentò sfuggirgli cacciandosi per altre strade: la minuscola spia era sempre alle sue calcagna. Seccato, entrò in una via solitaria lungo la Parma, dove erano appiattati i suoi; a un suo cenno, essi acciuffaron quell'omino, che subito si gettò ai loro ginocchi. Era la Bettina, la cameriera della Fausta: dopo tre giorni di uggia e di reclusione, travestita da uomo per isfuggire al pugnale del conte M... di cui aveva paura quanto la signora, s'era decisa di venire ad assicurar Fabrizio ch'egli era amato appassionatamente e che si ardeva dal desiderio di vederlo; ma a San Giovanni non era piú possibile andare. «Era tempo! — pensò Fabrizioevviva l'insistenza

La piccola cameriera era molto carina: e questa osservazione bastò a dissipare le fantasticherie morali di Fabrizio; lo avvertí   che la «Passeggiata» e le altre strade per le quali era passato quella sera erano vigilate, senza che nulla apparisse, dalle spie del conte M..., le quali avevan preso a pigione alcune camere a pianterreno o al primo piano: nascoste dietro le persiane, osservavan tutto quel che accadeva e sentivan tutto quello che si diceva.

— Se avessero riconosciuto la mia voce, — dichiarò la Bettina — sarei stata pugnalata tornando a casa, e fors'anche la signora con me.

Il terrore la faceva piú carina che mai.

— Il conte M... — continuò — è furibondo, e la signora sa che è capace di tutto.... M'ha incaricato di dirle che vorrebbe esser con lei a mille miglia da qui.

Poi raccontò la scena del giorno di Santo Stefano, e il furore di M... al quale non era sfuggito nessuno degli sguardi e dei cenni affettuosi che la Fausta, incapriccita in quel giorno pazzamente di Fabrizio, gli aveva rivolto. Il conte aveva sguainato il pugnale e presa pe' capelli la signora che, senza la sua gran presenza di spirito, era ormai perduta.

Fabrizio condusse la Bettina in un piccolo appartamento che aveva presso: le raccontò che era di Torino, figlio di un alto personaggio che momentaneamente stava a Parma; il che l'obbligava a molti riguardi. La Bettina gli rispose ridendo ch'egli era assai piú gran signore di quanto volesse far credere. E al nostro eroe ci volle del bello e del buono per arrivare a capire che quella graziosa ragazza lo pigliava niente meno che per il principe ereditario. La Fausta cominciava ad aver paura e a voler bene sul serio a Fabrizio: neppure alla fida cameriera volle confidare la verità, e anzi le aveva dato ad intendere che si trattava del principe. Fabrizio, da ultimo, confessò alla Bettina che ella aveva indovinato. — Ma, bada bene, — soggiunse — appena si bucinasse il mio nome, non ostante tutto l'amore di cui ho pur dato tante prove alla tua signora, non mi sarebbe piú possibile di vederla; e i ministri di mio padre, questa mala genía che un giorno destituirò, le ingiungerebbero subito d'andarsene da questo paese che la sua presenza ha abbellito finora.

Verso la mattina i due combinarono parecchi progetti di convegni con la Fausta: Fabrizio chiamò Lodovico e un altro de' piú svelti fra i suoi, e, mentr'essi si accordavano con la Bettina, scrisse alla cantante una lettera stravagantissima. La «situazione» si prestava a tutte le esagerazioni della tragedia e Fabrizio non volle mostrarsi da meno! Sul far del giorno la bella cameriera se ne andò assai soddisfatta del contegno del giovine principe.

Avevan detto e ridetto che ormai, perché la Fausta era d'accordo, non c'era piú ragione che Fabrizio passasse sotto la sua palazzina, salvo quando avesse potuto entrarci: e allora ci sarebbero state le segnalazioni opportune. Ma, innamorato della Bettina e credendosi ormai con la Fausta prossimo alla conclusione, egli non seppe restare nel suo villaggio distante due leghe da Parma. E la sera dopo, verso mezzanotte, venne a cavallo, ben scortato, a cantar sotto le finestre un'aria di moda a que' giorni alla quale aveva adattato parole sue. «Non usan cosí i signori amanti?» si domandava.

Ma da quando la cantante aveva espresso il desiderio d'un appuntamento pareva a Fabrizio che troppo s'indugiasse ne' preliminari: e, cantando discretamente male, pensava: «No, io non sono innamorato: e mi piace cento volte piú la Bettina: e vorrei in questo momento esser ricevuto da lei». Cosi, molto seccato, se ne tornava al suo villaggio, quando a cinquecento passi appena dalla palazzina della Fausta, quindici o venti uomini gli si gettarono addosso: quattro presero le briglie del cavallo, due lo atterrarono per le braccia; Lodovico e gli altri bravi del pari assaliti, la scamparono e spararono alcune pistolettate. Fu l'affare d'un momento: cinquanta torce accese apparvero nella via, in un batter d'occhio, come per incantesimo. Tutti quegli uomini eran bene armati. Fabrizio, saltato giú dal cavallo, svincolandosi da quelli che lo tenevano, cercò di liberarsene e ne ferí perfino uno che gli stringeva le braccia come in una morsa; ma fu molto stupefatto nell'udir costui dirgli in tono rispettosissimo:

— In grazia di questa ferita Vostra Altezza mi accorderà una buona pensione, e sarà per me assai meglio che commettere un delitto di lesa maestà, usando le armi contro il mio principe.

«Ecco il giusto castigo della mia sciocchezza! — disse fra sé Fabrizio — io mi sarò dannato per un peccato che non mi solleticava

Appena quel tentativo di lotta fu terminato, parecchi lacché in gran livrea comparvero recando una lettiga dorata e bizzarramente dipinta: una di quelle che si usano nelle mascherate del carnevale. Sei uomini col pugnale alla mano pregarono Sua Altezza di accomodarvisi, dicendogli che l'aria della notte avrebbe potuto nuocergli nella voce: si affettavan le forme del maggior rispetto, e la parola «principe» era ripetuta spesso a voce alta. Il corteo cominciò a sfilare; e Fabrizio contò piú di cinquanta torce accese. Poteva essere un'ora dopo la mezzanotte, a tutte le finestre c'era gente affacciata: le cose procedevano con una certa gravità.

«Da parte del conte M... io temevo qualche pugnalata; — pensò Fabrizio — ma si contenta di burlarsi di me: non l'avrei creduto cosí di buon gusto! Ma veramente crede d'aver da fare col principe? Se sa chi sono, bisognerà guardarsi dai colpi di daga

I cinquanta uomini con torce, e i venti armati, dopo essersi trattenuti a lungo sotto le finestre della Fausta, andarono a sfilar processionalmente innanzi ai piú bei palazzi della città. Maggiordomi ai lati della lettiga domandavano ogni tanto a Sua Altezza se avesse ordini a dare. Fabrizio non si smarrí: alla luce delle torce scorgeva Lodovico e i suoi che seguivano il corteo per quanto era loro possibile, e pensava: «Con otto o dieci uomini non osa attaccare!». Dall'interno della lettiga vedeva bene che i birbaccioni pagati per fargli quel brutto scherzo erano armati fino ai denti, e affettava di rider coi maggiordomi ai quali era affidata l'incolumità della sua persona. Ma ecco vede, a un tratto, che si passa davanti al palazzo Sanseverina; allo svolto della strada che vi conduce, apre in un attimo lo sportello anteriore, passa d'un salto di da una delle stanghe: uno staffiere gli accosta al viso la torcia, ei lo atterra con una pugnalata; un colpo di daga lo ferisce alla spalla, un altro staffiere gli abbrucicchia la barba; ma egli giunge finalmente ad accostar Lodovico e gli grida: "Ammazza! ammazza tutti quelli che hanno le torce!" Quegli distribuisce con la spada puntate a destra e a sinistra e riesce a liberarlo da due che eran li per riacchiapparlo. Fabrizio giunge di corsa al palazzo Sanseverina dove il portiere incuriosito aveva socchiuso la porticina e guardava attonito la fiaccolata; entra d'un salto, richiude il portello, schizza nel giardino, donde fugge per un'altra apertura sur una via solitaria. Un'ora dopo, era fuor di città e sul far del giorno s'era messo al sicuro varcando la frontiera degli Stati di Modena: la sera stessa era a Bologna. «Proprio una fortunata spedizione! — si disse — neppure son riuscito a parlare alla mia bella!» E scrisse subito lettere di scusa al conte Mosca e alla duchessa, lettere prudenti, le quali, pur dipingendo le condizioni del suo cuore, nulla potevano apprendere a un nemico. «Ero innamorato dell'amore, — scrisse alla duchessa — e ho fatto il possibile per arrivare a conoscerlo; ma par proprio che la natura mi abbia negato un cuore capace di amare, un animo capace di malinconia: non so elevarmi oltre il piacere volgare...»

Non è possibile dare un'idea del rumore che questa avventura fece a Parma. Il mistero eccitava la curiosità: molta gente aveva veduto la lettiga e la fiaccolata: ma chi era l'uomo portato attorno con tanta ostentazione del piú ossequente rispetto? Il giorno dopo, nessuna delle persone piú ragguardevoli mancava nella città.

La povera gente che abitava nella strada dalla quale il prigioniero era fuggito, raccontò di aver visto un cadavere: ma, a giorno fatto, quando osarono uscir di casa, non trovaron del tumulto altre tracce che sangue sul lastrico. Piú di ventimila curiosi andaron nella giornata a visitar la stradetta. In Italia sono avvezzi a singolari spettacoli; ma si sa sempre di tutto il «come» e il «perché»; e d'una sola cosa Parma si scandalizzò in quella congiuntura, che, cioè, neanche un mese dopo, quando la fiaccolata non era piú unico argomento delle chiacchiere quotidiane, nessuno, grazie all'accorgimento del conte Mosca, era riuscito a indovinare il nome di colui che aveva tentato di rapir la Fausta al conte M... L'amante geloso e vendicativo era scappato subito al principio della fiaccolata: la Fausta, d'ordine del ministro di polizia, fu chiusa nella cittadella, e la duchessa rise assai di una piccola ingiustizia necessaria per tagliar corto alla curiosità del sovrano, ché altrimenti, a furia di eliminazioni o d'indagini, poteva giungere fino a sospettar di Fabrizio.

Era piovuto a Parma, dal settembre, un erudito per scrivere una storia del medio evo; cercava manoscritti nelle biblioteche, e il conte Mosca gli aveva fatto tutte le agevolazioni possibili. Ma l'erudito, molto giovine ancora e alquanto irascibile, s'era fitto in mente che tutti a Parma gli desser la baia. È vero che qual che volta i monelli gli andavan dietro in omaggio a una immensa zazzera fulvo-chiara superbamente foggiata. Costui credeva che, all'albergo, gli facessero tutto pagare a prezzi esageratissimi e non comprava mai la menoma bagattella senza averne prima cercato l'equivalente nel Viaggio d'una madama Starke, giunto alla ventesima edizione, perché indica all'Inglese prudente il prezzo d'un tacchino, d'una mela, d'una tazza di latte e via dicendo.

Or questo erudito dalla gran chioma rossigna, la sera appunto di quella fiaccolata, era andato in bestia, e nell'albergo aveva tratto di tasca due pistole corte minacciandone il cameriere, che pretendeva fargli pagar due soldi una pesca. Il portare pistole corte è grave delitto; perciò lo arrestarono. E poiché il dotto furibondo era alto e magro, il conte Mosca immaginò di farlo passare agli occhi del sovrano per l'audace il quale, avendo tentato di portar via la Fausta al conte M..., era stato poi cuculiato cosí bellamente. Tre anni di galera eran comminati a Parma a chi portasse pistole corte; ma la pena non era stata applicata mai. Dopo quindici giorni di prigione, durante i quali l'erudito non aveva visto se non un avvocato, che gli mise addosso una maledetta paura esponendogli i terribili decreti che la pusillanimità dei governanti aveva escogitato contro i detentori di armi insidiose, un altro avvocato venne a raccontargli la passeggiata inflitta dal conte M... a un rivale rimasto ignoto. La polizia non voleva confessare al sovrano di non esser riuscita a scoprir questo rivale: se lui, l'erudito, s'adattava a confessare di aver corteggiato la cantante, e che mentre cantava sotto le sue finestre, cinquanta ribaldi lo avevano agguantato e portato in lettiga a girare, senza bensí torcergli un capello: se s'adattava a far questa confessione che, in fondo, non aveva in sé nulla di umiliante, la polizia usciva dall'impiccio e lui dalla prigione. Bastava una parola dettata: lo avrebbero accompagnato al confine e buon viaggio, con tanti saluti a casa.

L'erudito tenne duro per un mese; e due o tre volte il principe fu sul punto di farlo condurre al Ministero degl'Interni, per assister di persona all'interrogatorio. Ma poi non ci pensò piú; e lo storico, seccato, si decise alla confessione, e fu accompagnato alla frontiera. Cosí il principe rimase nel convincimento che il rivale del conte M... era un uomo con una gran zazzera fulvo-chiara.

Tre giorni dopo la girata in lettiga, intanto che Fabrizio, nascosto a Bologna, studiava col fido Lodovico il modo di trovare il conte M..., seppe che questi alla sua volta stava nascosto in un casolare della montagna sulla via di Firenze, e non aveva seco che tre de' suoi buli. Un bel giorno, mentre tornava dal passeggio, fu afferrato da otto uomini mascherati che si dissero sbirri di Parma, lo bendarono, e lo condussero in un albergo distante un paio di leghe e internato fra i monti, ove, trattato con tutti i riguardi, gli fu servita una cena abbondante inaffiata dai migliori vini d'Italia e di Spagna.

— Son dunque prigioniero di Stato? — domandò.

— Neanche per idea — gli rispose garbatamente Lodovico mascherato. — Lei non ha offeso che un cittadino, facendolo portare a spasso in lettiga; e questo cittadino vuole domattina battersi in duello con lei. Se Vossignoria lo ucciderà, troverà del denaro, dei buoni cavalli e ordini già dati per cambiarli sulla strada di Genova.

— Chi è questo spadaccino? — domandò il conte irritatissimo.

— Si chiama Bombaccio. Vossignoria avrà la scelta delle armi, e testimoni sicuri, dei quali può fidarsi. Ma di lor due, uno ha da morire!

— È dunque un assassinio? — gridò il conte spaventato.

— A Dio non piaccia! Si tratta solo di un duello all'ultimo sangue col giovine che Vossignoria ha fatto portare a spasso di notte per le strade di Parma, e che si terrebbe molto disonorato se, vivendo lui, anche lei vivesse. Uno dei due ha da andare all'altro mondo: cerchi dunque d'ammazzarlo! Avrà spade, pistole, sciabole, tutte le armi che fu possibile raccogliere in fretta, perché bisognava far presto: la polizia di Bologna, come Vossignoria può sapere, è diligentissima; ed è assolutamente da evitare ch'essa arrivi a impedir questo duello, necessario per l'onore del giovine che lei s'é creduto lecito di canzonare a quel modo!

— Ma se questo giovine è un principe...

— No, no: è un privato come lei, e anche molto meno ricco di lei; ma vuoi battersi all'ultimo sangue e posso assicurarla che ve la costringerà.

— Io non ho paura di nulla!

— E questo è appunto ciò che il suo avversario desiderareplicò Lodovico. — Domattina dunque si prepari a difendersi da uno che ha ragione di essere irritatissimo contro di lei e che non la risparmierà. Le ripeto che Vossignoria avrà la scelta delle armi... E faccia testamento.

La mattina dopo, verso le sei, servirono al conte la colazione: poi, aperto l'uscio della camera in cui egli era custodito, lo invitarono a passar nella corte d'un'osteria di campagna: la corte era cinta di muri e di siepi molto alte, le porte erano chiuse.

In un angolo, sopra una tavola alla quale il conte fu pregato di avvicinarsi, eran bottiglie di vino, d'acquavite, due pistole, due spade, due sciabole, carta, penna e calamaio. Una ventina di contadini stavano affacciati alle finestre che davan sulla corte:  il conte implorò la loro pietà.

— Vogliono assassinarmi! Salvatemi la vita!

— Voi v'ingannate, o volete ingannare! — gridò Fabrizio dall'angolo opposto della corte. Era in maniche di camicia, e aveva il viso coperto dalla maschera di fil di ferro che s'usa nelle scuole di scherma. — Vi invitosoggiunse — a prender la maschera, e a venir avanti con la spada o le pistole. V'han già detto ieri sera che vi lascio la scelta delle armi.

Il conte M... sollevava di continuo difficoltà e pareva che di battersi non si sentisse: Fabrizio invece temeva l'arrivo della polizia, per quanto fossero in montagna a piú di cinque leghe da Bologna. Finí col rivolgere al suo avversario ingiurie atrocissime: tali e tante che da ultimo il conte, entrato in collera, prese una spada e gli mosse contro. Il duello cominciato straccamente fu qualche minuto dopo interrotto da un gran baccano. Il nostro eroe aveva sentito benissimo di cacciarsi in un guaio che per tutta la vita avrebbe potuto essergli rimproverato o, peggio, dar pretesto a calunniose imputazioni; e aveva mandato Lodovico in cerca di testimoni. Questi mediante denaro reclutò gente che lavorava in un bosco vicino, e che ora, gridando a squarciagola, accorreva, con l'idea si trattasse d'ammazzare un nemico di quello che pagava. Giunti che furono, Lodovico li pregò di tenere bene aperti gli occhi e veder se uno o l'altro dei due giovani che si battevano si comportasse male, pigliando sull'avversario vantaggi illeciti.

Intanto il duello, interrotto da queste grida di morte, non ricominciava: Fabrizio prese di nuovo a sfilar la collana delle ingiurie:

Signor conte, quando uno è insolente bisogna che sia coraggioso! Capisco che questa condizione non fa per voi, e che il coraggio voi preferite comprarlo a contanti dagli altri.

Punto di nuovo, il conte si mise a urlare che aveva frequentato la sala d'armi del famoso Battistino a Napoli, e che lo avrebbe subito fatto pentire di quelle parole. Difatti nuovamente acceso d'ira si batté assai bene, il che non tolse che Fabrizio gli assestasse in pieno petto un bel colpo di spada, che lo tenne a letto piú mesi. Lodovico, apprestandogli le prime cure, gli mormorò all'orecchio: — Se lei denuncia alla polizia questo duello, io la faccio ammazzare fra le lenzuola.

Fabrizio riparò a Firenze; e poiché a Bologna s'era tenuto nascosto, soltanto ricevé le lettere della duchessa che non poteva perdonargli di essere andato al concerto e di non aver neppure cercato di parlarle. Ma le lettere del conte Mosca, ispirate a cordiale amicizia e nobilissimi sentimenti, gli fecero anche maggior piacere. Intuí che il conte aveva scritto a Bologna in modo da allontanare ogni sospetto che potesse in qualche modo toccarlo, per quanto concerneva il duello. La polizia fu mirabile d'equità: certificò che due forestieri, dei quali uno soltanto era noto (il conte M..., ferito) s'eran battuti alla spada, davanti a piú di trenta contadini, fra i quali verso la fine del duello era anche il curato, che invano tentò di separare i combattenti. Il nome di Giuseppe Bossi non fu pronunziato. Fabrizio, un paio di mesi dopo, osò tornare a Bologna, piú convinto che mai che il suo destino lo condannava a non conoscere mai la parte nobile e spirituale dell'amore. E si pigliò il gusto di spiegar tutto ciò alla duchessa con molto partícolareggiato ragionamento. Era stanco di quella vita solitaria, e desiderava ardentemente le incantevoli serate col conte Mosca e la zia.

«Mi son tanto infastidito dell'amore al quale correvo dietro, e della Fausta, che ormai, se anche la sapessi tuttavia incapriccita di me, non farei venti leghe per andarle a ricordar la sua promessa. Levati dunque dalla mente ch'io vada, come temi, a Parigi, dove so che ha esordito con straordinario successo. Farei invece la piú lunga strada immaginabile per passare una sera con te e col conte, cosí buono per i suoi amici

 





6 Pier Luigi, il primo sovrano della famiglia Farnese, cosí celebre per le sue virtú, fu, com'é noto, figlio naturale del santo papa Paolo III. (Nota dell'A.)

 





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