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Stendhal
La certosa di Parma

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XVI

 

E ora, — disse il generale vedendo don Cesare — la duchessa spenderà centomila scudi per far scappare il prigioniero e ridersela de' fatti miei.

Ma ci bisogna, pel momento, lasciar Fabrizio nella cittadella; è ben custodito e ce lo troveremo a suo tempo, un po' cambiato forse; ora dobbiamo occuparci della Corte, nella quale complicati raggiri e le passioni d'una donna infelice decideranno della sua sorte. Mentre saliva sotto gli occhi del governatore i trecentonovanta gradini della torre Farnese, Fabrizio, che pur aveva tanto temuto quest'ora, pensò che non aveva tempo da badare a malanni.

La duchessa, tornando dalla serata del conte Zurla, licenziò con un gesto le sue donne, e cadde vestita sul letto. «Ah, Fabrizio! — gridò — eccolo nelle mani dei suoi nemici, e forse lo avveleneranno per cagion mia!» Chi può descrivere il momento che succede a questa laconica ma limpida esposizione dello stato delle cose, e dire la disperazione di una donna cosí poco ragionevole, sempre sotto il dominio della sensazione presente e, pur senza confessarlo a se stessa, cosí perdutamente innamorata del giovine prigioniero? Furon grida inarticolate, impeti di furore, moti convulsi, ma non una lagrima. Aveva mandato via le sue donne per non farsi veder piangere: le pareva che appena sola sarebbe scoppiata in singulti, ma le lagrime, questo primo sfogo dei grandi dolori, non vennero. L'ira, l'indignazione, il sentimento della propria inferiorità di fronte al principe, imperavano troppo sull'anima altera.

«Ah, che umiliazione! — ripeteva di continuo — mi offendono; peggio: mettono a rischio la vita di Fabrizio, e io non dovrei vendicarmi? Ah, un momento, signor principe, voi mi assassinate: sia: è in poter vostro il farlo; ma io avrò la vita vostra! Ah, povero Fabrizio, e a che ti servirà? Che differenza dal giorno in cui volevo andarmene da Parma! E allora mi lamentavo! in procinto di troncar tutte le consuetudini di una vita piacevole, mi pareva d'essere infelice. Che cecità! Ahimé! chi avrebbe potuto dirmi che di a poco sarebbe avvenuto un fatto pel quale le mie sorti sarebbero mutate, e per sempre? Se per la sua maledetta smania di piaggeria, il conte non avesse omesso le parole «iniqua procedura» in quella lettera fatale che la vanità del sovrano mi aveva concessa, eravamo salvi! Avevo avuto piú la fortuna, bisogna convenirne, che la destrezza di punger il suo amor proprio a proposito della sua cara Parma; allora minacciavo di andarmene! Ma allora ero libera! E ora! Mio Dio! chi è piú schiava di me? Sono inchiodata in questa cloaca infame. Fabrizio è chiuso in quella cittadella che per tanti onesti uomini fu l'anticamera della tomba, e non mi è piú possibile tenere in freno la belva con la minaccia di lasciar la sua tana!

«È troppo furbo per non capire che io non mi allontanerò mai dalla torre dove sta incatenato il mio cuore. Ora la vanità ferita può suggerire a quest'uomo le piú strane idee e compiacersi nelle crudeltà piú raffinate. E se mi viene ancora dattorno con le sue vecchie insipide proposte! Se mi mette cosi tra l'uscio e il muro, e mi dice: "O lei accoglie gli omaggi della mia devozione, o Fabrizio va all'altro mondo"! Poco male il mio suicidio: ma seguirà l'assassinio di Fabrizio... eh! allora, la vecchia storia di Giuditta... ; ma poi? poco male! Quel povero scemo del principe ereditario e quel carnefice del Rassi lo faranno impiccare, come mio complice

La duchessa si mise a gridare: l'alternativa dalla quale non sapeva come liberarsi l'angosciava, le turbava la mente cosí da non permetterle di pensare che le cose potessero nell'avvenire andare altrimenti. Per una decina di minuti s'agitò come una forsennata, e finalmente il sonno prodotto da una prostrazione profonda calmò per qualche momento quell'orribile stato di orgasmo e di sfinimento. Si destò di soprassalto e si trovò seduta sul letto: le parve che il principe volesse tagliar la testa a Fabrizio davanti a lei, e girò attorno gli sguardi come pazza. Quando infine fu persuasa che non c'erano né Fabrizio né il principe, ricadde sul letto quasi svenuta. Era fisicamente cosí debole da non aver la forza di rigirarsi sul letto. «O Dio! se potessi morire! — disse. — Ma no! che viltà! Lasciare io Fabrizio in questi guai! Perdo la ragione.... Mettiamoci in calma e vediamo come realmente stanno le cose: esaminiamo a sangue freddo la condizione orribile in cui mi son cacciata. Che scioccheria! e pur troppo funesta! Venir nella Corte d'un principe assoluto: d'un tiranno che conosce tutte le sue vittime: ogni loro sguardo gli pare una sfida! A questo né il conte né io pensammo quando venni via da Milano; io m'aspettavo di trovar qui tutta la gentilezza di una Corte piú modesta, , ma che somigliasse a quella del principe Eugenio nei bel giorni del regno d'Italia.

«Non ci facevamo un'idea, da lontano, di quel che può essere l'autorità d'un despota che conosce tutti i suoi sudditi. Le forme esteriori son quelle degli altri governi: per esempio, ci sono de' giudici... ma sono dei Rassi! A questo miserabile non parrebbe di far nulla di straordinario condannando suo padre all'impiccagione se il principe gliel'ordinasse... Sarebbe capace di dire che è il suo dovere.... Guadagnar questo Rassi? Ma, disgraziata, che gli potrei offrire? Centomila lire, forse... ma dicono che dopo l'ultimo attentato, al quale l'ira di Dio contro questo paese lo fece scampare, il principe gli mandò una cassetta con diecimila zecchini. D'altra parte, forse nessuna somma di denaro lo sedurrebbe. Anima di fango, che non ha visto mai altro che il disprezzo negli occhi di tutti, qui gode nel sentirsi temuto e nel credersi rispettato. E potrebbe, perché no? diventar ministro di polizia: e allora tre quarti degli abitanti saranno i suoi sozzi cortigiani e tremeranno davanti a lui come lui trema oggi davanti al sovrano.

«Se fuggire non posso da questa maledetta città, bisogna almeno ch'io sia utile a Fabrizio. Lontana, sola, disperata, che potrei fare per lui? Avanti, disgraziata donna, avanti, fa il tuo dovere! Va in società, fingi di non pensar piú a Fabrizio... Fingere di dimenticarti?... Oh, angelo mio!» Dette in un pianto dirotto: finalmente poteva piangere. Dopo un'ora, conceduta all’umana fragilità, le parve, e ne ebbe conforto, che le sue idee cominciassero a schiarirsi. «Avere una bacchetta magica, — pensòrapire Fabrizio e rifugiarmi con lui in qualche luogo dove nessuno potesse perseguitarci: a Parigi, per esempio. Da principio bisognerebbe viverci con le milleduecento lire che l'intendente di suo padre mi fa passare con cosí comica puntualità: dai rimasugli della mia fortuna potrei raccapezzare un centinaio di mila lire.» E la duchessa, cosí fantasticando, enumerava a uno a uno, con indicibile letizia, i piú minuti particolari della vita che condurrebbe a trecento leghe da Parma. «, — diceva fra sé — potrebbe magari sotto altro nome prender servizio. E in un reggimento di bravi francesi presto il giovine Valserra farebbe strada e sarebbe felice

Queste immagini ridenti la fecero piangere ancora, ma furon lagrime dolci. Si poteva dunque ancora in qualche luogo esser felici! La povera donna, a cui faceva orrore la triste realtà, in questo stato si cullò lungamente. Alla fine, quando l'alba incorniciò d'una linea bianca le vette degli alberi del giardino, si fece forza. «Tra qualche ora, — pensò — sarò sul campo di battaglia: bisognerà agire, e se qualche cosa m'irrita, se al principe viene in mente di rivolgermi qualche parola relativa a Fabrizio, non son sicura di conservare il mio sangue freddo. Bisogna qui, e senza indugio, prendere qualche risoluzione.

«Se mi dichiarano rea contro lo Stato, il Rassi fa sequestrare tutto quello che si trova in questo palazzo: il primo del mese, il conte ed io abbiamo, come al solito, buttato al fuoco tutte le carte di cui la polizia potrebbe abusare: e il bello è che il conte è ministro di polizia! Io ho tre diamanti di valore: domani Fulgenzio, il mio vecchio barcaiolo di Grianta, partirà per Ginevra per metterli al sicuro. Se mai Fabrizio riesce a scappare, gran Dio, aiutatemi! (e si fece il segno di croce) la incommensurabile vigliaccheria del marchese Del Dongo gli dimostrerà che mandar del pane a un figliuolo perseguitato da un principe legittimo è peccato: almeno, troverà i miei diamanti e il pane lo avrà.

«Bisogna congedare il conte... Dopo quel ch'é avvenuto mi sarebbe impossibile trovarmi sola con lui. Pover'uomo! non è cattivo, anzi! ma è debole. La sua piccola anima non è all'altezza delle nostre. Povero Fabrizio, perché non puoi esser qui un momento a discorrere de' nostri pericoli?

«La prudenza meticolosa del conte metterebbe chi sa quanti bastoni nelle ruote; e d'altra parte non voglio trascinarlo nella mia rovina. Già, perché la vanità del principe non potrebbe indurlo a farmi mettere in prigione?... Rea di cospirazione: facilissimo a provare! Se mi mandasse nella cittadella, e mi fosse possibile, a forza di denaro, parlare anche un istante a Fabrizio, con che coraggio andremmo insieme alla morte. Ma lasciamo queste pazzie.... Il Rassi gli consiglierebbe di farmi avvelenare: il vedermi andare al patibolo legata sulla carretta potrebbe commuovere la sensibilità de' suoi cari Parmigiani!... Ma che? sempre romanzi! Ahimé! Bisogna pur perdonare queste fantasticherie a una povera donna, in cosí triste condizione. Di vero c'é questo: che il principe a morte non mi manderà, ma quanto al cacciarmi in prigione e tenermici, nulla di piú facile: in qualche luogo del mio palazzo farà nasconder le carte compromettenti, come ha fatto per quel povero L.... E basteranno tre giudici, e neppur de' peggiori, poiché ci sarà il corpo del reato e una dozzina di testimoni falsi. Cosi posso esser condannata a morte per cospirazione, e poi nella sua alta clemenza, il sovrano, considerato che un tempo io ho avuto l'onore d'essere ammessa alla sua Corte, commuterà la pena in una decina d'anni di fortezza. Ma poi, per mantener fino all'ultimo il mio carattere violento, che ha fatto dir tante sciocchezze alla Raversi e ad altri nemici, io mi avvelenerò: o almeno il pubblico avrà la bontà di crederlo. Ma scommetto che il Rassi in persona verrà in carcere a portarmi graziosamente, per parte del principe, un po' di stricnina o dell'acquetta di Perugia.

«, : bisogna ch'io rompa col conte e anche ostensibilmente: non voglio trascinarlo nella mia rovina! Sarebbe un'infamia: mi ha amata, poveretto, con tanto candore! Sono stata una sciocca io a credere che un cortigiano autentico potesse ancora aver tanto di cuore da amare davvero! Che il principe trovi un pretesto per farmi arrestare è probabilissimo: magari avrà paura ch'io possa pervertir l'opinione pubblica riguardo a Fabrizio: il conte è uomo d'onore e farà subito ciò che tutti questi miserabili chiameranno una pazzia: lascerà immediatamente la Corte. Io sfidai l'autorità del principe la sera della lettera: dalla sua vanità ferita io mi posso aspettar tutto: può un uomo, nato principe, dimenticare le sensazioni ch'io gli procurai quella sera? D'altra parte, il conte, in rotta con me, può piú agevolmente giovare a Fabrizio.... E se invece, disperato per la mia decisione, pensasse a vendicarsi? Ah! no: questo non gli verrà in mente di certo. Non ha la bassezza d'animo del principe: può, con profondo rammarico, controfirmare un decreto infame, ma che cosa sia onore lo sa, il senso dell'onore lo ha. E poi, vendicarsi di che? Di questo: che dopo averlo amato per cinque anni senza fare all'amor suo la menoma offesa, gli dico: "Caro conte, io ero lietissima di amarvi: ora la fiamma s'é spenta: io non v'amo piú; conosco bensí a fondo il vostro cuore, vi serbo una stima profonda e vi considererò sempre come il migliore de' miei amici". Che può rispondere un galantuomo a una dichiarazione cosí sincera?

«Mi piglierò un altro amante; o per lo meno lascerò credere che lo abbia. E a costui dirò:

"In fondo, il principe ha ragione di punire la sventatezza di Fabrizio: ma, senza dubbio, il giorno della sua festa, il nostro grazioso Sovrano lo rimetterà in libertà". Cosí guadagnerò sei mesi. La prudenza vorrebbe, a dir vero, che questo nuovo amante fosse quell'anima venduta, quel boia del Rassi: si sentirebbe nobilitato... e infatti io gli aprirei le porte del bel mondo. Perdonami, Fabrizio, questo sacrifizio al di sopra delle mie forze! Come? Questo mostro, lordo ancora del sangue del conte P... e di D...! Mi sentirei, per l'orrore, venir meno solo ch'egli mi si accostasse... o piuttosto prenderei un coltello e lo pianterei nel sozzo suo cuore. No, no, Fabrizio mio, non mi chiedere cose impossibili.

«, prima di tutto, dimenticare Fabrizio; neppure l'ombra di collera contro il principe; anzi, ripigliare la mia consueta gaiezza che piacerà anche piú del solito a queste anime di fango, prima perché sembrerà ch'io mi sottometta di buona grazia al loro sovrano; poi perché invece di burlarmi di loro, farò del mio meglio per mettere in rilievo i loro piccoli meriti: per esempio, mi feliciterò col conte Zurla per la bella piuma bianca che porta al suo cappello che s'é fatto venir da Lione con un corriere e forma la sua felicità.

«Sceglierò un amante nel partito della Raversi. Se il conte se ne va, al governo salgono loro. E uno di loro regnerà sulla cittadella, perché Fabio Conti andrà al Ministero. Ma come potrà il principe, uomo di spirito assuefatto alla compagnia piacevole del conte, adattarsi a trattar di affari con quel bue, quel re degli imbecilli, che in tutta la sua vita non s'é occupato che di questo gravissimo problema: i soldati di Sua Altezza debbono aver sulla tunica a due petti sette o nove bottoni? Questi animali son gelosi di me, e qui sta il tuo pericolo, Fabrizio mio: son costoro quelli che debbon decidere della mia sorte e della tua! Dunque, bisogna non permettere che il conte si dimetta, anzi è necessario che rimanga, anche a costo di qualche umiliazione. Gli par sempre che questo dare le dimissioni sia il piú gran sacrificio che un primo ministro possa fare; e me l'offre ogni volta che lo specchio l'avverte che va invecchiando. Dunque è necessario rompere: sicuro; e non venire a riconciliazione se non nel caso che questo sia l'unico mezzo per impedirgli d'andarsene. Certo, metterò nel congedo tutta la cordialità possibile; ma dopo che, per vecchia incrostazione di cortigianeria, omise nella lettera del principe le parole «iniqua procedura», sento che, per non odiarlo, mi bisogna star qualche mese senza vederlo. Quella sera, della sua intelligenza non avevo che farmene: bastava che scrivesse, sotto la mia dettatura, quelle parole che in grazia del mio carattere ero riuscita a ottenere dal principe; ma le servili consuetudini di cortigiano presero il sopravvento. Mi disse il giorno dopo che non poteva far sottoscrivere al principe un'assurdità, e che ci sarebbero volute delle «lettere di grazia». Eh! santo Dio, con mostri di vanità e di rancori come sono i Farnese, si piglia quel che si può.»

Per questo pensiero tutta la collera della duchessa si ravvivò: «Il sovranogridò — mi ha ingannata vilmente! E non ha scusa: è intelligente, accorto, ragiona bene; ma le sue passioni sono ignobili. Quante volte l'abbiamo notato col conte! Non diventa volgare se non quando s'immagina che qualcuno ha voluto offenderlo. La colpa di Fabrizio non ha nulla da fare con la politica: un assassinio insignificante, come ne avvengon cento all'anno in questi felicissimi Stati; e il conte m'ha giurato d'aver fatto raccogliere informazioni esatte, e che Fabrizio è innocente. Quel Giletti non mancava di coraggio; e a due passi dalla frontiera, non resisté alla tentazione di vendicarsi d'un rivale fortunato

La duchessa considerò a lungo se fosse possibile credere alla colpabilità di Fabrizio: non già ch'ella pensasse che per un gentiluomo del grado e dei natali di suo nipote fosse una colpa seria lo sbarazzarsi dell'impertinenza d'un istrione, ma cominciava a sentir vagamente che le sarebbe stato necessario lottare per provarne l'innocenza. «No, — disse alla fine — la prova decisiva è questa: che, come usava il povero Pietranera, egli aveva sempre armi in tutte le saccocce, e quella mattina non aveva che uno schioppettaccio prestatogli da uno degli operai! Come odio questo principe che m'ha ingannata, e ingannata nel modo piú vergognoso! Dopo la lettera di perdono ha fatto prendere a Bologna quel povero figliuolo.... Oh, ma faremo i conti

Verso le cinque di mattina, disfatta da un cosí prolungato accesso di disperato dolore, sonò alle cameriere. E a costoro, che la trovaron sul letto tutta vestita ancora, co' suoi diamanti, bianca come le lenzuola, a occhi chiusi, ella apparve come se fosse esposta dopo la morte. L'avrebbero creduta svenuta se non riflettevano ch'essa sola poteva averle chiamate. Qualche rara lagrima cadeva di tanto in tanto sulle sue guance insensibili: da un cenno, le donne compresero che voleva esser messa a letto.

Due volte, dopo il ricevimento in casa Zurla, il conte s'era presentato e, rimandato, le aveva scritto che voleva un consiglio. «Doveva, dopo l'affronto che osavano fargli, rimanere al suo posto?» E aggiungeva: «L'accusato è innocente, ma fosse pure colpevole, dovevano arrestarlo senza avvertirne me, suo protettore dichiarato?» La duchessa non vide questa lettera che il giorno dopo.

Il conte non aveva «virtú»: anzi, si può dire che ciò che i liberali intendono per «virtú» (cercare la felicità del maggior numero) gli pareva una fanfaluca: si stimava in obbligo di cercar prima di tutto la felicità del conte Mosca Della Rovere; ma era pieno d'onore, e in perfetta buona fede, quando parlava delle sue dimissioni. Non aveva mai mentito alla duchessa: la quale, del resto, non fece la menoma attenzione alla lettera. Ormai il partito, quantunque penoso, era preso: dopo siffatto sforzo, tutto le riusciva indifferente.

Il giorno dopo, verso mezzodí, il conte, che era passato dieci volte dal palazzo Sanseverina, fu finalmente ricevuto e rimase atterrito al veder la duchessa. «Ha quarant’anni ! — pensò — e fino a ieri sera era cosí giovine e cosí bella. Tutti quelli che l'han vista trattenersi a lungo con Clelia Conti dicevano ch'ella pareva altrettanto giovine ed era assai piú seducente

La voce e il tono della duchessa erano strani cosí come l'aspetto. Il tono pacato, senz'ombra di passione, impressionò molto il conte che divenne a un tratto pallidissimo, e gli tornò alla mente un amico morto qualche mese innanzi, che dopo avuti i sacramenti aveva desiderato parlargli.

Passarono alcuni minuti prima che la duchessa riuscisse ad articolar parola; poi, guardandolo con gli occhi spenti, poté dirgli con un fil di voce, al quale si sforzava di dare una intonazione di simpatia:

Separiamoci, caro conte: è necessario. Dio m'é testimonio che in questi cinque anni io mi sono condotta con voi in modo irreprensibile. Voi avete dato alla mia vita gaiezza e splendore invece della noia che m'aspettava a Grianta... senza di voi sarei diventata vecchia qualche anno prima... Dal canto mio, la mia sola occupazione fu cercare di farvi felice: e perché vi voglio veramente bene vi propongo questa separazione «all'amichevole», come direbbero in Francia.

Il conte non capiva; ed ella dové ripeter piú volte la sua proposta; allora egli, pallido come la morte e buttandosi in ginocchio accanto al letto, le disse tutto ciò che lo sbigottimento piú profondo e la piú crudele disperazione possono inspirare a un uomo di spirito pazzamente innamorato. Ogni tanto le offriva di dimettersi e di fuggire con lei in qualche solitudine mille miglia lontano da Parma.

— Ma come? Mi parlate di partire e Fabrizio è qui! — gridò allora sollevandosi a sedere sul letto. Se non che, accertasi che il nome di Fabrizio faceva un'impressione penosa, continuò dopo una breve pausa, stringendo lievemente la mano del conte: — No, amico mio, io non vi dirò che vi ho amato con quella passione e quel fervore che, dopo i trent'anni, non si provan piú; e i miei trent'anni son passati da un pezzo. Vi avran detto che amavo Fabrizio:  io so che questa voce è corsa in questa Corte perversa... (e i suoi occhi sfavillarono per la prima volta durante questo colloquio nel pronunziar la parola «perversa»). Vi giuro davanti a Dio, e sulla vita di Fabrizio, che fra me e lui non è mai avvenuta cosa che non tollerasse la presenza di una terza persona. E non vi dirò neppure ch'io gli voglio bene come una sorella:  é, se posso dir cosí, un bene istintivo. Mi piace il suo coraggio cosí semplice e perfetto. Ricordo che questa ammirazione data dal suo ritorno da Waterloo: nonostante i suoi diciassette anni, era ancora un bambino; e quel che lo angustiava era il non saper se gli fosse lecito affermare di avere assistito a una battaglia e, nel caso affermativo, di aver combattuto, visto che non aveva preso parte all'assalto di una batteria o di una colonna nemica. Durante le gravi discussioni su questo importante argomento, io cominciai a scoprire quanto era di nobile e di simpatico in lui. La sua grande anima mi si rivelava: quante belle bugie avrebbe snocciolato, al suo posto, un giovinetto della «buona società»! Insomma, se egli non è felice, non posso esser felice neanche io! — Incoraggiato da questo tono di schietta intimità, il conte fece per baciarle la mano: lei la ritirò quasi con orrore.

Passò quel tempo; — gli disse — sono una donna di trentasette anni, sulla soglia della vecchiezza: e ne provo già tutto lo scoramento, e forse non son lontana dalla tomba. Dicono che è un momento terribile, e pur mi pare di desiderarlo. Della vecchiezza io sento il sintomo peggiore: il mio cuore è spento da questa orribile sciagura: io non posso amar piú. E in voi, caro conte, non veggo se non l'ombra d'una persona che mi fu cara. Vi dirò di piú: soltanto la riconoscenza fa ch'io vi parli cosi.

— Che sarà di me? — ripeteva il conte — di me che mi sento avvinto a voi piú appassionatamente di quando, ne' primi tempi, vi vedevo alla Scala?

Amico mio, bisogna che confessi che parlar d'amore mi annoia e mi pare indecente. Su, — aggiunse, cercando, ma inutilmente, di sorridere — su, coraggio! Siate uomo di spirito, uomo assennato, uomo di risorse, quando occorre. Siate con me quello che siete veramente agli occhi di tutti, il ministro piú abile e il maggior uomo di Stato che l'Italia abbia avuto da secoli.

Il conte si alzò e passeggiò qualche minuto su e giú per la camera.

Impossibile, mia cara amica: — disse finalmente — io sono tra gli strazi della passione violenta; e voi mi consigliate di valermi della mia ragione. Non esiste piú la ragione per me.

— Non parliamo di passione, vi pregoribatté la duchessa seccamente: e per la prima volta dopo due ore di colloquio, la sua voce ebbe una qualsiasi espressione. Il conte, disperato lui stesso, si provò a consolarla.

— M'ha ingannatagridò senza curarsi affatto delle speranze che il conte le faceva balenare, senza rispondere alle parole di conforto ch'ei le diceva — m'ha ingannata nel modo piú vile! — E il suo volto, animandosi, si colorí; ma, anche in quella sovraeccitazione, il conte osservò ch'ella non aveva neppur la forza di sollevare le braccia.

«Mio Dio, — pensò — ma se non fosse che una malata? Ma in questo caso, si sarebbe all’inizio di qualche malattia grave!» E, inquietissimo, propose di far chiamare il celebre Rasori, il primo medico di Parma e di tutta l'Italia.

— Volete dunque dare a un estraneo il piacere di misurare quanto sia grande la mia disperazione? è il suggerimento cotesto di un amico o di un traditore? — aggiunse, fissando lo con uno sguardo strano.

«È finita! — pensò il conte con animo straziato — non ha piú amore per me, e non mi mette piú neanche nel numero dei galantuomini.» — Vi dirò, — disse poi quasi in fretta — che ho cercato di saper tutti i particolari di questo arresto che ci mette alla disperazione; e, cosa singolare, non sono ancor riuscito a saper nulla di positivo: ho fatto interrogare i gendarmi della stazione vicina: essi han visto giungere il prigioniero dalla via di Castelnuovo, e hanno avuto l'ordine di seguir la sediola. Ho mandato Bruno... voi conoscete il suo zelo e la sua devozione, con l'ordine di passar di stazione in stazione per saper dove e come Fabrizio fu arrestato.

All'udir il nome di Fabrizio la duchessa fu colta come da una lieve convulsione.

Scusate, — disse appena poté parlare — questi ragguagli m'interessano molto: datemene piú che potete: desidero conoscere i menomi particolari.

Ora, — continuò il conte, arieggiando la disinvoltura per tentar di distrarlaora ho voglia di mandar uno di fiducia a Bruno, per dirgli di spingersi fino a Bologna: forse l'han preso . Di che data è l'ultima sua lettera?

— È di martedí:  son cinque giorni.

— L'avevano aperta alla posta?

— No, nessuna traccia; ma vi dirò: scritta su pessima carta, e indirizzata da mano femminile a una vecchia lavandaia parente della mia cameriera. La lavandaia crede si tratti d'un amoretto, e la Checchina le rimborsa le spese di porto, senza nessun compenso.

Il conte, che aveva preso il tono dell'uomo d'affari, cercò di precisare, discutendo con la duchessa, in che giorno poteva essere avvenuto l'incontro a Bologna, e allora soltanto s'accorse, egli che pur aveva tatto cosí squisito, che quello era il tono da prendere. Quei discorsi interessavano la povera donna e parevano distrarla un poco: s'egli non fosse stato tanto innamorato, lo avrebbe capito appena entrato nella camera. La duchessa lo mandò via affinché potesse senza indugio spedire nuovi ordini al fido Bruno. Poiché, nel tanto parlare, il discorso era caduto sulla quistione della sentenza: sapere cioé se fosse già pronunciata avanti che il principe sottoscrivesse la lettera alla duchessa, questa colse immediatamente l'occasione di dire al conte:

— Io non voglio rimproverarvi di aver omesso le parole «procedura iniqua» nella lettera che voi scriveste ed egli firmò: il vostro istinto cortigianesco vi prese pel collo e senza nemmeno accorgervene posponeste gl'interessi della vostra amica a quelli del vostro padrone. Caro conte, è un gran pezzo che voi vi proponete di regolare i vostri atti secondo i miei ordini, ma non potete mutar natura: certo, avete grandi requisiti per esser ministro, ma avete anche l'istinto del mestiere. La omissione di quella parola «iniqua» mi rovina, ma non posso farvene un torto: fu colpa dell'istinto e non della volontà.

«Dunque, ricordatevi beneaggiunse mutando tono e con aria imperiosa — che io non son troppo desolata di questo arresto di Fabrizio, che io non ho la menoma volontà di andarmene da Parma, che io ho il massimo rispetto per il principe. Questo voi dovete dire agli altri. Io debbo poi dire a voi: d'ora in avanti intendo di regolar da me la mia condotta, e perciò voglio separarmi da voi «all'amichevole», cioé da buona e vecchia amica. Figuratevi ch'io abbia sessant'anni: in me quella che fu la donna giovine è morta: non posso sperar piú nulla dal mondo, e non posso piú amare. Ma sarei anche piú disgraziata di quel che sono, se m'accadesse di comprometter la vostra sorte. Può darsi che mi convenga far credere di avere un amante: non vorrei vedervene afflitto. Posso giurarvi sulla felicità di Fabrizio — e fece dopo questo nome una pausa di mezzo minuto — che non vi ho fatta la menoma infedeltà mai, in cinque anni: e cinque anni son lunghi. — E si provò a sorridere: le sue guance pallide s'incresparono, ma le labbra non si schiusero. — E vi giuro anche che non ne ebbi mai né l'intenzione né il desiderio. Dopo di ciò, lasciatemi

Il conte uscí dal palazzo Sanseverina, disperato: vedeva la duchessa assolutamente decisa a separarsi da lui, e non n'era mai stato innamorato cosi perdutamente. Questo è un punto sul quale ci bisogna insistere, perché fuori d'Italia simili casi sono addirittura improbabili. Tornato a casa, spedí sei persone sulla strada da Castelnuovo a Bologna, con lettere e incarichi differenti. «E non basta: — continuava a pensare — il principe può avere il capriccio di far morire quel disgraziato ragazzo, unicamente per vendicarsi dell'arroganza della duchessa la sera di quella lettera fatale. Io sentivo ch'ella andava oltre i limiti che non si debbono mai oltrepassare, e per aggiustar le cose, feci la incredibile sciocchezza di omettere quella «iniqua procedura»: la sola frase che tenesse vincolato il sovrano. Ma, poi: questa gente è forse mai vincolata da qualche cosa?

«È questo lo sproposito piú grande ch'io abbia commesso nella mia vita e mi sono giocato tutto quel che mi premeva di piú a questo mondo. Ora bisognerà riparare, a forza d'attività e di accorgimenti, ma, se non ottengo nulla, nemmeno sacrificando un po' della mia dignità, io lo pianto costui. Con tutte le sue fantasticherie di grande politica, con le sue belle pensate di diventar re costituzionale della Lombardia, vedremo come saprà sostituirmi! Fabio Conti è uno stupido, e l'ingegno del Rassi si riduce a far impiccare legalmente un uomo che dispiace al governo

Fermo in questa decisione di rinunciare al Ministero se i rigori contro Fabrizio avessero superato la misura della reclusione pura e semplice, il conte concluse: «Se un capriccio della vanità di quest'uomo, sfidata con poca prudenza, deve costarmi la felicità, mi resti almeno l'onore. A proposito: posto che m'infischio del portafogli, posso far cento cose che stamani ancora mi sarebbero apparse fuor del possibile. Per esempio: tenterò tutto quello che umanamente si può tentare per far evadere Fabrizio! Dio mio! — gridò interrompendosi e spalancando gli occhi come per il fulgido apparire d'una fortuna inaspettata — la duchessa non mi ha neppure accennato all'evasione; avrebbe ella, per la prima volta, mancato di sincerità e la voluta separazione nasconderebbe il desiderio ch'io tradissi il principe? Se è cosí, affare fatto

L'occhio del conte riprese tutta la sua acutezza satirica: «Questo caro Rassi è pagato dal sovrano per tutte le sentenze che fan di noi il vituperio di tutta Europa; ma non è uomo da ricusare d'essere pagato da me per tradir il padrone. Questo animale ha un'amante e un confessore; ma l'amante è troppo di bassa lega perché io possa parlarle: il giorno dopo racconterebbe il nostro colloquio a tutte le fruttivendole del vicinato.» Come risuscitato da questo bagliore di speranza, s'avviò verso la cattedrale; e meravigliato della sveltezza del proprio andare, sorrise: «Cosa vuol dire non esser piú ministro!» La cattedrale, come molte altre in Italia, serve di comunicazione fra due strade: il conte scorse uno dei grandi vicari dell'arcivescovo che passava per la navata.

— Poiché la incontro, — gli disse — vorrebbe aver la bontà di risparmiare alla mia gotta la fatica di salir fin su da monsignor arcivescovo? Gli sarei grato non sto a dir quanto se volesse scender qui in sacrestia.

L'arcivescovo fu lietissimo di questa ambasciata: aveva tante cose da dire al ministro a proposito di Fabrizio; ma il conte indovinò che sarebbero state parole inutili, e tagliò corto.

— Che uomo è il Dugnani, vicario di San Paolo?

Piccola testa e grande ambizione, — rispose l'arcivescovo — pochi scrupoli e molta miseria, perché vizi non ne mancano!

— Per Bacco, monsignore, lei scolpisce come Tacito! — e sorridendo si licenziò. Tornato al Ministero, fece chiamar l'abate Dugnani.

— Lei dirige la coscienza del mio ottimo amico avvocato fiscale Rassi: non avrebbe egli qualcosa da dirmi? — E senz'altre cerimonie, lo congedò.

 




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