XIX
L'ambizione del general Fabio
Conti, esasperata fino a rasentar la pazzia dalle difficoltà in cui si
dibatteva il conte Mosca, la cui caduta pareva imminente, l'aveva ridotto a far
alla figliuola scene violente. Le ripeteva irosamente e senza darle tregua che
ella dava calci alla fortuna, col non voler decidersi a una scelta: a vent'anni
passati, era ormai tempo di pigliare una risoluzione: lo stato di crudele
isolamento, in cui la sua testardaggine poneva il generale, doveva finire. E
cosí via.
Principalmente per
sottrarsi a queste perpetue sfuriate, Clelia era andata a rifugiarsi
nell'uccelliera: non vi si saliva che per una scaletta di legno assai scomoda,
arduo ostacolo alla gotta del governatore.
Da qualche settimana
Clelia era cosí agitata ch'ella stessa non sapeva bene che desiderare, tanto
che, pur senza prendere con suo padre nessun impegno preciso, era giunta quasi
a dare un consenso. In uno de' suoi momenti d'ira, il generale aveva gridato
che avrebbe ben saputo mandarla ad annoiarsi nel piú uggioso convento di Parma,
e che l'avrebbe lasciata là ad avvizzire finché non si fosse degnata di fare
una scelta.
— Tu sai bene che la
nostra casa, per quanto di antica nobiltà, non arriva a metter assieme seimila
lire di rendita, laddove il marchese Crescenzi ha piú di centomila scudi
d'entrata all'anno. Tutti a Corte sono concordi nel lodar la dolcezza della sua
indole, e nessuno mai ebbe ragione di dolersi di lui; è un bell'uomo giovine,
beneviso al principe: insomma, bisogna esser matta da legare per rifiutarlo. E
se fosse il primo de' rifiuti, pazienza! potrei tollerare: ma è il quinto o il
sesto partito che tu ricusi da quella stupida che sei! Ma che sarebbe di te
s'io fossi messo a mezzo stipendio? E che trionfo per i miei nemici se
potessero vedermi alloggiato miseramente in un secondo piano, me, di cui si è
parlato tante volte per un Ministero! No, per tutti gli Dei. Basta! da troppo
tempo per la mia bontà faccio la parte di Cassandrino. Una delle due: o tu
giustifichi il tuo rifiuto con delle buone ragioni, contro questo povero
Crescenzi che ha la bontà di essere innamorato di te e di sposarti senza dote,
anzi d'assegnarti un vedovile di trentamila lire di rendita, che se non altro
basteranno ad alloggiarmi decorosamente... o altrimenti, se buone ragioni non
ci sono, vero com'é vero ch'io son Fabio Conti, tu lo sposerai fra due mesi.
In tutto questo discorso
ciò che fece colpo, nell'animo di Clelia fu la minaccia d'esser mandata in un
convento, e allontanata dalla cittadella, quando la vita di Fabrizio pareva
pendere da un sottilissimo filo, poiché non passava mese che a Corte e in città
non si rispargesse la voce della sua morte vicina. Per quanti ragionamenti ella
facesse, non seppe mai risolversi a correre il rischio d'esser separata da
Fabrizio proprio nel punto ch'ella aveva da tremare per lui. Questo era il piú
grande dei mali; per lo meno, era imminente.
Non già che, anche
essendogli vicina, il suo cuore intravvedesse speranze di felicità: lo credeva
amato dalla duchessa, ed era straziata dalla gelosia. E non sapeva non pensare
alla superiorità di quella donna cosí universalmente ammirata. Il grande
riserbo che s'era imposto con Fabrizio, il linguaggio di segni al quale lo
aveva limitato, per paura di cadere in qualche indiscrezione, tutto, insomma,
pareva combinato per impedirle di arrivare a conoscere quali fossero i suoi
sentimenti per la Sanseverina, e i suoi rapporti con lei. E ogni giorno sentiva
piú angosciosa la sciagura di avere una rivale nel cuore di Fabrizio e piú si
tratteneva ogni giorno dall'offrirgli occasione a dir tutta la verità. Pure,
quale incanto sentirlo confessare i suoi veri sentimenti! E quale contento per
Clelia poter dissipare i sospetti che le avvelenavano la vita!
Fabrizio era leggero: a
Napoli aveva reputazione di cambiar spesso d'amante. A malgrado della
riservatezza imposta a una signorina, Clelia, da quando fu canonichessa e
presentata a Corte, senza mai interrogare, ma ascoltando attentamente, era
arrivata a conoscer la reputazione dei giovani che avevano chiesta la sua mano.
E di tutti, Fabrizio era quegli che si comportava con maggior leggerezza nelle
sue relazioni amorose. Ora era in prigione, si annoiava e faceva la corte alla
sola donna che gli era possibile vedere. Che di piú semplice e anche di piú
comune? E questo la desolava. Quand'anche da una confessione completa fosse
giunta a saper che Fabrizio non amava piú la duchessa, che fede avrebbe potuto
prestare alle sue parole? E se pure le parole meritassero fede, come credere
alla durata de' suoi sentimenti? Poi, per colmo di disperazione, Fabrizio non
era già assai innanzi nella carriera ecclesiastica? sul punto di legarsi con
voti indissolubili? Non lo attendevano in quella sua nuova condizione le piú
alte dignità? «Se mi rimanesse un barlume appena di buon senso, — si diceva la
sfortunatissima Clelia — non dovrei io fuggire a supplicare mio padre che
davvero mi chiudesse in qualche monastero lontano? Invece, per colmo di
miseria, tutta la mia condotta è guidata dal timore d'esser tolta di qui e
mandata in un monastero! Per questo son ridotta a dissimulare, a mentire
spudoratamente fingendo di accettare gli omaggi del marchese Crescenzi!»
Clelia era per natura
giudiziosissima. Da quando era nata non aveva da rimproverarsi un passo
inconsiderato. Ora invece tutto in lei e nel suo modo di comportarsi era quanto
di piú scervellato potesse immaginarsi. Di qui le sue angustie, e tanto piú
crudeli in quanto non si faceva illusioni di sorta; ella si attaccava a un uomo
perdutamente amato dalla piú bella donna della Corte; da una donna che per molti
rispetti le era di tanto superiore. E quest'uomo, quando anche fosse stato
libero, non era capace d'un affetto durevole, mentr'ella (lo sentiva bene) non
avrebbe avuto che un solo amore in tutta la vita.
Col cuore dunque turbato
da tremendi rimorsi, Clelia saliva ogni giorno all'uccelliera, trascinata su a
suo malgrado, e la sua inquietudine mutava d'oggetto, diventava meno
angosciosa, e per qualche momento i rimorsi tacevano, quando, col cuore in
sussulto, spiava gl'istanti in cui Fabrizio poteva aprir lo sportellino
praticato nella tramoggia. Spesso la presenza del carceriere Grillo nella sua
camera impediva al prigioniero di intrattenersi a cenni con l'amica sua.
Una sera, verso le undici,
Fabrizio udí rumori stranissimi: di notte, stendendosi sul davanzale della
finestra e mettendo il capo fuori dallo sportello, riusciva a distinguere i
rumori, se abbastanza forti, che si facevano sullo scalone detto «dei trecento
gradini»; questo, dalla prima corte, nell'interno della torre rotonda,
conduceva alla spianata su cui avevano edificato il palazzo del governatore e
la torre Farnese nella quale Fabrizio era chiuso.
Alla metà circa del suo
sviluppo questa scala passava dal lato meridionale al settentrionale di una
vasta corte: e quivi era un ponte di ferro leggero e strettissimo, vigilato
sempre da un custode, al quale si dava il cambio ogni sei ore e che era
costretto ad alzarsi e mettersi di fianco sporgendo il men che potesse del
proprio corpo, quando uno aveva da passare sul ponte: unica via d'accesso alla
torre Farnese e al palazzo del governatore. Bastava dare un paio di giri a un
certo ordigno del quale il general Conti teneva sempre seco la chiave, e il
ponte precipitava in fondo alla corte a una profondità di oltre cento piedi.
Presa questa semplice precauzione, siccome in tutta la cittadella non c'erano
altre scale, e ogni sera a mezzanotte un aiutante portava al governatore e
chiudeva in uno stanzino in cui non s'entrava che per la sua camera le corde di
tutti i pozzi, il generale rimaneva inaccessibile in casa sua, e sarebbe stato
affatto impossibile a chiunque giungere alla Torre Farnese. Fabrizio lo aveva
benissimo notato, il giorno in cui l'avevan tratto in fortezza, e Grillo, che
come tutti i carcerieri si compiaceva nel vantar la propria prigione, glielo
aveva poi spiegato piú volte: non c'era dunque per lui speranza di fuga!
Tuttavia egli rammentava una massima dell'abate Blanes: «L'amante pensa al modo
di vedere la propria amica assai piú che il marito a custodire la moglie: il
prigioniero pensa a fuggire assai piú che il carceriere a tener chiuse le
porte: dunque, quali che sieno gli ostacoli, l'amante e il prigioniero debbono
riuscire all'intento».
Quella sera, dunque,
Fabrizio udiva distintamente che un gran numero di persone passavano sul ponte
di ferro, detto «ponte dello schiavo», perché una volta uno schiavo dalmata era
riuscito a scappare gittando il custode del ponte giú nella corte.
«O vengono a portar via
qualcuno, o vengono a pigliarmi per menarmi alla forca: ma qualche disordine
può sempre nascere: bisogna profittarne.» Aveva prese le sue armi, tolto
qualche po' d'oro da' suoi ripostigli, quando a un tratto si fermò. «L'uomo è
un buffo animale, non c'é che dire! — esclamò. — Che direbbe uno che mi vedesse
far questi preparativi? Ma ho io forse voglia di scappare? E che sarebbe di me,
il giorno nel quale fossi tornato a Parma? Non farei io forse di tutto per
tornar qui vicino a Clelia? Se nasce un po' di disordine, profittiamone per
sdrucciolar nel palazzo del governatore: chi sa che non riesca a parlarle! e
forse, incoraggiato dal disordine, oserò di baciarle la mano. Il generale
Conti, diffidente e vanitoso, fa custodire il palazzo da cinque sentinelle; una
ad ogni angolo e una al portone: ma, se Dio vuole, la notte è scura.» Pian
piano scese ad accertar che facessero Grillo e il suo cane: il carceriere
dormiva profondamente sopra una pelle di bue appesa a quattro corde e
attorniata da una rete grossolana. Fox aprí gli occhi, si levò e andò verso
Fabrizio per fargli festa.
Il prigioniero risalí,
sempre pian piano, i sei gradini e rientrò nel suo casotto: a pie della torre,
proprio innanzi al portone, il rumore si udiva fortissimo ed ei pensò che
Grillo si desterebbe. Munito delle proprie armi e pronto ad agire, Fabrizio
s'aspettava quella sera qualche grande avventura, quando sentí levarsi una
bellissima sinfonia: certo era una serenata al generale o alla figliuola. Dette
in uno scoppio di risa: «E io che pensavo di tirar sciabolate!» La musica era
eccellente, e parve deliziosa a Fabrizio che da molte settimane non aveva di
tali distrazioni; e gli fece versar dolci lagrime. In una specie di rapimento
faceva alla bella Clelia i discorsi piú irresistibili. Ma il giorno dopo,
quando a mezzogiorno la vide, essa era nell'aspetto cupamente malinconica e
pallida; volse a lui occhiate esprimenti cosí chiaramente la collera, che non
osò nulla domandarle della serenata. Temé di apparir malcreato.
Clelia aveva ragione
d'esser triste. La serenata le era fatta dal marchese Crescenzi; e una
manifestazione cosí pubblica, equivaleva in certo modo all'annunzio ufficiale
del fidanzamento. Fino a quel giorno, e anzi fino alle nove di quella sera,
Clelia aveva resistito con grande fermezza; ma, all'ultimo, aveva ceduto di
fronte alla minaccia ripetutale da suo padre di mandarla immediatamente in un
monastero.
«Non lo vedrò dunque piú?
— si era detta piangendo. E invano la sua ragione aveva soggiunto: — Amante
della duchessa! non vedrò piú questo uomo volubile che ha avuto a Napoli dieci
amanti e le ha tutte tradite! Non vedrò piú questo giovine che, ove sopravviva
alla sentenza che gli pende sul capo, prenderà gli ordini sacri! Il guardarlo
soltanto, quando sarà fuori di questa cittadella, sarebbe un delitto per me: ma
la sua congenita incostanza me ne toglierà la tentazione. Che sono, infatti, io
per lui? Uno spediente per passar meno tediose alcune ore delle sue giornate
qui dentro.» Ma, fra queste ingiurie, Clelia si ricordò a un tratto del sorriso
con cui Fabrizio aveva guardato i gendarmi, che gli stavano attorno nell'uscir
dall'ufficio di matricola per montare alla torre Farnese: e gli occhi a un
tratto le si inondaron di lagrime. «Ah, caro! che non farei io per te! Tu sarai
la mia rovina, lo so: questo è il mio destino! Mi rovino io stessa in modo
orribile, assistendo stasera a questa odiosa serenata che mi repugna: ma domani
a mezzogiorno i tuoi occhi li rivedrò!»
E per l'appunto il giorno
seguente a quello in cui ella aveva fatto cosí grande sacrificio al prigioniero
amato con tanto calda passione, per l'appunto nel giorno seguente a quello in
cui, pur conoscendo tutti i suoi difetti, ella gli aveva sacrificato la propria
vita, Fabrizio fu disperato della sua freddezza. Se, pur non adoperando che
quel povero linguaggio di segni, egli avesse osato far la menoma violenza a
quell'anima, è probabile che Clelia non avrebbe potuto frenar le lagrime, ed
egli le avrebbe strappato la confessione del sentimento ch'essa nutriva per
lui: ma non ne ebbe il coraggio; troppo temeva d'offenderla, potendo essa
punirlo con pena troppo severa. In altre parole, Fabrizio non aveva la piú
piccola esperienza del genere di commozioni che può dare una donna veramente
amata; era questa una sensazione ch'egli non aveva provato mai. E gli ci
vollero otto giorni, dopo quella serenata, per tornar con Clelia nei termini
consueti di buona amicizia. La povera fanciulla si armava di severità per paura
di tradirsi, e a Fabrizio sembrava di perdere ogni giorno terreno.
Un giorno, — e Fabrizio era
in carcere da tre mesi all'incirca senza la menoma comunicazione con l'esterno,
e tuttavia senza sentirsi infelice — Grillo si trattenne fino a tardi nella sua
stanza; non sapendo come mandarlo via, il prigioniero era disperato;
finalmente, a mezzogiorno e mezzo passato, gli fu possibile togliere i due
minuscoli sportelli praticati nella fatale tramoggia.
Clelia era alla finestra
della voliera, con gli occhi fissi su quella di Fabrizio: il suo viso contratto
esprimeva una disperazione violenta. Non appena lo vide, gli fe' segno che
tutto era perduto: si precipitò al piano, e fingendo di cantare un recitativo
dell'opera in voga, gli disse con frasi ininterrotte dall'angoscia e dalla
paura che le sentinelle intendessero:
— Dio sia ringraziato!
Siete ancora vivo! Barbone, il carceriere di cui puniste l'insolenza il giorno
del vostro incarceramento, era scomparso; ieri l'altro sera è tornato, e da
ieri in poi ho ragion di credere che cerchi d'avvelenarvi. Viene a girar per la
cucina, dove si preparan le vostre vivande. Niente di sicuro, ma la mia
cameriera crede che egli non entri nelle cucine del palazzo se non per questo
scopo. Io morivo di disperazione, non vedendovi: vi credevo morto. Astenetevi
da ogni cibo, fino a nuovo avviso: farò l'impossibile per farvi avere un po' di
cioccolata. Per ogni caso stasera alle nove, se la bontà divina permette che
abbiate un filo, o che possiate farvi un nastro con la vostra biancheria,
calatelo dalla finestra sopra gli aranci: io vi attaccherò una cordicella e
voi ritirandola avrete pane e cioccolata.
Fabrizio aveva conservato
come un tesoro il pezzetto di carbone trovato nella stufa; e profittando della
commozione di Clelia, scrisse sulla sua mano via via una serie di lettere la
cui apparizione successiva formava queste parole:
«Vi amo: la vita m'é cara
solo perché vi vedo. Mandatemi della carta e un lapis.»
Com'egli aveva sperato, il
terrore che le leggeva negli occhi impedí a Clelia d'interrompere la
conversazione dopo le ardite parole «vi amo»: si contentò di mostrarsi adirata.
Fabrizio ebbe l'accorgimento di aggiungere: «Col gran vento che tira oggi io
non sento bene gli avvertimenti che mi date; cantando, il suono del pianoforte
copre la voce. Cos'é, per esempio, il veleno di cui mi parlate?»
A questa parola il terrore
tornò a stringerle il cuore e riapparve sul volto della fanciulla, che si mise
a tracciare in fretta con l'inchiostro grosse lettere sulle pagine d'un libro
che andava lacerando via via. Fabrizio non stava piú in sé per la gioia:
finalmente, dopo tre mesi, si adottava il sistema di corrispondenza ch'egli
aveva sino allora inutilmente sollecitato. E continuò col piccolo stratagemma
che aveva avuto cosí buon esito. Voleva scriver vere e proprie lettere e ogni
tanto fingeva di non coglier bene le parole delle quali Clelia gli esponeva via
via tutte le lettere.
A un tratto ella dové
lasciar la voliera, per correre da suo padre: tremava all'idea ch'egli potesse
una volta o l'altra salire a cercarla: sospettoso com'era, quella vicinanza
della finestra della voliera con la tramoggia che nascondeva quella del
prigioniero non gli sarebbe certo andata a genio. Clelia stessa, qualche minuto
innanzi, quando a non veder comparir Fabrizio era in angustie mortali, aveva
pensato che si sarebbe potuto gittare un sassolino avvolto in un foglio, al
disopra della tramoggia: se in quel momento il carceriere che vigilava Fabrizio
fosse stato fuori della stanza, il mezzo di corrispondere era bell'e trovato.
Il prigioniero si affrettò
a fare con della biancheria una specie di nastro; e la sera, poco dopo le nove,
udí chiaramente battere colpi leggeri sui cassoni degli aranci sotto la sua
finestra; calò il suo nastro e tirò a sé una cordicella assai lunga, e con
quella dapprima una provvista di cioccolata, e poi, con suo inesprimibile
compiacimento, un rotolo di carta e un lapis. Inutilmente calò ancora la
cordicella: non ebbe altro. Forse le sentinelle s'erano avvicinate agli aranci.
Ma egli era fuor di sé dalla gioia. Scrisse subito una lettera lunghissima a
Clelia, e appena terminatala con la cordicella la calò giú. Piú di tre ore
attese invano che la venissero a prendere; e piú volte la ritrasse per farvi
correzioni e mutamenti. «S'ella non vede la lettera questa sera, finché è
sossopra per queste chiacchiere del veleno, di certo domani non la vorrà piú
ricevere.»
Ma la verità era che
Clelia non aveva potuto esimersi dallo scendere in città con suo padre:
Fabrizio quasi lo indovinò, quando circa mezz'ora dopo la mezzanotte sentí
tornar la carrozza del generale: distingueva il passo di quei cavalli. Quale
non fu la sua gioia quando, qualche minuto dopo avere udito il passo del
generale traversar la spianata e le sentinelle presentargli le armi, sentí
scuoter la funicella che egli aveva sempre tenuta attorta al suo braccio. Ci
avevan attaccato un gran peso: due leggere scosse lo avvertirono di ritirarla.
Ebbe un gran da fare perché il peso che egli traeva a sé superasse un
cornicione assai sporgente ch'era sotto la finestra.
L'oggetto che gli era
costato tanto sforzo era una fiasca d'acqua avvolta in uno scialle. Con che
delizia il giovine, recluso da tanto tempo in una cosí completa solitudine,
coprí lo scialle di baci! Ma bisogna riunziare a dipingere la commozione che lo
prese nello scoprire — finalmente, dopo tanti giorni di vane speranze! — un
foglietto appuntato allo scialle con uno spillo.
«Non bevete che
quest'acqua, vivete solo di cioccolata. Domani farò di tutto per farvi avere
del pane: lo contrassegnerò però da ogni parte con piccole croci fatte con
l'inchiostro. È orribile a dirlo, ma bisogna pur lo sappiate che forse Barbone
è incaricato d'avvelenarvi. Come non avete pensato che la vostra lettera tratta
un argomento che non può non dispiacermi? Io non vi avrei neppure scritto se
non era il pericolo estremo che vi minaccia. Ho visto la duchessa: sta bene, e
cosí il conte; ma ella è assai smagrita. Non mi scrivete piú mai su
quell'argomento. Vorreste farmi inquietare?»
Per scrivere queste ultime
righe Clelia dové chiedere un grande sforzo alla propria virtú.
Fra la gente della Corte
si asseverava che la Sanseverina andava stringendosi con vincoli molto
amichevoli al conte Baldi, cosí bell'uomo, antico amante della marchesa
Raversi. Il solo fatto accertato era ch'egli aveva rotto in modo scandaloso con
questa signora che per sei anni gli aveva fatto da madre e lo aveva introdotto
nella società.
Clelia era stata costretta
a rifar quelle righe buttate giú in fretta, perché nella prima forma qualcosa
traspariva circa i nuovi amori che la malignità pubblica attribuiva alla
Sanseverina.
«Che bassezza la mia! —
aveva esclamato — dir male a Fabrizio della donna ch'egli ama!»
La mattina di poi, assai
prima di giorno, Grillo entrò nella stanza di Fabrizio, vi depose un pacco
pesante e uscí senza dir parola. Il pacco conteneva una grossa pagnotta, ornata
da ogni parte di piccole croci segnate a penna: Fabrizio la coprí di baci: era
innamorato. Accanto al pane era un rotolo, avvolto in parecchi fogli
addoppiati; conteneva seimila lire in zecchini e inoltre un piccolo breviario
nuovo. Una mano ch'egli cominciava a conoscere v'aveva scritto in un margine:
«Veleno! Badate all'acqua,
al vino, e a tutto. Vivere di cioccolata; cercar di far mangiare al cane i
pasti che bisogna non assaggiare. Non mostrarsi diffidente: il nemico
troverebbe un altro mezzo. Non storditaggini, per amor di Dio! non leggerezze.»
Fabrizio si affrettò a
strappare quel margine: la calligrafia ch'egli adorava poteva compromettere
Clelia; strappò inoltre molte pagine del breviario e ne fece parecchi alfabeti.
Ogni lettera vi era nettamente tracciata, mediante una miscela di carbone
triturato e diluito nel vino; questi alfabeti erano già asciutti, quando
all'undici e tre quarti Clelia apparve tenendosi due passi distante dalla
finestra della voliera. «Ora, — pensava Fabrizio — tutto sta ch'ella consenta a
lasciarmeli adoperare.» Fortunatamente avvenne ch'ella aveva assai cose da
raccontare sul tentativo d'avvelenamento: un cane delle sguattere era morto per
aver mangiato una porzione destinata a lui. Ben lungi dal fare obiezioni circa
l'uso degli alfabeti, Clelia ne aveva lei stessa preparato uno magnifico con
l'inchiostro: e la conversazione, fatta con questo mezzo, incomodò da
principio, ma durò non meno di un'ora e mezzo: cioé tutto il tempo che Clelia
poté restar nella voliera. Due o tre volte, quando Fabrizio si fece lecito
alcun che di vietato, ella non rispose e se ne andò a governar gli uccellini.
Fabrizio era riuscito a
ottenere che la sera con la nuova provvista d'acqua ella gli avrebbe anche
fatto avere uno degli alfabeti tracciati da lei con l'inchiostro, che certo
sarebbe stato meglio leggibile; e scrisse una lettera lunghissima, nella quale
badò bene di non lasciarsi andare ad espressioni troppo tenere che l'avrebbero
potuta offendere: e la lettera fu bene accolta.
Infatti il giorno di poi,
nella consueta conversazione, ella non gli mosse rimproveri: gli disse che il
pericolo del veleno pareva allontanato. Il Barbone era stato aggredito e poco
men che ammazzato da giovinetti che facevano la corte alle sguattere; e secondo
ogni probabilità, nelle cucine non si farebbe piú rivedere. Confessò che per
lui aveva osato rubar de' contravveleni a suo padre, e glieli manderebbe; ma
pel momento l'essenziale era di non prender cibo alcuno che avesse insolito
odore o sapore.
A don Cesare, Clelia aveva
fatto di gran domande, ma senza poter sapere da che parte venissero le seimila
lire; erano a ogni modo un buon segno: provavano che il rigore diminuiva.
Questo episodio del veleno
aveva fatto fare al prigioniero molto progresso: per quanto non avesse mai
potuto ottenere nemmeno una parola che avesse significato d'amore, pur tuttavia
gli aveva procurato la gioia di vivere con Clelia in una dolce intimità. Ogni
mattina, e spesso nel pomeriggio, c'eran lunghi conversari con gli alfabeti; ogni
sera alle nove Clelia accettava una lunga lettera e qualche volta anche
brevissimamente vi rispondeva: gli mandava il giornale e dei libri; infine
Grillo era stato addomesticato al punto da portare ogni giorno a Fabrizio pane
e vino che gli eran consegnati dalla cameriera di Clelia. Il carceriere
deduceva da ciò che il governatore non era d'accordo con quelli che avevan dato
al Barbone l'incarico d'avvelenare il giovine monsignore; e se ne sentiva
soddisfattissimo, non meno che i suoi camerati; dacché ormai nella prigione
correva questa sentenza: basta guardare in faccia monsignor Del Dongo, perché
vi dia de' denari!
Fabrizio era divenuto
pallidissimo: l'assoluta mancanza d'esercizio gli nuoceva; a parte ciò, non era
mai stato cosí contento. Il tono della conversazione tra Clelia e lui era
intimo; qualche volta assai gaio; e i soli momenti in cui la fanciulla non
fosse oppressa da previsioni funeree e da rimorsi eran quelli che passava con
lui. Un giorno ebbe l'imprudenza di dirgli:
— Ammiro la vostra delicatezza:
poiché io son figlia del governatore, voi non mi accennate mai neppure il
desiderio di recuperar la vostra libertà!
— Gli è che io non ho un
cosí stolto desiderio — rispose Fabrizio. — Tornato a Parma, come potrei
rivedervi? E come potrei vivere se non potessi dirvi tutto ciò che penso?...
tutto precisamente no, perché voi siete lí sempre pronta a impedirmelo; ma
insomma, non ostante questa vostra cattiveria, vivere senza vedervi tutti i
giorni sarebbe per me un supplizio assai piú duro della prigionia. Io non sono
stato mai felice cosi!... E non vi pare curioso che la felicità sia venuta ad
aspettarmi in prigione?
— Su questo c'é molto da
ridire — rispose Clelia con un'aria diventata a un tratto grave e quasi
sinistra.
— Come? — chiese Fabrizio,
posto in grande apprensione da quelle parole — corro forse il rischio di
perdere il piccolissimo posto che son riuscito a prender nel vostro cuore, e
che fa la mia unica gioia?
— Sí: — rispose Clelia —
ho ragione di credere che voi mancate di probità a mio riguardo, non ostante la
vostra reputazione di perfetto galantuomo: ma di questo non voglio trattare
ora.
Questi preliminari
nocquero alla conversazione: fecero titubanti gli interlocutori che spesso
ebbero ambedue gli occhi in lagrime.
Il fiscale Rassi intanto
agognava sempre piú ardentemente di cambiar nome. Era stanco di quello che
s'era fatto; e voleva diventar barone Riva. Dal canto suo, il conte Mosca usava
di tutta la sua abilità ad acuir nel giudice vendereccio la frenesia baronale,
al modo istesso con cui si adoperava a solleticar nel sovrano la folle speranza
di diventar costituzionale della Lombardia. Eran questi i soli mezzi in poter
suo per ritardar la morte di Fabrizio.
Il principe diceva al
Rassi:
— Quindici giorni di
disperazione e quindici di speranze: con questo sistema seguito pazientemente
la spunteremo con quella superba! Alternando durezze e dolcezze si domano i
cavalli piú fieri. Applicate il caustico fermamente.
Infatti ogni quindici
giorni tornavano a circolare per Parma le voci della imminente morte di
Fabrizio, che piombavano la disgraziata duchessa nel piú doloroso abbattimento.
Fida al proposito di non trascinare il conte nella sua rovina, non lo vedeva
che due volte al mese; ma della crudeltà con cui trattava quel povero uomo era
punita assai duramente dalle alternative continue di cupa disperazione fra le
quali traeva la vita. Invano il conte Mosca, dominando la violenta gelosia che
gl'ispiravano le assiduità del conte Baldi, cosí bell'uomo, le scriveva quando
non poteva vederla, per darle tutte le informazioni che gli procurava lo zelo
del futuro barone Riva; per resistere agli strazi che quelle voci terribili le
cagionavano, le sarebbe stato necessario vivere con un uomo d'intelletto e di
cuore come il conte Mosca: la nullità di quel Baldi la lasciava tutta a' suoi
pensieri, in una vita infelicissima, e il conte Mosca non poteva giungere a
comunicarle le ragioni ch'egli aveva a bene sperare.
Con pretesti ingegnosi il
ministro aveva saputo indurre il principe a far depositare in un castello
amico, nel centro proprio della Lombardia, presso Saronno, gli archivi dei
complicati intrighi, mercé i quali Ranuccio Ernesto IV coltivava l'arcipazza
speranza di farsi re costituzionale di quel bel paese.
Piú di venti documenti
compromettentissimi eran di mano del principe o sottoscritti da lui: nel caso
che la vita di Fabrizio fosse seriamente in pericolo, il conte aveva deciso di
annunziare a Sua Altezza ch'egli medesimo avrebbe consegnato quelle carte a una
grande potenza che poteva annientarlo con una sola parola.
Del futuro barone Riva il
conte Mosca si teneva sicuro, e non temeva piú che il veleno: il tentativo di
Barbone lo aveva atterrito al punto da deciderlo a un passo apparentemente
insensato. Una mattina passò dalla porta della cittadella, e fece chiamare il
general Fabio Conti che scese sul bastione al disopra della porta stessa: lí,
passeggiando amichevolmente con lui, dopo un preambolo agrodolce, non esitò a
concludere:
— Se Fabrizio muore in
qualche maniera sospetta, certa gente sarebbe capace d'attribuire quella morte
a me: passerei per geloso e farei la piú ridicola figura che si possa
immaginare. Ora io sono risoluto a evitar tutto ciò a qualunque costo. E però
ve ne avverto: se Fabrizio muore di malattia, io vi ammazzerò con le mie mani.
Contateci pure. — Il generale fece una risposta magnifica, parlò del suo
coraggio, ma lo sguardo del conte gli rimase impresso nella memoria.
Pochi giorni dopo, e come
se si fosse in ciò accordato col Mosca, il Rassi si lasciò andare a
un'imprudenza singolare in un uomo come lui. Il pubblico dispregio che aveva
reso proverbiale il suo nome fra la canaglia lo faceva molto soffrire, ora che
gli era lecito sperar di sfuggirgli. Mandò dunque al generale Conti copia
autentica della sentenza che condannava Fabrizio Del Dongo a dodici anni di
fortezza. Secondo la legge ciò si sarebbe dovuto fare il giorno seguente
all'entrata di Fabrizio in prigione. Ma quel che era inaudito a Parma, paese di
provvedimenti segreti, è che la giustizia osasse un tale passo senza l'ordine
espresso del sovrano. Infatti, come potrebbesi inasprire ogni quindici giorni
il terrore della duchessa, e domarne la superbia, come diceva il principe,
quando la copia della sentenza era uscita dalle mani del potere giudiziario? La
vigilia del giorno in cui ricevé la comunicazione ufficiale dal Rassi, Fabio
Conti aveva saputo che il Barbone, rientrando di notte in cittadella, era stato
mezzo accoppato; e ne trasse la conclusione che ormai «in alto luogo» non si
pensava piú a disfarsi di Fabrizio; e con un senso di prudenza che salvò il
Rassi dalle conseguenze immediate della sua trovata, non fe' parola, nella
prima udienza del principe, della copia ufficiale trasmessagli. Il conte Mosca,
per tranquillità della povera duchessa, fortunatamente aveva scoperto che il
tentativo del Barbone non era stato altro che una velleità di vendetta
personale, e gli aveva fatto dar l'ammonimento che sappiamo.
Fabrizio ebbe un'assai
grata sorpresa, quando, dopo centotrentacinque giorni di reclusione in un
gabbiotto, venne un giovedí don Cesare, il buon elemosiniere, a pigliarlo per
far due passi sulla spianata: ma non c'era da dieci minuti che, sotto
l'impressione dell'aria aperta, svenne.
Questo incidente serví a
don Cesare per accordargli una mezz'ora di passeggiata ogni giorno. E fu un
errore: l'aria e il moto resero presto al nostro eroe le forze, delle quali
abusò.
Ci furon molte serenate:
l'austero governatore non le tollerava, se non perché in certo modo impegnavano
col marchese Crescenzi quella figliuola, il cui carattere lo sgomentava:
sentiva vagamente che tra lui e Clelia non c'era alcuna affinità morale e stava
in continuo timore di storditaggini da parte sua. Se fuggiva e andava in un
convento, lui rimaneva disonorato. Ma anche quella musica gli era poco gradita:
temeva che quei suoni che giungevano nelle segrete piú profonde, serbate ai
liberali piú rei, non contenessero qualche segnalazione. Anche i musicanti gli
davan sospetto; cosicché, finita la serenata, li faceva chiudere a chiave nella
gran sala a terreno del palazzo del governatore che il giorno serviva d'ufficio
al suo stato maggiore, e non ne apriva la porta che la mattina dopo a giorno
fatto. Egli stesso, sul «ponte dello schiavo», li faceva perquisire in sua
presenza e non li rimetteva in libertà se non dopo aver piú volte ripetuto che
avrebbe fatto impiccare immediatamente quel qualunque di loro avesse l'audacia
di tentar la menoma comunicazione coi prigionieri. Ed ora si sapeva che, nella
sua paura di cadere in disgrazia, era uomo da mantener quelle promesse; di
guisa che il marchese Crescenzi doveva pagar tre volte tanto i musicanti
seccatissimi di quella notte da passar in prigione.
Tutto quel che la duchessa
poté a stento ottenere dalla pusillanimità d'uno di quegli uomini fu ch'egli si
incaricherebbe di portare una lettera da consegnarsi al governatore.
La lettera era indirizzata
a Fabrizio: e vi si deplorava la fatalità, per cui durante i cinque mesi della
sua prigionia gli amici non avevan potuto trovare alcun mezzo di porsi in
corrispondenza con lui.
Nell'entrare in
cittadella, il musicante si gittò in ginocchio innanzi al generale, e gli
confessò che un prete da lui non conosciuto aveva insistito tanto perch'egli
volesse portare una lettera a monsignor Del Dongo, e che a lui non era bastato
l'animo di opporre un rifiuto: ma fedele al suo dovere, s'affrettava a
consegnar la lettera a Sua Eccellenza.
La quale Eccellenza fu
lusingatissima: gli erano note le risorse della duchessa, e aveva una famosa
paura d'esser canzonato. Cosí tutto soddisfatto andò a portar la lettera al
principe, che a sua volta fu grandemente soddisfatto anche lui.
— Ah! dunque la fermezza
del mio governo è giunta a fare le mie vendette! Questa donna altezzosa soffre
da cinque mesi! Uno di questi giorni faremo montare una forca, e la sua
pazzesca immaginazione correrà rapidamente a crederla destinata al suo piccolo
Del Dongo!
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