XX
Una
notte, verso l'una, Fabrizio, steso sul davanzale della finestra col capo fuor
del pertugio praticato nella tramoggia, contemplava le stelle e l'immenso
orizzonte che si scopre dall’alto della torre Farnese, quando, a caso, gli
sguardi che vagavano sull'ampia distesa della campagna verso il basso Po e
Ferrara, furon colpiti da una luce piccola ma viva che pareva brillare sopra
una torre. «Dal piano — pensò — quella luce non possono scorgerla: la grossezza
della torre dovrebbe nasconderla: forse è un segnale per qualche punto
lontano.» A un tratto notò che quella luce appariva e spariva a intervalli
regolari e frequenti. «Dev'essere qualche ragazza che parla all'innamorato che
sta nei dintorni», e contò nove apparizioni successive del punto luminoso.
«Questo è un i; — disse — l'i
infatti è la nona lettera dell'alfabeto.» Dopo una pausa, le apparizioni
successive furono quattordici: un n; poi altra pausa e una sola
apparizione: era un'a.
Si può immaginare la sua
gioia e il suo stupore quando in seguito alle successive apparizioni, compose
la frase: «ina pensa a te».
Evidentemente
Gina!
Rispose subito con lo
stesso linguaggio, facendo passar la lampada davanti all'apertura da lui
praticata.
«Fabrizio ti ama.»
E la corrispondenza durò
fino allo spuntar del giorno: era quella la centosettantesima terza notte di
prigionia; e seppe che quelle segnalazioni si facevano regolarmente da quattro
mesi ogni notte. Se non che parve possibile che altri le vedesse e
comprendesse; e però sin da quella prima notte s'accordarono su forme
abbreviate: cosí tre apparizioni del lume che si succedevan rapidamente
indicavano la duchessa, quattro il principe, due il conte Mosca; due rapide
seguite da due lente volevan dire evasione. Poi si stabilí d'adottare per
l'avvenire l'alfabeto detto alla
monaca che consiste nel cambiare il numero alle lettere: A per
esempio ha il numero 10, B il 3 ecc.; vale a dire che tre eclissi
successive del lume significavano B, dieci A, ecc.; un momento di oscurità
serve a separar le parole. Fissarono un colloquio per la notte seguente,
all'una; la duchessa andò alla torre, ch'era a un quarto di lega dalla città, e
le si empiron gli occhi di lagrime al veder le segnalazioni fatte da quel
Fabrizio che tante volte aveva creduto morto. Ella stessa gli volle dire: «T'amo;
coraggio, spera; esercitati nella tua stanza, avrai bisogno di tutta la forza
delle tue braccia».
Pensava: «Non l'ho visto
piú dal concerto della Fausta, quando m'arrivò in sala vestito da cacciatore!
Chi m'avesse detto allora la sorte che ci aspettava!»
Gli fece fare altri
segnali a significargli che presto sarebbe libero «grazie alla bontà del sovrano» (questi segni si
sarebbero potuti capire), e tornò poi a dirgli parole affettuosissime: non
sapeva staccarsene; e solo le rimostranze di Lodovico, che, per aver servito
fedelmente Fabrizio, era diventato il suo confidente, poterono persuaderla sul
far del mattino a lasciar andare quelle segnalazioni che qualche tristo curioso
avrebbe potuto notare.
L'annunzio ripetuto di una
prossima liberazione fu per Fabrizio motivo di profonda tristezza. Clelia se ne
accorse il giorno dopo e commise l'imprudenza di domandargliene la cagione.
— Sto per dare un grave
dispiacere alla duchessa.
—
E che cosa può ella chiedervi che voi le neghiate? — domandò Clelia con la piú
viva curiosità.
— Vuole ch'io esca di qui;
ed io non vi consentirò mai.
Clelia non poté
rispondere: lo guardò e ruppe in pianto. S'egli avesse potuto parlarle da
vicino, avrebbe allora avuta la confessione dei sentimenti la cui incertezza
gli era cosí spesso ragione di sconforto: sentiva che la vita senza l'amore di
Clelia sarebbe stata per lui una sequela di amari affanni e di noie
intollerabili. Gli pareva che non mettesse piú conto di vivere per ritrovare i
piaceri che tanto lo attraevano prima che conoscesse l'amore, e sebbene il
suicidio non sia ancora di moda in Italia, egli ci aveva pensato, come a una
risorsa, se il destino dovesse separarlo da Clelia.
Il giorno dopo ricevé da
lei una lunghissima lettera.
«Amico mio, è necessario
che sappiate tutta la verità: molte volte dacché siete qui dentro è corsa in
Parma la voce che l'ultima ora vostra era sonata. Vero è che non siete
condannato che a dodici anni di fortezza; ma è anche da non dubitare che un
odio onnipotente vi perseguita. Venti volte ho temuto che non ci fosse modo di
salvarvi dal veleno: è necessario che accogliate dunque ogni mezzo che vi si
offra per uscire di qui. Vedete che per voi manco ai miei doveri piú sacri: ma
della imminenza del pericolo potete giudicar dalle cose che mi arrischio a
dirvi, e che stanno cosí poco bene in bocca mia. Se è necessario, se non c'é
altra via di salvezza, fuggite. Ogni momento di piú che voi passate qui dentro
espone la vostra vita ai rischi maggiori: pensate che c'é alla Corte un partito
che non s'é mai arrestato ne' suoi propositi davanti a un delitto. Tutti i suoi
tentativi furono finora sventati dall'abilità del conte Mosca. Ora han trovato
un mezzo sicuro d'esiliarlo da Parma: la disperazione della duchessa; e questa
disperazione non sono essi sicuri di ottenerla con la morte di un giovine
prigioniero? Da ciò giudicate quale sia la vostra condizione! Dite d'aver
dell'amicizia per me: considerate prima di tutto quali insormontabili ostacoli
impediscono a questo sentimento di prender salda radice fra noi. Ci saremo
incontrati nella nostra prima giovinezza; ci saremo dati una mano soccorrevole
in giorni sciaguratissimi; il destino mi avrà posto in questo luogo di severità
per fare men dure le vostre pene; ma mi tormenterebbe senza tregua un rimorso,
se illusioni che nulla potrà mai giustificare vi inducessero a non cogliere qualunque
occasione di sottrarre la vostra vita a cosí tremendi pericoli.
«Io ho perduta la pace del
cuore per la crudele imprudenza commessa contraccambiandovi qualche segno di
cordiale amicizia: ma se il gioco fanciullesco degli alfabeti suscitasse in voi
illusioni senza fondamento e che potrebbero esservi funeste, nulla varrebbe mai
a scusarmi, neppure il tentativo del Barbone. Perché proprio io, con l'idea di
salvarvi da un rischio momentaneo, vi avrei posto tra pericoli piú sicuri e piú
orribili, e le mie imprudenze diventano imperdonabili se han fatto nascere
sentimenti che vi spingano a resistere ai consigli della duchessa. Vedete ciò
che mi costringete a ripetervi: fuggite, ve lo impongo....»
La lettera era assai
lunga: certi passi, come il «ve lo impongo» che abbiamo riferito, diedero
all'amore di Fabrizio momenti di deliziosa speranza. Gli pareva che, pure tra
espressioni assai riservate, il fondo di una gran tenerezza vi si scorgesse: ma
la sua inesperienza in questo genere di battaglie lo traeva in altri momenti a
non vedere in quella lettera piú che una espressione di semplice amicizia o di
umanità.
Del resto tutto quanto
v'era detto non lo fece mutar di proposito: anche ammesso che i pericoli di cui
ella gli parlava fossero reali, non metteva dunque conto di comperare con
qualche rischio la gioia di vederla tutti i giorni? Che vita sarebbe stata la
sua quando si fosse ancora rifugiato a Bologna o a Firenze? Poiché, scappando
dalla cittadella, non poteva certo sperar che gli permettessero di vivere a Parma.
E, quand'anche il principe si mutasse a tal segno da concedergli la libertà
(cosa ben lungi dal parere probabile, perché in lui, Fabrizio, un partito
potente vedeva lo strumento per abbattere il conte Mosca), come vivrebbe a
Parma, ove da Clelia lo separava l'odio implacabile fra i due partiti? Una
volta al mese, due forse, il caso li condurrebbe nello stesso salotto: ma
quando ciò pure accadesse, che specie di colloqui avrebbe potuto tenere con
lei? E come ritrovare quella cara intimità di cui per ore e ore godeva adesso
ogni giorno? Che sarebbero state quelle conversazioni di salotto in confronto a
quelle che facevano lí coi loro alfabeti? «Se questa vita di delizie e questa
probabilità unica forse di felicità mi dovesse costar qualche pericolo, che
male sarebbe? Avrei pur sempre la gioia di poterle dar cosí una prova del mio
amore!»
La lettera di Clelia gli
parve un'occasione ottima per chiederle un appuntamento: oggetto costante e
unico de' suoi desideri. Non aveva potuto parlarle che un momento, entrando in
fortezza, e da quel momento eran corsi oramai piú di ducento giorni.
Il modo d'incontrarsi con
Clelia si presentava facile: l'ottimo don Cesare accordava a Fabrizio una
mezz'ora di passeggiata sulla terrazza della torre Farnese tutti i giovedí nelle
prime ore del pomeriggio: ma gli altri giorni della settimana, questa
passeggiata, che tutti da Parma e dai dintorni avrebbero facilmente potuto
notare, con grave compromissione del governatore, aveva luogo di sera. Per
salire sulla terrazza della torre Farnese, non c'era altra scala che quella del
piccolo campanile comunicante con la lugubre cappella, rivestita di marmi
bianchi e neri, e della quale forse il lettore si rammenta. Grillo accompagnava
Fabrizio fino alla cappella, e gli apriva la scaletta del campanile: dover suo
sarebbe stato di seguirlo; ma poiché le serate cominciavano a esser frizzanti,
lo lasciava salir solo, chiudeva a chiave il campanile e tornava a scaldarsi in
camera sua. Perché dunque, una sera, Clelia non avrebbe potuto farsi accompagnar
da una cameriera fino alla cappella?
Tutta la lunga lettera con
cui rispose a quella di Clelia mirava ad ottener questo appuntamento: e quanto
al resto, con assoluta sincerità e come si fosse trattato d'altri, le confidava
le ragioni che lo decidevano a non muoversi dalla cittadella.
«Io m'espongo ogni giorno
a mille morti per aver la gioia di parlarvi con l'aiuto de' nostri alfabeti che
ora ci servono speditamente, e voi volete ch'io faccia la sciocchezza
d'esiliarmi a Parma o forse a Bologna o a Firenze? Vorreste ch'io camminassi
per allontanarmi da voi? Impossibile: ve lo prometterei inutilmente, perché non
potrei mantener la promessa.»
Risultato di questa
domanda di appuntamento fu che Clelia non si fece veder per cinque giorni
durante i quali ella non andò all'uccelliera se non nei momenti in cui sapeva
che Fabrizio non avrebbe potuto valersi dell'apertura fatta nella tramoggia.
Egli ne fu desolato; e concluse che, non ostante certi sguardi che gli avevan
fatto concepire pazze speranze, mai era riuscito a inspirare a Clelia nulla piú
che una buona amicizia. «E allora, — si domandò — che m'importa della vita? Se
il principe me la toglie, sia il benvenuto! Ragione di piú per non muovermi di
qui.» Rispondere la notte ai segnali della torre lontana, gli era fastidio: e
la duchessa lo credé addirittura impazzito, quando nelle trascrizioni dei
segnali che Lodovico le portava ogni mattina, lesse queste strane parole: «Io
non voglio fuggire, voglio morir qui».
In questi cinque giorni
cosí amari a Fabrizio, Clelia era piú addolorata di lui. Le stava in mente
questa idea cosí opprimente per un animo generoso: «Il dover mio è di
rifugiarmi in un convento lontano: quand'egli saprà ch'io non sono piú qui, e
glielo farò sapere dai carcerieri, si deciderà a tentare la fuga. Ma andare in
convento vuoi dire rinunziar per sempre a rivederlo! Rinunziare ora, quando mi
dà chiara prova che l'affetto che ha potuto un tempo sentire per la duchessa
non esiste piú! Dopo sette mesi di prigione che han rovinato la sua salute,
egli rifiuta la libertà! Che altra piú commovente testimonianza si potrebbe
chiedergli? Un uomo leggero, quale i cortigiani lo hanno dipinto, avrebbe
sacrificato venti amanti per fuggire un giorno prima! E che non avrebbe fatto,
per uscire da una prigione dove ogni giorno si corre il rischio di essere
avvelenati?»
Clelia mancò di coraggio,
e commise il grande errore di non cercare in un convento un rifugio: ciò che le
avrebbe dato anche modo di romper senz'altro col marchese Crescenzi. Ormai,
commesso lo sbaglio, come resistere a quel giovine cosí simpatico e innamorato
al punto da esporsi a pericoli orribili per il solo piacere di vederla da una
finestra all'altra?
Dopo cinque giorni
d'intime lotte, a quando a quando inasprite da un senso di disprezzo di sé
medesima, Clelia si decise a rispondere. Per verità, essa rifiutò
l'appuntamento, e in forma assai dura, ma da quel punto la pace fu perduta per
lei: ogni momento l'accesa fantasia le dipingeva Fabrizio moribondo per il
veleno propinatogli e sette o otto volte al giorno correva all'uccelliera per
accertarsi che era vivo ancora.
«Se è ancora in fortezza,
— pensava — se è esposto agli orrori che la fazione Raversi sta tramando contro
di lui, è colpa mia; è perché io non ho avuto il coraggio di fuggire in convento.
Che pretesto avrebbe avuto per restar qui quando fosse stato certo ch'io me
n'ero andata per sempre?»
E timida e orgogliosa
com'era, si ridusse a correre il rischio d'un rifiuto da parte di Grillo;
peggio: si espose a tutti i commenti che questo uomo avrebbe potuto pigliarsi
la libertà di fare sulla sua strana condotta. Scese all'umiliazione di farlo
chiamare e di dirgli, tremando nella voce che tradiva cosí il suo segreto, che
tra pochi giorni il signor Del Dongo sarebbe stato libero, che la duchessa
Sanseverina stava facendo pratiche attivissime a ciò; che era necessario
qualche volta aver l'immediata replica del prigioniero per certe proposte
fattegli: e perciò lo invitava a permettere che il signor Del Dongo aprisse un
piccolo foro nella tramoggia affinché essa potesse comunicargli, per segni, le
notizie che la signora Sanseverina le mandava anche piú volte nella stessa
giornata.
Grillo sorrise, l'assicurò
di tutta la sua rispettosa obbedienza e non aggiunse parola; Clelia gli fu
gratissima di quel mezzo silenzio: era evidente che egli sapeva benissimo
quanto si faceva da mesi.
Appena uscito il
carceriere, ella corse a far il segnale convenuto per chiamar Fabrizio nelle
grandi occasioni; gli raccontò quel che aveva fatto, e soggiunse: — Voi volete
morire avvelenato: io spero, uno di questi giorni, d'avere il coraggio di
lasciar mio padre e d'andarmi a nascondere in un convento lontano; e dovrò a
voi questa obbligazione; ma allora, spero, non rifiuterete piú le offerte che
vi si faranno per trarvi di qui. Finché ci siete, io passo momenti di terrori
insensati: in vita mia non ho fatto mai male a nessuno, e mi par d'esser io
cagione della vostra morte. Un'idea simile a proposito d'un qualunque
sconosciuto mi farebbe impazzire. Pensate come mi trovo quando penso che un
amico il quale sí, mi da gravi motivi di lagnanza per la sua irragionevolezza,
ma insomma un amico, che vedo da tanto tempo tutti i giorni, e tra le angosce
della morte! Qualche volta sento il bisogno di accertarmi, vedendovi, che siete
ancora vivo! Per togliermi a queste orribili angustie, son giunta a chiedere
una grazia a un subalterno che avrebbe potuto negarmela, che tuttavia può
tradirmi. E chi sa se non sarebbe meglio ch'egli mi denunciasse a mio padre! Io
partirei subito pel convento, e non sarei piú complice involontaria delle
vostre crudeli follie. Ma, credetemi, cosí non si può durare: voi obbedirete
alla duchessa! Siete contento, amico crudele? Son io che vi spingo a tradire
mio padre. Chiamate Grillo e fategli un regalo».
Fabrizio era cosí
innamorato, ogni espressione della volontà di Clelia gli dava tali sgomenti,
che neppur questo singolare discorso bastò a infondergli la certezza d'esser
riamato. Chiamò Grillo e gli pagò lautamente le passate condiscendenze, e gli
disse che per l'avvenire, ogni volta che avrebbe fatto uso del suo
osservatorio, gli avrebbe dato un zecchino. Grillo fu arcicontento di queste
condizioni.
— Monsignore, io le
parlerò col cuore sulle labbra. Perché vuoi seguitare a mangiar il pranzo
freddo ogni giorno? è tanto semplice evitare il veleno: invece d'un cane, ne
terrò parecchi; e lei potrà far loro assaggiar tutti i piatti che vorrà: quanto
al vino gliene darò del mio e lei non beverà goccia se non dalle bottiglie che
avrò io prima incignato. Ma le raccomando il segreto assoluto: un carceriere
deve veder tutto e non indovinar mai nulla di nulla. Se Vostra Eccellenza vuoi
la mia rovina, basta che si lasci sfuggir la menoma parola, anche con la
signorina Clelia: le donne son donne! Domani si bisticciano, metta caso, e
doman l'altro, per vendicarsi, lei va a raccontar tutto a suo padre, a cui non
parrebbe vero d'aver tanto in mano da far impiccare un carceriere! Dopo il
Barbone, è forse l'essere piú perverso della cittadella: e qui sta il maggior
pericolo di Vostra Eccellenza. Sa maneggiare i veleni, ne stia sicuro! E non mi
perdonerebbe la trovata di aver tre o quattro cagnoli.
Ci
fu un'altra serenata. Ormai Grillo rispondeva a tutte le domande di Fabrizio:
si era bensí ripromesso d'esser prudente, e di non tradire la signorina Clelia,
la quale, secondo lui, pur essendo in procinto di sposare il marchese
Crescenzi, l'uomo piú ricco degli Stati di Parma, faceva all'amore, per quel
tanto che le mura della prigione consentivano, con l'amabile monsignor Del
Dongo. Rispondeva alle ultime domande sulla serenata, quando sbadatamente si
lasciò scappar detto: — Pare che si sposeranno presto. — Si può immaginare
l'effetto di queste parole!
La notte, ai segnali della
lampada, Fabrizio non rispose se non per dire ch'era ammalato: e la mattina
dopo, quando verso le dieci Clelia comparve all'uccelliera, le domandò con un
tono di cortesia cerimoniosa, affatto nuovo tra loro, perché non gli avesse mai
francamente detto che amava il marchese Crescenzi e che stava per sposarlo.
— Perché non è vero nulla
— rispose Clelia con impazienza. Bisogna bensí aggiungere che il resto della
risposta fu meno esplicito: Fabrizio glielo fece notare, e profittò
dell'occasione per ripetere la domanda di un appuntamento. Ella al veder messa
in dubbio la sua buona fede consentí subito, pur facendo osservare che innanzi
a Grillo ella si disonorava per sempre. E la sera, a buio, comparve, in
compagnia della sua cameriera, nella cappella di marmo nero. Si fermò nel
mezzo, sotto la lampada: la cameriera e Grillo se ne andarono presso l'uscio,
un trenta passi distante, Clelia, tutta tremante di commozione, aveva preparato
un bel discorso: avrebbe voluto non lasciarsi sfuggire confessioni
compromettenti; ma la passione ha una logica inesorabile: il profondo interesse
che essa pone nel conoscer la verità, non le permette vane cautele: al tempo
stesso che la devozione ch'essa professa per ciò che ama, le risparmia ogni
timore di offendere.
Da otto mesi Fabrizio non vedeva
da vicino che carcerieri. Restò lí per lí abbagliato da quella straordinaria
bellezza; ma il nome del marchese Crescenzi lo risconvolse; e il suo furore
crebbe quando si convinse che Clelia rispondeva con ogni circospezione. Ella
stessa sentí di rafforzare i sospetti che avrebbe voluto distruggere: e il
persuadersene le fu penosissimo.
— Siete contento — disse
crucciata e con le lagrime agli occhi — d'avermi fatto passar sopra a tutti i
riguardi ch'io debbo a me stessa? Fino al tre agosto dell'anno scorso io non
avevo provato che repulsione per gli uomini che avevan cercato di piacermi.
Sentívo un disprezzo senza misura, probabilmente esagerato, per la gente di
Corte: tutti coloro che della Corte gioivano i favori, mi spiacevano.
All'opposto, un prigioniero che il tre di agosto fu chiuso nella cittadella mi
parve aver doti eccezionali. Senza rendermene conto, provai da prima tutti i
tormenti della gelosia: le attrattive d'una donna affascinante, e che io
conosco bene, eran pugnalate pel mio cuore, perché credevo, e lo credo un po'
ancora, che quel prigioniero l'amasse. Le persecuzioni del marchese Crescenzi
che già tempo addietro aveva chiesto la mia mano, ricominciarono piú
pressanti: egli è molto ricco e noi non abbiamo né denari né terre al sole. A quelle
insistenze opponevo una tranquilla fermezza quando mio padre pronunziò la
parola fatale: convento! Capii che, se abbandonavo la cittadella non m'era piú
possibile vigilar sulla vita del prigioniero alle cui sorti già m'interessavo.
Fino allora, mediante precauzioni che furono il mio capolavoro, mi era riuscito
di far ch'egli neppur sospettasse dei pericoli che lo minacciavano; e avevo
fermo il proposito di non tradir né mio padre né il mio segreto; ma la donna
intelligentissima, attivissima e di una indomabile volontà che protegge il
prigioniero, gli offrí, come io suppongo, dei mezzi d'evasione: egli li rifiutò
e volle persuadermi che non fuggiva dalla fortezza per non allontanarsi da me.
Allora io commisi un grave errore: combattei per cinque giorni, mentre avrei
dovuto subito rifugiarmi in convento: modo assai semplice di finirla col
marchese Crescenzi. Non ho avuto la forza di lasciar la cittadella; e ora sono
perduta! Io mi sono avvinta a un uomo leggero: so quale è stata a Napoli la sua
condotta: come posso credere che egli sia mutato? Chiuso in una prigione
rigorosa, ha fatto la corte alla sola donna che gli era possibile di vedere:
uno svago nella noia. Ma siccome non poteva parlarle che con qualche
difficoltà, questo svago ha assunto la falsa apparenza d'una passione. E poiché
questo prigioniero gode giustamente fama di uomo coraggioso, s'immagina di
provar che il suo amore non è un capriccio passeggero, con lo esporsi a grandi
pericoli per seguitare a veder la persona che si figura di amare. Ma, appena
sarà in una città grande, tra nuove seduzioni della vita brillante, tornerà ad
essere quel che fu sempre, un uomo dedito alle dissipazioni e alla galanteria,
e la sua povera compagna di prigione finirà i suoi giorni in un convento,
dimenticata, e col mortale rammarico di avergli palesato i suoi sentimenti.
Questo
discorso, di cui non abbiam riferito che i tratti principali, fu, com'é facile
indovinare, interrotto venti volte da Fabrizio. Egli era perdutamente
innamorato, convinto di non aver conosciuto l'amore avanti di conoscer Clelia,
e che suo destino era non vivere che per lei. Cosí il lettore può immaginare le
belle cose che andava dicendo, quando la cameriera avvertí la padroncina
ch'eran sonate le undici e mezzo e che il generale poteva tornar da un momento
all'altro. La separazione fu crudele.
— Forse è l'ultima volta
che vi vedo — disse Clelia al prigioniero. — Un fatto, che è troppo
evidentemente negli interessi della cricca Raversi, può offrirvi un ben triste
modo di provarmi la vostra costanza. — E lo lasciò singhiozzando, piena di
vergogna di non riuscire a nascondere le sue lagrime alla cameriera e,
soprattutto, al carceriere. Un secondo colloquio non sarebbe possibile se non
quando il generale avvisasse di dover passar la serata in società; e poiché da
quando Fabrizio era in carcere, data la curiosità che destava, era sembrato
prudente al Conti d'aver quasi sempre la gotta, le sue gite in città,
subordinate alle esigenze d'una saggia politica, non si deliberavano per lo piú
che al momento di salire in carrozza.
Dalla sera
dell'appuntamento nella cappella marmorea, la vita di Fabrizio fu tutta
un'estasi. Certo, gli pareva che grandi ostacoli s'opponessero alla sua
felicità, ma aveva la gioia, non sperata fino allora, di sapersi amato dalla
divina creatura, oggetto di tutti i suoi pensieri.
Tre
notti dopo, le segnalazioni luminose cessarono presto: presso a poco sulla
mezzanotte; nel momento in cui terminavano, poco mancò che Fabrizio avesse la
testa fracassata da una palla di piombo che lanciata entro la parte superiore
della tramoggia sfondò l'impannata alla finestra e venne a cadergli fra i
piedi.
Il peso della palla era
minore di quanto si sarebbe creduto a giudicar dal volume: Fabrizio l'aprí e
trovò una lettera della duchessa. Per mezzo dell'arcivescovo ch'ella sapeva
lusingare con grande cura, era arrivata ad aver dalla sua un soldato di
presidio nella fortezza: e questi, accortissimo, ingannava con arte le
sentinelle poste a guardia sugli angoli e sulla porta del palazzo del governatore
o trovava il verso di mettersi d'accordo con loro.
«Bisogna che tu ti salvi
con delle corde: io tremo nel darti questo consiglio e ho titubato due mesi
prima di dirti queste parole: ma le cose si fan sempre piú buie, e bisogna
aspettarsi quanto v'ha di peggiore. A proposito: ricomincia subito i segnali
col lume e assicuraci che hai ricevuto questa lettera pericolosissima: segna P.
B. G. alla monaca ossia quattro,
dodici e due: io non potrò tirar fiato finché non abbia visto questi segnali.
Sono alla torre e risponderò N. e O.: sette e cinque. Ricevuta questa risposta,
non far altri segnali e pensa solo a capir la mia lettera.»
Fabrizio
s'affrettò a far le indicazioni convenute, e a queste seguí la risposta
annunciata; poi continuò a leggere.
«C'é da aspettarsi quanto
v'ha di peggiore, me lo hanno assicurato le tre persone in cui ho piena
fiducia, avendomi giurato sul Vangelo che mi avrebbero detta tutta la verità,
per quanto potesse esser penosa. Il primo minacciò il chirurgo, che ti voleva
denunciare a Ferrara, col coltello alla mano; il secondo è quegli che al tuo
ritorno da Belgirate ti disse che a rigore sarebbe stato piú prudente tirare
una pistolettata al cameriere che arrivava nel bosco cantando e menando per la
cavezza un bel cavallo un po' magro. Il terzo non lo conosci: è un ladrone di
prim'ordine, amico mio, uomo d'azione come ce n'é pochi, e coraggioso al pari
di te. Per questo gli ho domandato ciò che dovresti fare. E tutti tre, senza
saper l'uno dell'altro, m'han detto che val meglio rischiar di rompersi il
collo, che durare ancora undici anni e quattro mesi, nel timore continuo di un
molto probabile avvelenamento.
«Bisogna dunque che per un
mese tu ti eserciti in camera tua a salire e scendere per mezzo di una corda
annodata. E un giorno di festa che alla guarnigione della cittadella sarà fatta
una distribuzione di vino, tenterai la grande impresa. Avrai tre corde di seta
e canapa, dello spessore d'una penna di cigno: la prima d'ottanta piedi per
scendere i trentacinque piedi dalla tua finestra agli aranci; la seconda di
trecento piedi (e qui è il difficile a cagione del peso) per i centottanta,
quant'é l'altezza del muro della torre grande; e una terza di trenta piedi che
ti servirà a venir giú dal bastione. Io passo le giornate a studiare il gran
muro a levante, cioé dalla parte di Ferrara: una crepa prodotta da un terremoto
è stata chiusa con un contrafforte che viene a fare un piano inclinato. Il mio
brigante afferma che si sentirebbe di scendere da questo lato senza troppe
difficoltà e senz'altro rischio che di qualche sbucciatura, lasciandosi andare
su questo piano inclinato; per la verticale son ventotto piedi d'altezza: e
questa è la parte meno sorvegliata.
«Peraltro, tutto
considerato, il mio brigante, che tre volte è evaso e che ti piacerebbe se tu
lo conoscessi, sebbene egli odii la gente del tuo ceto, e che è agile e svelto
come te, dice che gli parrebbe meglio scender da ponente, proprio di fronte al
palazzetto dove un tempo stava la Fausta; e che al signor Fabrizio è notissimo.
Ragione della preferenza è che il muro, sebbene poco inclinato, è pieno di
cespugli, di pezzetti di legno piccoli come il dito mignolo, che possono, se
non ci si bada, far qualche scorticatura, ma sono utilissimi per sorreggersi.
Anche stamani guardavo questo muro a ponente con un ottimo cannocchiale; il
punto da scegliere è precisamente sotto una pietra nuova che han rimessa sulla
balaustrata due o tre anni fa. Verticalmente al disotto di questa pietra vedrai
prima uno spazio d'una ventina di piedi: bisogna andarci lentissimamente (tu ti
figuri come il mio cuore sussulta dandoti queste terribili indicazioni; ma il
coraggio consiste nello scegliere il minor male, per quanto appaia spaventoso).
Dopo questo spazio scoperto, troverai ottanta o novanta piedi di cespugli assai
forti, dove si vedon volar degli uccelli; poi ancora uno spazio d'una trentina
di piedi senz'altro che erbe, violacciocche e parietarie; finalmente, vicino a
terra, ancora una ventina di piedi di cespugli, e una trentina da poco
rintonacati.
«Questo lato mi par
preferibile, perché sotto la pietra nuova che t'ho detto, c'é una baracca di
legno, costruita da un soldato nel suo giardinetto; il capitano del genio
addetto alla fortezza può obbligarlo a demolirla: è alta un diciassette piedi,
con un tetto di pattume appoggiato al muro della cittadella. E quel che mi
tenta è appunto il tetto, che, in caso di qualche sciagurato accidente,
ammortirebbe la caduta. Una volta giunto là, sei nella cinta dei bastioni,
quasi non guardata: se ti arrestassero, spara un colpo di pistola o due, e
difenditi per qualche minuto. Il tuo amico di Ferrara e un altro uomo di cuore,
quello ch'io chiamo il «brigante», hanno delle scale e voleranno in tuo aiuto.
Il bastione non è alto che ventitré piedi a scarpata: io sarò là con un buon
numero di gente armata.
«Spero di poterti far
avere altre cinque o sei lettere con lo stesso mezzo. Ripeterò su per giú le
stesse cose in altri termini per metterci bene d'accordo. Puoi immaginare con
che cuore ti dico che l'uomo "dalla pistolettata al cameriere", che
dopo tutto è un uomo eccellente e pentitissimo, crede che te la caverai con la
rottura d'un braccio. Ma il mio brigante, che in queste faccende ha molto
maggiore esperienza, è di parere che se tu scendi pian pianino senza furia, la
libertà non ti costerà che qualche scorticatura. La gran difficoltà è farti
aver le corde: da quindici giorni non penso che a questo.
«Non
rispondo neppure a quella pazzesca esclamazione, sola sciocchezza che tu abbia
detto in vita tua: «Io non voglio fuggire». L'uomo "dalla
pistolettata" esclamò che la noia ti aveva fatto ammattire. Non ti
nascondo che noi abbiamo ragione di temere imminenti pericoli che faran forse
anticipare il giorno della tua fuga: per darti notizia di questo pericolo la
lampada dirà: «S'é incendiato il castello». Tu risponderai: «Son bruciati i
miei libri?»
La lettera scritta in
caratteri microscopici in carta sottilissima conteneva ancora cinque o sei
pagine di minuti particolari.
«Tutto
questo è bellissimo e ben trovato, — disse Fabrizio — e io debbo eterna
riconoscenza alla duchessa e al conte. Crederanno forse ch'io abbia paura; il
fatto è ch'io non scappo! Ma quando mai uno è scappato dal luogo dove ha
trovato la piú grande delle felicità, per precipitarsi in un orribile esilio,
dove mancherebbe perfino l'aria da respirare? E che farei dopo un mese ch'io
fossi a Firenze? Certo mi travestirei in qualche modo per poter venire a
gironzare intorno a questa fortezza, con la speranza di incontrare uno
sguardo!»
Il giorno dopo ebbe paura:
era al suo osservatorio, verso le undici, guardando il magnifico paesaggio, e
aspettando il momento di veder Clelia, quando Grillo entrò affannato in camera:
—
Presto, presto, monsignore, si metta a letto e finga d'esser malato. Salgono
tre giudici. La interrogheranno; pensi bene prima di rispondere; cercheranno
d'imbrogliarla.
E cosí dicendo,
s'affrettava a chiudere la piccola apertura della tramoggia, spingeva Fabrizio
sul letto e lo copriva con due o tre mantelli.
—
Dica che è molto sofferente, e parli poco e si faccia ripeter le domande, per
aver tempo di pensarci su.
I tre giudici entrarono.
«Tre evasi dalle patrie galere e non tre giudici» pensò Fabrizio al veder
quelle facce ignobili. Vestivano toghe nere; salutarono gravemente e presero,
senza dir parola, le tre seggiole ch'erano nel gabbiotto.
— Signor Fabrizio Del
Dongo, — disse l'anziano — noi siamo dolenti della penosa missione che è nostro
dovere compiere. Siamo qui per annunciarle la morte di Sua Eccellenza il signor
marchese Del Dongo, suo padre, secondo gran maggiordomo del regno
lombardo-veneto, cavaliere gran croce degli ordini ecc. ecc.
Fabrizio ruppe in pianto.
Il giudice continuò:
La signora marchesa Del
Dongo, sua madre, le dà partecipazione della luttuosa notizia in una lettera;
ma siccome ella vi aggiunge osservazioni sconvenienti, la Corte di giustizia con ordinanza di ieri ha stabilito che di questa lettera le si comunicasse
solo un estratto: di questo estratto il signor cancelliere Bona le darà subito
lettura.
La
lettura terminata, il giudice si avvicinò a Fabrizio, sempre steso sul letto, e
gli mostrò nella lettera di sua madre i passi dei quali eran state lette le
copie: e Fabrizio adocchiò le parole «prigione iniqua», «crudele punizione per
un delitto insussistente» e capí la ragione di quella visita. Ma, nel suo
disprezzo per magistrati disonesti, non aggiunse che queste parole:
— Io son malato, signori,
sfinito di languore; mi scusino se non posso levarmi.
Usciti i giudici, Fabrizio
pianse ancora a lungo, poi si domandò: «Ma sono io dunque un ipocrita? Perché
mi pare di non avergli mai voluto bene».
Quel giorno e i seguenti,
Clelia fu assai triste: lo chiamò piú volte, ma egli ebbe appena il coraggio di
dirle poche parole. La mattina del quinto giorno dopo il primo convegno, lo
avvertí che nella serata verrebbe nella cappella di marmo.
— Poche parole soltanto: —
gli disse entrandovi: tremava a tal punto da doversi appoggiare alla cameriera
dopo averla rimandata sulla porta della cappella — datemi la vostra parola
d'onore — soggiunse con voce appena intelligibile — datemi la vostra parola
d'onore di obbedire alla duchessa, e di tentar la fuga quand'ella ve lo dirà e
nei modi che vi indicherà: o domani io vo in convento, e vi giuro che in vita
mia non vi rivolgerò piú la parola. Fabrizio tacque.
— Promettetemi, — disse
ella con le lagrime agli occhi e quasi fuori di sé — o questa è l'ultima volta
che ci parliamo. La mia vita, per cagion vostra, è orribile: voi restate qui
per me, e ogni giorno può esser l'ultimo vostro!
Era cosí sfinita che dové
appoggiarsi a una grande poltrona, posta già in quella cappella per uso del
principe prigioniero: era per svenire.
— Che debbo promettere? —
chiese Fabrizio in grande abbattimento.
— Lo sapete.
—
Giuro dunque di gittarmi con piena coscienza nella piú orribile delle sciagure,
e di condannarmi a viver lontano da tutto ciò che amo a questo mondo.
— Voglio promesse piú
precise.
— Giuro d'obbedire alla
duchessa, e di tentar la fuga quando e come vorrà. Ma che sarà di me una volta
lontano da voi?
— Giurate di fuggire
qualunque cosa possa accadere.
— Come? sposerete il
marchese Crescenzi, quand'io non ci sarò piú?
— Oh Dio! che stima avete
di me! ma giurate o io non avrò piú pace per un solo minuto nell'anima mia.
— Ebbene, giuro di fuggire
quando la Sanseverina me lo imporrà, checché avvenga.
Ottenuto questo
giuramento, Clelia era cosí sfinita che dové andarsene.
Ringraziò Fabrizio, e
aggiunse:
— Tutto era disposto per
la mia fuga domattina, se vi foste ostinato a restare. Vi avrei visto per un
momento e sarebbe stata l'ultima volta: ne avevo fatto voto alla Madonna. Ora,
appena potrò aver un momento libero, andrò a esaminare il muro terribile sotto
la pietra nuova della balaustrata.
Il giorno dopo la vide cosí
pallida che ne provò un vivo senso d'angustia. Ella dalla finestra
dell'uccelliera gli disse:
— Non c'é da illudersi,
amico mio: il nostro affetto è colpevole, e son certa che ci coglierà qualche
sventura; potrete forse essere scoperto, mentre cercate fuggire, se pur non
avviene anche di peggio; ma bisogna seguire i suggerimenti della prudenza
umana, che vuole si tenti qualunque cosa. Per scender fuori dalla gran torre vi
bisogna una corda solida di piú che ducento piedi. Per quanto io mi sia data da
fare dacché conosco i progetti della duchessa, non sono riuscita che a
procurarmi dei pezzi di corda che fra tutti non arrivano che a una cinquantina
di piedi. Per ordine del governatore tutte le funi che si trovano in fortezza
sono bruciate; e tutte le sere si levano e si ripongono le corde de' pozzi, che
poi son cosí deboli che si rompono qualche volta nel tirar su leggerissimi
pesi. Dio mi perdoni: io tradisco mio padre, e lavoro, figlia snaturata, a
preparargli dolori mortali. Pregate per me, e se salvate la vita fate voto di
consacrarla tutta alla gloria di Dio.
«Mi viene un'idea: tra
otto giorni uscirò dalla cittadella per assistere alle nozze d'una sorella del
marchese Crescenzi. Rientrerò naturalmente la sera, ma il piú tardi che mi sarà
possibile, e può darsi che Barbone non s'arrischi a guardar troppo pel sottile.
A queste nozze della sorella del marchese saranno le dame di Corte, e certo la
signora Sanseverina. Per amor di Dio, fate che una di queste signore mi
consegni un pacco di corde solide, ma strettamente legate, in modo da far poco
volume. A costo di espormi a mille morti, io userò d'ogni mezzo anche il piú
pericoloso per portar questo pacco nella cittadella calpestando tutti i miei
doveri. Se mio padre avesse ad accorgersene, non vi vedrò piú mai; ma qualunque
possa essere il destino che m'attende, sarò felice se, nei limiti d'un'amicizia
fraterna, avrò potuto cooperare a salvarvi.»
La sera medesima, con la
solita lampada, Fabrizio avvertí la duchessa dell'occasione unica che si
presentava per fare entrare nella cittadella una quantità di corde sufficiente
allo scopo. Ma la supplicava di serbare il segreto, anche col conte.
«È matto, — pensò la
duchessa — la prigione l'ha mutato tragicamente! Ei volge tutto in tragedia». E
il giorno dopo, un'altra palla di piombo, lanciata dal solito fromboliere,
portò al prigioniero la notizia del piú gran pericolo possibile: la persona che
prendeva l'impegno di far entrare le corde, gli salverebbe positivamente,
sicuramente la vita. Fabrízio si affrettò a dirlo a Clelia. La lettera recava
anche un profilo esatto del muro di ponente, pel quale egli doveva scendere
dall'alto della gran torre, nello spazio compreso fra i bastioni: di lí la
discesa era facile, il bastione non avendo, come si sa, che ventitré piedi di
altezza. Sul verso del disegno, era in minutissima scrittura un bel sonetto:
un'anima generosa esortava Fabrizio alla fuga, e a non lasciare deperire il suo
corpo e prostrare la sua bell'anima dagli undici anni di prigionia che gli
restavano tuttavia da sostenere.
A
questo punto, un particolare necessario, e che spiega come la duchessa osasse
consigliare una fuga tanto arrischiata, ci obbliga a interrompere un momento la
storia di questa temeraria intrapresa.
Come
tutti i partiti quando non sono al potere, il partito Raversi non era molto
unito. Il cavalier Riscara detestava il fiscale Rassi perché gli aveva fatto
perdere una causa importante, in cui, per dir la verità, egli Riscara aveva
torto; da lui il principe ricevé la lettera anonima che lo avvertiva dell'invio
ufficiale della sentenza di Fabrizio al comandante della cittadella. La
marchesa Raversi, capo del gruppo, fu irritatissima di questo passo falso, e ne
fece dar subito avviso al suo amico avvocato fiscale generale: a lei pareva
naturalissimo ch'egli cercasse sfuggire quanto si poteva dal conte Mosca finché
questi restava al potere. Il Rassi andò a palazzo, imperterrito, sicuro di
cavarsela con qualche pedata: il principe non poteva fare a meno d'un
giureconsulto abile, e i soli due del paese, un giudice e un avvocato che
avrebbero potuto sostituirlo, il Rassi li aveva fatti esiliare come liberali.
Il
principe, furioso, lo copri d'ingiurie e gli andò contro per picchiarlo.
—
Eh! è una distrazione dell'impiegato: — rispose il Rassi col maggior sangue
freddo — la cosa è prescritta dalla legge, e avrebbe dovuto esser fatta subito
il giorno dopo l'immatricolazione del signor Del Dongo nella cittadella. Il
segretario, zelante, avrà creduto d'essersene dimenticato, e m'avrà fatto
firmar la lettera di accompagnamento come una pratica ordinaria.
— E tu pensi di darmi a
credere di coteste frottole? — gridò il principe piú furioso che mai — di'
piuttosto che ti sei venduto a quel briccone del Mosca; e che per questo t'ha
data la croce. Ma per Dio! non te la caverai con delle bòtte: ti farò mettere
sotto processo e ti destituirò vergognosamente.
— Io la sfido a farmi
mettere sotto processo — rispose il Rassi con grande tranquillità: sapeva che
questo era il modo piú sicuro di calmarlo. — La legge è per me; Vostra Altezza
non ha un altro Rassi per saperla eludere. E Vostra Altezza non mi destituirà:
ci son de' momenti in cui lei è severo, e in quei momenti ha sete di sangue: ma
nel tempo stesso le preme la stima degl'Italiani ragionevoli: questa stima è
una condizione sine qua non per le
sue ambizioni. In ogni caso lei mi richiamerà appena un atto di severità sarà
necessario al suo temperamento; e al solito io le procurerò una sentenza ben
formulata, pronunciata da giudici timidi e abbastanza onesti, la quale soddisfi
le sue passioni. Vostra Altezza trovi ne' suoi Stati, se le riesce, un
altr'uomo cosí utile come me!
E detto questo se ne andò:
se l'era cavata con cinque o sei calci e un colpo di regolo. Uscito da palazzo,
partí per la sua terra di Riva: nei primi impeti della collera sovrana il
pericolo di una pugnalata sapeva di correrlo; ma, calmate le ire, era piú che
certo che avanti quindici giorni un corriere lo avrebbe richiamato alla
capitale. In campagna, impiegò il tempo a studiare un modo sicuro di mettersi
in corrispondenza col conte Mosca. S'era infatuato della baronia, e pensava che
il principe teneva in troppo gran conto quella gran cosa che è la nobiltà per
accordargliela mai; mentre il Mosca, orgoglioso della sua stirpe, non faceva
nessuna stima della nobiltà che non risalisse almeno al quattrocento.
Il Rassi non s'era
sbagliato: era in campagna da otto giorni appena, quando un amico del principe,
capitatoci come per caso, gli consigliò di tornar subito a Parma. Il principe
lo ricevé sorridendo: ma, presa poi subito un'aria grave, gli fece giurar sul
Vangelo che avrebbe serbato il segreto intorno a ciò che stava per confidargli.
Il Rassi serio serio giurò, e Sua Altezza, con gli occhi fiammeggianti d'ira,
cominciò a gridare che fino a quando quel Del Dongo fosse vivo, non gli sarebbe
parso d'esser padrone a Parma.
— Non posso né cacciar la
duchessa né tollerarne la presenza: quei suoi sguardi mi provocano e mi
avvelenano la vita!
Dopo averlo lasciato
sfogare un pezzo, il Rassi, fingendosi preoccupatissimo, disse finalmente:
— Vostra Altezza sarà
obbedita, certamente: ma la cosa è di tremenda difficoltà. Non si può mandare a
morte un Del Dongo per l'uccisione d'un Giletti! è già molto aver potuto
trovarci pretesto a dodici anni di fortezza! Eppoi credo che la duchessa abbia
scovato tre dei contadini che lavoravano agli scavi a Sanguigna, e che si
trovaron fuori dal fosso quando quel brigante del Giletti aggredí il Del Dongo.
— Dove sono questi
testimoni? — domandò il principe irritato.
— Ma! suppongo nascosti in
Piemonte. Ci vorrebbe una congiura contro la vita di Vostra Altezza....
— No no, è un mezzo
pericoloso: diventa un'istigazione.
— Pure, questo è tutto il
mio arsenale ufficiale — commentò il Rassi facendo l'innocentino.
—
Resta il veleno....
— Ma chi lo darà?
Quell'imbecille del Conti?
—
Non sarebbe, dicono, alla sua prima prova. Bisognerebbe farlo andare in
collera; — ripigliò il Rassi — ma poi, quando spacciò il capitano, non aveva
ancora trent'anni, era innamorato e senza confronto meno pusillanime di quel
ch'é oggi. Certamente alla ragion di Stato tutto deve cedere; ma, preso cosí
alla sprovvista, non saprei pensar ad altri, per eseguire i suoi ordini, che a
un certo Barbone, impiegato alla cancelleria della cittadella, e che il signor
Del Dongo schiaffeggiò il giorno del suo arresto.
Tranquillizzatosi il
principe, la conversazione non finiva piú: quegli la troncò concedendo un mese
di tempo all'avvocato fiscale che ne voleva due e che, il giorno di poi, ricevé
una gratificazione segreta di mille zecchini. Questi ci pensò tre giorni: il
quarto tornò al suo ragionamento che gli pareva stringente. «Soltanto il conte
Mosca mi può mantener le promesse, perché, se mi fa barone, mi da cosa di cui
non fa conto affatto; poi, avvertendolo, io mi risparmio un reato, pel quale
sono stato pagato anticipatamente; infine vendico le prime umiliazioni che
"il cavalíer Rassi" abbia subite.» E la notte dopo, comunicò al primo
ministro tutta la conversazione avuta col sovrano.
Il conte Mosca faceva in
segreto la corte alla duchessa: vero è che in casa di lei non andava che una o
due volte al mese, ma quasi tutte le settimane, e ogni volta che sapeva trovar
qualcosa da dirle di Fabrizio, la duchessa, accompagnata dalla Checchina,
andava sul far della notte a passar qualche momento nei giardini del conte. Era
riuscita a ingannare il suo cocchiere, che pur era fidatissimo, e che la
credeva in visita in una casa vicina.
Si può immaginare se il
conte, appena avuta la gravissima confidenza del Rassi, si affrettasse a fare
alla duchessa il segnale convenuto.
Per quanto si fosse verso
la mezzanotte, ella lo fece pregare dalla Checchina di passar subito da lei: ed
egli commosso, come un innamorato, di questa apparenza d'intimità, esitò a
dirle tutto. Temeva che il dolore la facesse impazzire.
Dopo aver cercato de'
mezzi termini per mitigar la fatale notizia, dové pur finire col dirle tutto.
Serbar un segreto che ella volesse conoscere, non era in potere di lui. Da nove
mesi ormai la sventura aveva temprato quell'indole invigorita, quell'anima
ardente, e la duchessa non diede in pianti e in ismanie. La sera dopo fece
segnalare a Fabrizio il grave pericolo.
«S'é incendiato il castello.»
Egli rispose:
«Son
bruciati i miei libri?»
E la notte stessa gli fece
recapitare una lettera in una palla di piombo; otto giorni dopo si celebrarono
le nozze della sorella del marchese Crescenzi. La duchessa fu della cerimonia e
vi commise una gravissima imprudenza della quale sarà detto a suo tempo.
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